Ricordo di Florio Santini cuore che non brucia

Creato il 16 giugno 2011 da Cultura Salentina


Ricordiamo il grande Florio Santini, che ci salutò per sempre quattro anni fa dalla Versilia, a due passi dal golfo dei poeti, di Byron e Shelley, che tanto amava. Quando disse l’ultimo addio, alla vigilia di Natale, gli era vicino sua figlia, Cristiana, l’infermiera Gina, e “Perla”, la sua amatissima, gigantesca Terranova nera, che non lo abbandonava neppure per un attimo. E questo fu il mio “compianto”: Florio è morto su una sedia a rotelle, sua ultima “cattedra”, in mezzo al verde di una “Versilia luminosissima che mi ha fatto dimenticare le mie albe africane e salentine”; è morto nel bel mezzo di un sogno, circondato da poeti e belle donne seminude, fatte per amare e per essere amate, in un carosello gioioso, anarchico, ribelle, e allo stesso tempo innocente, nobile, raffinato, tutte cose oggi sparite, che a lui piacevano moltissimo. Florio aveva dato ampi segnali di questa sua dipartita, coi suoi impareggiabili articoli su “Espresso sud”, nell’ultimo dei quali si era messo a osservare le formiche, “un corteo di formiche in marcia verso il futuro, disarmate, ma determinate come nessuna altra umana creatura”. Ma già un anno fa parlava di sé stesso ormai privo di gambe, e della sua Lidie rimasta priva voce, parlava di fuochi ormai spenti, e di cenere, solitudine estrema, confortata solo dai loro numerosi cani, estremi veri amici dell’uomo.

Ma Santini era forse già morto il momento in cui ha dovuto lasciare la “nostra” terra, quando è stato letteralmente spostato, prelevato dal Salento, quando è stato separato dalla sua Lidie, o Siou-Wan, “Piccola Nuvola”, meravigliosa creatura, una principessa vietnamita, sua compagna di viaggio e d’avventura, ossia di vita, così come l’ha sempre concepita il nostro amico. La vita era per lui viaggio, avventura, ma anche fuga, trasgressione, sogno, confronto, passione, scoperta, sempre alla ricerca di una scaglia d’oro, quella scaglia che spicca dal fondo oscuro e che puoi trovare dovunque, a San Francisco, nell’Africa nera o nell’Indonesia, ma anche a Otranto, nel Salento più vivo e grondante di storia, nel grande mosaico di fra Pantaleone con la prediletta figurina dell’asino arpista (fu il suo emblema e il suo auto ironico ormai proverbiale “nomignolo” con cui ha dato il titolo a molti dei suoi libri) o sulla torre del Serpe, che aveva cantato in una delle sue più belle poesie.

E anche lui, ex Addetto Culturale dell’Ambasciata Italiana in Africa, principe dei simposi, grande affabulatore, che sapeva affascinare per ore le platee più disparate, messaggero di vita, emozioni e curiosità, che riusciva a comunicare la sua gioia di vivere, esploratore di tratturi federiciani e castelli abbandonati, come lo era stato di foreste, savane, jungle e deserti, amava essere amato, amava spiccare come una scaglia d’oro di sapienza, di cultura, di umanità, di schietta simpatia tutta toscana, lucchese in specie, come Ungaretti, Pea, Viani, Tobino, che avevano, come lui, l’emigrazione nel sangue. Era un vecchio guerriero trapiantato nel Salento, che viveva con quei grani di rosario che erano i ricordi ancora vivi dell’Africa, “serbatoio di tutte le civiltà, di tutte le parole, di tutte le idee, di tutti i viaggi dell’uomo”.

