Ricordi di viaggio fra i Tuareg del Sahel – parte seconda

Creato il 05 gennaio 2013 da Maria Carla Canta @mcc43_

mcc43

di Pietro Acquati
Medico, coordinatore di progetti umanitari autofinanziati in Burkina Faso

La terra assetata dell’Alto Volta e il “bene acqua”

“Ci sono due specie di terra. Una ha l’acqua di sotto, si fa un buco e affiora. È terra facile. L’altra dipende dal cielo, ha solo quella fonte. È magra, ladra, capace di rubare acqua al vento e alla notte, e appena ne ha un poco la spende tutta subito in colori trattenuti nel midollo dei sassi e mette forza di zuccheri nei frutti e butta profumo da sfacciata. È terra di cielo asciutto.” Tre cavalli – Erri De Luca

Le terre dell’Alto Volta sono terre “di cielo asciutto”. La stagione delle piogge benedice il Burkina Faso una sola volta all’anno, da giugno a settembre. Durante questi mesi gli abitanti dei villaggi lavorano incessantemente i campi per strappare alla terra sabbiosa il miglio rosso, quello bianco (piccolo miglio) e diverse specie di ortaggi. Purtroppo il raccolto di fine Ottobre non sempre assicura il sostentamento per il resto dell’anno. Nella regione desertica del Sahel le piogge sono ancora più scarse, solo due mesi l’anno; la conseguenza di tutto ciò si ripercuote sul raccolto. L’arrivo di migliaia di profughi non ha potuto che infierire su una situazione già instabile e precaria. Le famiglie soffrono e con loro i bambini più piccoli. È da qui che nascono le ferite inaccettabili dell’Africa sub sahariana: malnutrizione, piaghe, elevata percentuale di mortalità infantile.
Aspetto ancora più rilevante è rappresentato dal  “bene acqua” : nel Sahel, la disponibilità di acqua nella stagione secca può scendere ben al di sotto di 5 litri al giorno per famiglia, quantità insufficiente anche per i bisogni primari. Attingere acqua si trasforma in lavoro logorante che spesso è affidato ai più piccoli della famiglia. Da sempre ho reagito con un rifiuto viscerale alla vista di donne e bambini carichi di taniche da 25 o 30 litri sulle spalle, che ogni giorno percorrono piste polverose con temperature percepite di oltre 40 gradi.

L’accesso all’acqua potabile è assicurato dalla costruzione di pozzi artesiani. La profondità di penetrazione nel terreno copre circa 50-70 metri ed è a questi livelli di trivellazione che è possibile raggiungere falde di acqua potabile e di lunga durata negli anni. Lo Stato dovrebbe assicurare un pozzo ogni 300 abitanti, ma la realtà è ben diversa. I villaggi dell’entroterra e al nord del paese offrono un pozzo ogni 600 abitanti distribuiti su un diametro di alcuni chilometri. Per far fronte al bisogno di acqua, la popolazione è costretta a costruirsi pozzi scavati a mano, che raggiungono un massimo di 10-20 metri. A queste profondità l’acqua non è potabile, di aspetto fangoso e ricca di microrganismi patogeni per l’uomo. É per questi motivi che troppo spesso l’acqua non è sorgente di vita, ma di morte. La seconda causa di decessi in età pediatrica è causata da diarrea conseguente all’assunzione di acqua non potabile.

Chiunque abbia avuto occasione di percorrere le strade dei paesi più poveri ha appreso l’attenzione, il rispetto e il culto silenzioso tributato collettivamente al “bene acqua”. Negli anni precedenti ci siamo dedicati,  così come tante altre associazioni ed ONG,  alla raccolta fondi per la costruzione di pozzi nella provincia di Fada N’Gourma. Quando ritorno in quelle zone mi fermo in silenzio e osservo immobile il brulichio di donne e bambini che attingono acqua chiara, pulita.

A Gandefabou i pozzi funzionanti (non ancora prosciugati) sono appena sufficienti a soddisfare le esigenze della popolazione locale. L’arrivo dei profughi ha costretto a condividere  il vitale “bene acqua”. Un pozzo artesiano si trova all’interno del perimetro del campo, ed è solo qui che i maliani possono attingere. Insufficiente una sola pompa e tra breve tempo sarà insufficiente anche la falda acquifera.
Quando ti ritrovi ad ascoltare intere famiglie che vivono in condizioni di precarietà per mancanza di cibo e acqua, vivi l’impotenza e l’inadeguatezza di chi è nato altrove e si sente chiamato a fare qualcosa che a volte è molto più grande delle proprie possibilità di singolo individuo.

Alla domanda stupida, ovvia e apparentemente senza risposta, che abbiamo formulato: “Cosa pensate di fare?” ci è stato restituito il bene prezioso della solidarietà tra poveri. La popolazione burkinabè di Gandefabou ha condiviso parte del miglio raccolto nella stagione precedente e un pozzo su tre. Vi assicuro che segnali come questi sono rari e vanno custoditi. Chiaramente non risolve il problema presente e futuro ma è l’unico inizio possibile.

