Una sgradita sorpresa ci aspettava però alla riapertura delle scuole, in quell’ottobre 1965.
Noi ragazzi dell’ultimo ciclo saremmo dovuti tornare sui vecchi banchi di legno dell’ex convento dei Cappuccini.
Evidentemente il boom economico era andato di pari passo con il boom demografico; così si erano formate più prime classi e non, “vecchietti” di quinta, avevamo dovuto cedere il passo ai “primini”, che avevano finito con l’occupare anche l’aula della nuova scuola a noi destinata.
Ricordo che in classe vi erano numerosi pluriripetenti: dei giangalloni che, con uno o due anni più di noi regolari, sembravano in realtà degli adulti, sia per la loro statura, sia per il fatto che avendo già subito la muta della voce, apparivano effettivamente diversi da noi ragazzetti di soli dieci anni. Ricordo anche che il maestro Lai (così si chiamava il nostro nuovo maestro) durava fatica a domare quei ragazzi ribelli che tutto volevano meno che studiare, scrivere e parlare in italiano.
Il maestro li puniva con una bacchetta nera, vero terrore di tutti noi, con cui gli massaggiava duramente il dorso delle mani.
Incuranti dei colpi noi continuavano imperterriti a parlare in Sardo (all’epoca vi era un vero e proprio divieto, incoraggiato dai genitori, i quali sostenevano che a parlare in Sardo l’avremmo finita come loro, a zappare nei campi oppure a vivere alla giornata).
Anche io amavo parlare in Sardo. Lo avevo imparato in strada, con la mia banda, interamente sardofona (anzi, chi parlava in italiano veniva considerato un soggetto, da prendere per il culo, in quanto figlio di continentale, figlio unico oppure, addirittura, mezzo caghineri). E lo avrei affinato con le lunghe chiacchierate con la mia nonna materna Giuseppina, nelle sere d’inverno, passate accanto al caminetto acceso della cucina padronale.
Però avevo la fortuna di avere una facile parlantina anche in italiano, in quanto in casa mia, a parte le mie nonne (che parlavano rispettivamente in Sardo e in Siciliano) la lingua di comunicazione era quella dell’idioma di Dante.
Ho impresso bene, in quell’anno, la prima volta che il mio cuore ha esultato davanti alla bellezza femminile. Loro, le ragazze, seppure con il fiocco rosso come noi, indossavano un grembiule bianco (il nostro era nero). La mia Venere era bionda, con gli occhi celesti, alta e d’incarnato bianco e, per di più di origine continentale (mi pare fosse trentina o veneta, con quel cognome che terminava con la consonante che rendeva tronca una sillaba altrimenti piana ).
Nessun pensiero perverso, sia chiaro. Si trattava di ammirazione pura per una creatura che rendeva onore al nostro Creatore e alla Sua grandezza. Anche perché una stanga del genere era fuori dalla mia portata e, comunque, in confronto a lei, mi sentivo ed ero un bambino mentre lei aveva aveva fattezze di donna matura. O almeno così mi pare di ricordare.
Ricordo ancora i miei quaderni di ispirazione risorgimentale: Enrico Toti, che lanciava la sua stampella contro gli odiati Austriaci; Pietro Micca che si faceva saltare in aria; Ciro Menotti che veniva trascinato davanti al plotone di esecuzione pur di non fare la spia al nemico. E Giuseppe Garibaldi sul suo cavallo bianco che consegnava le chiavi del Regno delle due Sicilie a Vittorio Emanuele Secondo.
Celentano cantava “Il ragazzo della via Gluck”, primo, grande manifesto ecologista, che ci avrebbe accompagnato per tutto il 1966 (e per gli anni a venire); Little Tony “Riderà”; I Rockes “E la pioggia che va”. I Beatles spopolavano con “Michelle”. Il ritornello faceva “I need you, I need you, I need you…”; e io, che non avevo ancora iniziato a studiare la lingua inglese, nella mia ingenuità capivo “Anita, Anita, Anita…”; anche perché una ragazza del mio vicinato, che così si chiamava, girava in bicicletta lungo la strada su cui si affacciava il nostro negozio, mettendo in mostra le sue belle gambe; ed io pensavo che quelle attrazioni mobili meritassero quel ritornello così accattivante e melodioso.
Quell’anno conobbi per la prima volta la “vela”; cioè marinare la scuola; nel nostro caso però non si andava al mare ma bensì al fiume. Ci si spogliava in maniera integrale (affinché gli indumenti non assorbissero l’odore inconfondibile dell’acqua di fiume) e si sguazzava in acqua sino all’ora finale delle lezioni.
I nostri genitori non volevano che si andasse al fiume; non solo e non tanto marinando la scuola (quello era fuori discussione); ma anche durante l’estate torrida del nostro paese, quando il fiume era un vero e proprio refrigerio contro la calura.
Mio padre diceva che era pericoloso, perché il fiume era frequentato dai vagabondi del paese e aveva paura che ci potessero essere degli abusi di natura sessuale.
Magari c’era qualcuno malizioso che sibiliva tra i denti equivoci apprezzamenti sulle forme effeminate di qualcuno dalla carnagione particolarmente bianca; ma non ho mai saputo di abusi sessuali. Effettivamente, al fiume, c”era una qualche forma di bullismo; ma noi ragazzini piccoli eravamo molto veloci, in acqua e fuori; e alla bisogna sapevamo anche fare gruppo contro qualche compagno di giochi, troppo grande e tanto scemo.
Un giorno che avevamo marinato la scuola per l’ennesima volta, non so se per caso oppure se informato dell’assenza del figlio da qualche spione di turno, il papà di Gigi lo sorprese al fiume. Gli intimò di prendere gli indumenti (senza indossarli) e così, nudo come la moglie lo aveva fatto, lo accompagnò al paese, menandolo con la cinghia, il povero Gigi davanti e il papà dietro, che lo riempiva di improperi e di cinghiate.
Dopo un paio di giorni fu lo stesso Gigi, davanti al portone della scuola, a proporre: “Ma poita cazzu non sind’andausu a s’arriu?”
Tradotto e ripulito in italico idioma: “Ma perché non ce ne andiamo al fiume?”