Ricordo di Aldo Clementi

Creato il 08 marzo 2011 da Marcolenzi

The Clock strikes one that just struck two

E. Dickinson

Il 3 marzo scorso ci ha lasciati Aldo Clementi. Con la sua scomparsa la musica italiana perde uno dei suoi protagonisti più significativi e prestigiosi, una delle sue voci più intense e originali. Ma non vorrei, qui, scrivere un necrologio, né – men che mai – provare a compensare in una pur minima misura la prevedibile assenza dei media che puntualissimi, tranne sporadiche eccezioni, in questi giorni non hanno certo mancato di non far sentire la propria voce. Perché, alla fin fine – chi se ne frega. Voglio dire: dovremmo forse preoccuparci se Schifani o Alemanno non sanno chi sia Aldo Clementi? Se non lo sa Minzolini? Figuriamoci: per quanto mi riguarda, anzi, meglio così. Vorrei piuttosto ricordare quello che Clementi era per come l’ho conosciuto: persona di eccezionale valore, di adamantina dirittura morale, lontana dai centri di potere e dalle cricche, generosa e disponibile come poche altre. L’ho visto per l’ultima volta nel luglio scorso, quando andai a trovarlo insieme a Giancarlo Cardini. Lo trovammo provato, stanco, eppure sempre sorridente e con lo sguardo acuto e penetrante (mi accolse con uno spiazzante “tu ridi?”, rivoltomi non appena uscito dall’ascensore). L’unico suo vero cruccio, ci confessò, era quello di non riuscire più a scrivere già da un po’ di tempo; la fatica richiesta da una scrittura come la sua, che necessitava di un notevole lavoro preparatorio a tavolino, non glielo concedeva più. Cosa inaccettabile, per un compositore attivo e prolifico come lui: e se era stato uno dei profeti della ‘morte della musica’ e, con Donatoni, uno dei maestri del cosiddetto ‘pensiero negativo’, certo mai morte dell’arte fu più feconda di sviluppi e ricca di suggestioni. Tutta la sua opera è e resterà un monumento imperituro alla forza creatrice dell’immaginazione, a quella straordinaria capacità umana di costruire mondi nuovi e diversi da quello reale.

***

Conobbi Clementi nel settembre del 1990, quando tenne a Firenze, nella sede staccata del Conservatorio, un seminario di composizione all’interno dei corsi di perfezionamento organizzati dal Gamo. All’epoca era già un mio idolo, insieme a Morton Feldman: alcune sue composizioni, in particolare il Concerto per violino, quaranta strumenti e carillons, L’orologio di Arcevia, Madrigale e l’opera Es – allora ancora disponibili su alcuni vinili delle etichette Italia e Ricordi – avevano lasciato in me una profonda impressione. Proprio come Feldman, mi era sembrato un compositore radicalmente diverso dagli altri, grandi o minori che fossero: il suo linguaggio, originalissimo, si lasciava infatti difficilmente integrare nelle correnti più in voga delle seconde avanguardie, dallo Strutturalismo europeo (seriale o post-seriale che fosse) all’Alea americana. Era una musica che sembrava provenire da un altro mondo, che a un ascolto disattento e superficiale appariva statica, fredda, inumana e che invece, a un ascolto più attento, era capace di esercitare un fascino irresistibile.

Ebbi così la gioia e l’onore di far parte dei pochi allievi effettivi che parteciparono a quel seminario intensivo: dieci giorni pieni, con sedute mattutine e pomeridiane, durante i quali vennero proposte e discusse tante e diverse tematiche concernenti la musica contemporanea e le arti visive. Già questo semplice fatto, questa apertura mentale mostrata dal compositore, mi colpì: non si trattava del solito seminario in cui il ‘maestro’ – quando va bene – dà un’occhiata ai lavori presentati dagli allievi e si limita ad esprimere un affrettato giudizio tecnico ed estetico su di essi, ma di un vero e proprio laboratorio in cui noi allievi venimmo invitati a progettare e a comporre lì, in quella stessa sede, un nuovo pezzo su temi e spunti dati (ricordo che furono due, entrambi semplici moduli strutturali di partenza: uno era il nome Bach, l’altro le quattro forme della triade tonale). Cosa ancora più sorprendente, anzi incredibile – pensando alla ritrosia e alla gelosia con cui i maestri custodiscono e spesso nascondono i loro segreti artigianali – egli stesso scrisse davanti a noi un pezzo sui medesimi soggetti, offrendoci così la più unica che rara opportunità di osservare come pensa e come lavora in tempo reale un grande compositore. Ma, soprattutto, ebbi modo di conoscere l’uomo Clementi, una persona eccezionale, di rara modestia, sensibilità umana e onestà intellettuale; ogni giorno si portava in albergo le nostre più o meno acerbe e ingenue partiture, le studiava e le riportava il giorno dopo piene di annotazioni. Ricordo anche, tra le tante altre cose, che l’ultimo giorno ci portò – eravamo poco meno di una decina – in un negozio che vendeva stampe e articoli d’arte e regalò a ciascuno di noi una cartolina raffigurante opere che secondo lui erano più vicine alla nostra sensibilità: a me regalò la riproduzione di Nordseebild aus Baltrum, un bellissimo acquerello astratto di Klee dalle tinte tenui. Ero, come si dice e come si può ben immaginare, al settimo cielo.