 Convivio  a Gandefabou:  la narrazione di quello che l’Occidente ignora

La giornata nel campo profughi è stata lunga ed intensa. Al calar del crepuscolo, che si trasforma velocemente in notte stellata, ci si è salutati. Dall’abbraccio con Ramzi è nata spontanea la proposta di una cena insieme al nostro accampamento con gli amici Tuareg del villaggio…la sera del giorno dopo. Spettava a me e Alessandra, la mia preziosa e irrinunciabile compagna di viaggio, cucinare e allestire la tavola davanti al fuoco. Come promesso alle 19 del giorno seguente ci ha raggiunti l’amico Ramzi, accompagnato in moto da un burkinabè del villaggio.
Nessuno di noi era a conoscenza che, dopo il calar del sole, vige la regola del coprifuoco e raggiungere il nostro campo esponeva l’amico maliano a qualche rischio!

Ricordo come fosse ieri, in realtà sono trascorsi quasi nove mesi, quella notte a Gandefabou. Ramzi non ha mangiato molto, ha terminato in fretta il suo piatto di melanzane e riso…il suo desiderio era quello di raccontare, non la sua personale vicenda, ma quella di tutto il suo popolo.
Dalla tasca dei pantaloni color sabbia, ha recuperato un foglio consunto di carta bianca, una matita e una piccola torcia. Parlava a me e Alessandra in un inglese fluente, ma dopo pochi minuti è nata spontanea la richiesta di proseguire in francese, così che gli altri commensali Tuareg burkinabè potessero capire.

Un’ora intera è trascorsa nell’ascolto della storia economica, sociale e politica dell’Africa bianca e sub-sahariana. Una lezione cattedratica universitaria con la passione, l’amore e la sofferenza che traspariva dal nostro “docente”. Quello che più di altre cose ricordo è una frase ripetuta più volte:

“La gente europea non conosce la verità che cerco di comunicarvi, perché non gli è concesso di ascoltarla. Il mio popolo non è un popolo di estremisti islamici, non è un popolo di terroristi, è un popolo che vuole godere della sua terra, in pace. Vi chiedo solo di raccontare l’incontro di questa notte, perché altri comprendano. Non chiedo acqua, non chiedo miglio, non chiedo dollari, solo la verità”.

Mentre lui parlava io e Alessandra abbiamo pianto. Non bastava ringraziare, troppo grande il dono ricevuto e affidato… Quello di farsi voce, quello di non fermarsi e cercare la verità alla base dei conflitti, quello di non tacere, quello di saper vedere.
Quando ho alzato lo sguardo dal foglio di carta ormai pieno di date storiche e confini di stati africani, ho contato quasi trenta persone che nel silenzio avevano raggiunto la nostra tavola all’aperto e come noi avevano ascoltato la verità.

Tutta quella gente era parte delle persone che nell’accoglienza dell’altro si sarebbero private di cibo e acqua per condividerlo con fratelli stranieri sconosciuti. Non nego che tra i tanti rifugiati qualche filo estremista possa essersi infiltrato, ma la totalità dei fuggiaschi sono persone che chiedono solo di riavere la vita di prima, poter tornare nelle loro città, seppellire i lori morti, costruire il futuro nella loro patria.

L’ora si era fatta tarda e l’obbligo di rientrare al campo profughi era palpabile. Io, Alessandra  e due amici Tuareg, abbiamo accompagnato e scortato Ramzi fino alla linea segnalata ma non tracciata che non potevamo oltrepassare. Il saluto con Ramzi resterà inciso nel cuore per molti anni. Ci ha lasciati così: “Sotto questo cielo stellato e sopra questa sabbia rossa, prometto che quando nascerà mio figlio, come secondo nome gli verrà posto Pietro se maschio, Alessandra se femmina. Sarà il segno e il ricordo dell’incontro che ci accompagnerà per la vita, qualsiasi cosa accada”. Ci siamo abbracciati, un abbraccio intenso, come fosse il primo e nel contempo l’ultimo. Senza guardarci alle spalle abbiamo ripercorso le tracce verso l’accampamento.

Al ritorno in Italia sono stati numerosi i tentativi di parlare ancora con Ramzi, ma per lunghi mesi nessun segnale, nessuna notizia, solo il ricordo di una promessa affidata all’Harmattan, vento secco e polveroso che soffia nel Sahel. Mantenere i contatti con i Tuareg di Gandefabou si è rivelato sempre più difficile, anche per l’intensificarsi del conflitto al confine nord. Poche settimane fa ho ricevuto la telefonata di un caro amico italiano, sposato con Valerie, ragazza burkinabè,  di ritorno dal Burkina Faso dopo un mese trascorso per sensibilizzare e portare a termine progetti umanitari al nord del Paese.
Al mio saluto caloroso ha risposto solo con una frase: “Sotto il cielo stellato e sopra la sabbia rossa del campo profughi di Gandefabou, c’è una piccola bambina a cui è stato donato il nome di Alessandra”.

Pietro Acquati coordina progetti umanitari autofinanziati in Burkina Faso mirati a  istruzione, sanità. beni primari. Portati a termine  pozzi d’acqua, mulini, piccoli depositi in muratura, luoghi di ritrovo, progetti di sensibilizzazione sanitaria, distribuzione di mais e miglio. Il progetto attualmente in corso è  la costruzione di una piccola scuola per due classi nello sperduto villaggio di Zielà; tuttora in atto la fase della raccolta fondi   progettoburkina@libero.it

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i post sul popolo Tuareg sono a questo link http://mcc43.wordpress.com/tag/tuareg/


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