Con la rappresentazione dell’opera Rienzi, Der Letzte der Tribunen, andata in scena dal 9 al 18 maggio, il Teatro Costanzi, meglio noto come dell’Opera di Roma, salva una stagione fin troppo povera di titoli wagneriani, e la salva nel modo migliore: come, infatti, giustificare la scelta di un solo lavoro di Wagner, nell’anno in cui il compositore tedesco divide l’anniversario dei duecento anni dalla nascita con il padrone di casa dei teatri italiani (e non solo), Verdi?
E come giustificare, per di più, la scelta di questo insolito titolo, tra i meno conosciuti e tra gli esiti più discussi del genio wagneriano, così lontano dal mondo nordico e di opera-totale, cui Wagner ci ha abituati nella sua produzione più nota?
Che il Costanzi, e con lui il suo direttore onorario a vita, si siano schierati dalla parte di Verdi, sembra evidente dalle ultime stagioni liriche, nelle quali figurano almeno due titoli verdiani e neppure uno di Wagner. Eppure, il misconosciuto Rienzi riesce nella estrema fatica di svegliare dall’oblio del suo autore il teatro e, per di più, a smuovere molto più di altre messe in scena il poco attivo pubblico, che ad ogni fine tempo (tre pause per un totale di cinque atti) piove sul palcoscenico con una tempesta di applausi.
Come il titolo chiarisce immediatamente, il soggetto rimanda alla figura storica di Cola di Rienzo, e al suo straordinario, quanto vano, progetto politico, attuato nella Roma abbandonata dai papi (ad Avignone in quegli anni), nel pieno Trecento. Scrive Wagner: “Questo Rienzi, coi suoi grandi pensieri nella testa e nel cuore, circondato da volgarità e barbarie, mi faceva sì vibrare tutti i nervi per calda e commossa simpatia; ma il mio disegno maturò in opera d’arte solo mediante l’intuizione del puro elemento lirico dell’atmosfera dell’eroe…l’argomento si impose a me spontaneamente; ma io, alla mia volta, non lo svolsi, se non nelle forme del grande opèra, che allora sognavo” (trad. G. Manacorda).
Si dica subito che il Rienzi è un grande opera, vale a dire un lavoro in cinque atti, con scene grandiose di popolo, balletti ed elementi spettacolari, quale era il modello impostosi a partire dai primi anni dell’Ottocento al teatro dell’opera di Parigi, l’odierno Opèra Garnier. Per comprendere la stranezza dell’adozione di questo modello da parte di Wagner, basti pensare che alle forme rigidamente chiuse e alla spettacolarità fine a sé stessa di tanto teatro d’opera, il compositore tedesco oppone un teatro legato, un’opera totale, i cui esiti più alti saranno il celebre Anello dei Nibelunghi e tutti i suoi ultimi lavori.
Ebbene, fiumi e fiumi di inchiostro, venti e raffiche di critiche, montagne e valli di bibliografia, contro Wagner e contro Rienzi. Ciononostante, l’opera è riuscita a muovere il pubblico e a risvegliare i timidi cuori dei frequentatori dell’opera romana, di per sé non troppo inclini all’attivismo né avvezzi all’ascolto di opere peregrine, fra le quali il Rienzi a pieno titolo può esser annoverato.