L’anno seguente tenne nuovamente il seminario di composizione e io, ovviamente, vi partecipai di nuovo con entusiasmo. Da allora cominciai a sentire un forte desiderio di avvicinarmi a lui: andavo a trovarlo all’incirca un paio di volte all’anno e ogni volta era per me come fare un pellegrinaggio a Lourdes – tornavo a casa rinato e colmo di idee nuove. Nel 1993 fu così gentile da fare il mio nome alla direzione artistica dell’Istituzione Universitaria dei Concerti di Roma, che aveva programmato nell’ambito del suo festival un concerto dedicato ai giovani e aveva perciò chiesto a tre grandi compositori (Donatoni, Morricone e, appunto, Clementi) di segnalare alcuni loro allievi che avessero ritenuto meritevoli. In quell’occasione accadde una cosa buffa: ebbi un classico lapsus freudiano e, finita di scrivere la composizione che sarebbe stata eseguita al concerto (un pezzo per voce e pianoforte), dimenticai di spedirgliela. S’incazzò – giustamente – tantissimo e quando, il giorno stesso del concerto, lo chiamai per telefono appena arrivato a Roma, mi disse chiaro e tondo che se il pezzo non gli fosse piaciuto con me avrebbe chiuso. Per fortuna il pezzo gli piacque e fui perdonato. Un paio di anni dopo scrissi un saggio per la rivista «Musica/Realtà» nel quale cercai di mostrare, sul solco del comune ascendente pittorico, le profonde affinità estetiche tra la musica di Feldman e quella di Clementi a dispetto di un approccio al fenomeno compositivo diametralmente opposto.

Ma il ricordo più bello è legato a un soggiorno a Colonia, nel febbraio del 2000. Ci trovammo là insieme per tre giorni in occasione di una manifestazione dedicata a lui e a Bussotti, organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura e per la quale dovevo presentare la parte riservata a Clementi. Durante quei giorni andammo a visitare due volte la collezione Ludwig e potei così ascoltare dalla sua viva voce acutissime osservazioni su quei capolavori dell’Espressionismo Astratto americano e dell’Informale europeo che tanto lo avevano ispirato e influenzato: si soffermava di fronte a un Motherwell o a un Kline e faceva notare dettagli che sfuggono ai più, assonanze con la musica, in particolare legate alle funzioni del timbro e del colore, agli aspetti più sfuggenti ma non per questo meno decisivi sia dei processi compositivi che dell’ascolto. Le cose che amavo di più del maestro erano però, alla fine, il suo candore e la sua tenerezza, la dolcezza del suo sorriso e della sua voce. Durante il tragitto che ci conduceva dall’albergo al Museo Ludwig a un tratto si fermò ammirato davanti a una Lamborghini (sapevo che le auto da corsa erano una delle sue passioni, insieme agli scacchi e agli orologi), quindi mi chiese di prendere un tram perché era un po’ stanco. Mentre aspettavamo alla fermata osservò a un certo punto, uscendo improvvisamente da un lungo silenzio: “Chissà che musica si sentirà quando finirà l’Universo”. Io rimasi stupito e tuttavia sorrisi; dopo qualche attimo di silenzio gli dissi: “Chi lo sa, magari un pezzo politonale, eh, maestro?”. E lui, dopo un silenzio lungo il doppio del mio: “Speriamo”. Quindi fissò, sorridendo, un punto imprecisato a mezz’aria fra sé e il marciapiede.



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