Certo, come tu dici, caro direttore, la sua è una grave perdita per la cultura salentina, ed è poca cosa la parola, poca cosa lo spazio, per ricordarlo in questi crudi giorni in cui i nostri dialoghi si fanno sempre più muti, e il colloquio con le ombre si fa sempre più difficile, direi impossibile. Santini è morto nel giorno di Natale, il giorno più bello, più umano, più poetico, denso di speranze per tutti i diseredati della terra, più ricco di nostalgie, e forse di rimorsi per quello che si poteva fare un tempo e non si è fatto. Il suo è forse un segnale forte, vuol dire qualcosa, qualcosa di importante che ora non siamo in grado di decifrare. Nel tempo durano solo le cose che non appartennero al tempo. E Florio era un bel sogno toscano piantato nel castello di Casamassella, con la sua principessa gialla e uno stuolo di terranova e spinoni, era l’uomo delle moltitudini che denunciava i nostri atti grevi pesanti sorvegliati. Era colui che cinge il mare (io lo ricordo a Gallipoli, al Canneto, con l’onda di risacca che veniva a sfiorarci, toccarsi con la mano la barba bianchissima e domandarsi se era ferito o già morto) era il serpente di mare, era Giasone con il suo remo, e Sigurd con la giovane spada. Ogni suo breve viaggio era un viaggio spaziale. Per questo suo universalismo Florio già ci manca, ci manca il suo sorriso buono, la sua ironia, il suo sguardo luminoso, la sua voce, il suo accento toscano, ci manca il suo largo cuore che non brucia, che non potrà mai bruciare, perché il cuore dei poeti – come lui ci raccontò narrandoci di Shelley -non può bruciare-, e tuttavia quel cuore forte e ansioso di donarsi, quel suo cuore pieno di sogni, si è sparso nel mare d’Otranto e tra gli alberi della pineta di Palmariggi, dov’è il santuario di Santa Maria Vergine della Palma, che mise in fuga i turchi nel famoso assedio del 1480.

Tante altre cose si dovrebbero dire di questo nostro fratello, di questo nostro padre che si è fatto salentino (non si è salentini solo per nascita, anzi lo si è maggiormente quando si sceglie di esserlo) innamorato perdutamente della scrittura e delle lettere, che è sempre lì ad attenderci, dietro l’uscio, in attesa di rinascere, di rivivere un’altra vita, triste o lieta, bella o orribile che sia, comunque un’altra vita da raccontare, con l’odore dell’inchiostro, della carta, e l’attesa perenne della posta. E’ lì, Florio, dietro l’uscio, per recuperare il perduto buon senso delle cose, la poesia della vita, la musica, la storia, la filosofia, la bellezza della natura, e una donna d’amare; è lì, sempre pronto a sostenerci tra figure parallele e ombre concordi, nelle radure e sulle spiagge d’inverno, in questo nostro straziato cammino verso la ricerca di una umanità nuova, migliore, che riscatti sé stessa dalle tante brutture; e se troppo sorda è la sua voce che continua a chiamarci, se troppo ansioso il desiderio di fuggirla, di dimenticarla, toccherà a noi e a tutti quelli che l’hanno conosciuto e amato, dover recuperare, far ascoltare la sua voce, far rivivere, per quello che era, quest’uomo in fuga che approdò nel Salento come sua ultima condivisa (dalla sua amata compagna) meta, sua Itaca, sua piccola patria, una scelta di luce, di pace e d’amore. Forse non trovò le sirene, o le trovò e non le potè ascoltare perché il loro canto era spento. Le sirene erano mute. Ma trovò molti che lo ascoltarono e lo amarono, trovò chi pubblicava i suoi libri, chi i suoi articoli, e ciò era – come per ogni scriba che si rispetti – la sua ragione di vita, il suo unico progetto per il futuro, insieme inferno e paradiso. Florio Santini, infatti, era soprattutto un letterato, un poeta, un uomo di cultura, ma anche di grande umanità.

Ci ha lasciato a Natale, probabilmente mentre preparava un articolo per “Espresso Sud”, come un San Giuseppe nella sua bottega di falegname intento a costruire uno sgabello. Florio non era credente, ma aveva una grande passione per Cristo, il bambino nato al freddo e al gelo, il fratello che soffre, l’uomo che ama incondizionatamente e muore sulla croce, l’unico uomo veramente buono, come disse Dostoevskij, che abbia mai calcato la nostra terra sanguinaria. Dove l’uomo oscilla continuamente tra il sublime e l’immondo, ma -disse Montale- con molta più propensione per la seconda oscillazione. Ma Florio s’accendeva di coraggio nei pericoli. Era fondamentalmente uno stoico, più che un epicureo, ed è con questo spirito che ha affrontato la morte, lo stesso spirito che gli ha consentito sempre di elevarsi al di sopra della propria miseria, grazie anche alla sublimità delle sue composizioni (era un vero artista della scrittura), con cui è riuscito a costruire certamente qualcosa di prezioso e duraturo. Addio, Florio, ci incontreremo ancora, un giorno, forse, in altri mondi. Io lo spero.


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