Di là da equivoci di sorta, sempre all’agguato nelle cronache registiche degli ultimi anni quando si parla di messe in scena operistiche, la storicità della vicenda del libretto appare chiara sulla scena: le strade di Roma, la gran sala del Campidoglio (grosser Saal im Kapitol), la gran piazza pubblica di Roma –quale? verrebbe da chiedersi; ma la genericità lascia piena libertà alla regìa-, una larga strada davanti la basilica Laterana (Breite Strasse vor der Lateran-Kirche) sono rese dal sapiente occhio di Hugo de Ana in quadri scenografici sgombri e sobri, in cui i pochi elementi inseriti nei vari atti (fra tutti un ampio portale bronzeo al secondo e al quarto atto, e la base della colonna traiana, per terzo e quinto atto), risaltano al massimo grado. È in questi ampi quadri che il coro, numerosissimo e diretto magistralmente da Roberto Gabbiani, è libero di muoversi, quasi come se fosse lui stesso a dar forma all’ambiente e carattere alla scena. Su di essa si proietta sempre, poi, il testo latino delle leggi repubblicane promulgate da Rienzi, tanto che nel quinto atto è sulla stele che le reca incise che Rienzi canta la sua preghiera a Dio, momento di purezza lirica, raro in quest’opera focosa, come se il tribuno volesse aggrapparsi ad esse, per sfuggire alla furia della folla, all’inclemenza della storia. In questa logica poche (ma tali da non poter essere taciute) le incoerenze: se il coro è vestito con vesti medievali, e in quest’ottica gli abiti dei solisti, bizzarri a volte (come Irene, di bianco vestita, salvo le macchie rosse sul bordo basso della veste), possono essere scusati solo con la necessità che essi hanno di emergere visivamente dalle masse corali, che senso ha l’ingresso in scena di comparse, anch’esse vestite con abiti medievali, che imbracciano un fucile (un moschetto Carleville sembrerebbe da lontano) in chiaro effetto straniante e (come si mormorava fra il pubblico) gratuito falso storico? Eccellente poi, quanto a confusione, il turbinoso finale, che libretto e messa in scena rendono, insieme, come non mai!
Di apprezzabile levatura i solisti, fra i quali spiccano Adriano, Angela Denoke, ruolo en-travesti (una donna nella parte di un uomo) e Rienzi, Andreas Schager, scricchiolante al principio, ma accurato poi, specie nell’aria d’apertura del quinto atto. Come sempre l’orchestra non è impeccabile, ma qui più che mai una partitura lunga ed articolatissima, specie nell’organico dei fiati, raddoppiato rispetto al solito, può lenire (non scusare) le non poche smagliature. La direzione dai tempi serrati, dalle dinamiche scrupolose e dalla grandiosità degli intenti (e solo di quelli) di Stefan Soltesz, che peraltro, esegue l’opera in versione integrale (non integralissima, per il taglio della pantomima –“sgraziata, goffa, pesante, come concezione poetica e come composizione musicale” la definisce Manacorda- per la qual cosa il pubblico ringrazia) si apprezza soprattutto nel preludio, sulle note del quale si figge sulla scena l’intero testo delle leggi promulgate dal governo repubblicano di Cola di Rienzo.
Che l’opera del tribuno Rienzi sia vana e ricada su di lui, conducendolo al martirio, il fastoso preludio non lascia neppure presagire. Che l’opera del tribuno Cola di Rienzo sia sterile, nel suo effetto storico, le leggi scritte, positive ed eterne non permettono neppure di indovinare.
Forse il pubblico dell’opera è stato attratto dall’attaccamento al senso dello Stato del protagonista? Che sia stato affascinato dalla memoria dell’antico che conservano alcuni pochi e poveri spiriti, mal compresi? Vogliamolo credere, illudendoci che trombe e marce e fanfare e la stranezza di entrare in teatro per subire Wagner (come è luogo comune in Italia) ed uscirne, invece, come da una qualunque opera di Verdi, per non dire di Rossini, non siano valse al successo.
di Valerio Tripoli All rights reserved
Nota biografica dell’autore
Valerio Tripoli. Nasce a Messina il 18 ottobre 1991 ed ha vissuto a Raccuja, in Sicilia, prima degli studi universitari. Diplomatosi al Liceo Classico, studia Lettere Classiche presso Sapienza Università di Roma.
All’età di tredici anni intraprende studi privati in canto lirico, che ha continuato negli anni successivi, assestandosi al registro del bari-tenore. Negli ultimi anni, al repertorio solistico ha accostato quello corale, sacro ed operistico. Coltiva la passione per gli studi storici, specialmente quelli riguardanti la Sicilia e l’Italia meridionale.
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