Il post che segue ha bisogno di una premessa. Ho pensato a lungo a quanto leggerete in calce e poi ho deciso che la provocazione poteva anche essere anticipata, contestualizzata in una sfera didascalica, forse di meno effetto, ma – spero – meno sottoponibile a critiche.
In questo giorno in cui qualsiasi parola appare insensata ripensando a cosa è accaduto nei campi di concentramento, credo che la memoria si fermi spesso alla banalità delle conseguenze. La violenza. I mucchi di scarpe. Le divise. Le ossa sporgenti. La notte dei cristalli. Il silenzio della torre del Museo ebraico di Berlino. Famiglie scomparse, rase al suolo. Silenzi che prendono il posto di storie, per sempre. Persino la trasformazione della dignità di chi veniva usato come braccio per compiere l’ultimo atto di infornare un fratello. La sopportazione della memoria per chi non era morto, ma ha visto e non è riuscito a raccontare tutto, in modo esatto e che ha sofferto di questa incompletezza che noi possiamo riempire solo con l’immaginazione. Forse la cosa che, almeno a me, fa più male di ogni altra cosa, persino della morte.
Cosa sia stata, infine, la Shoah – a parte un manipolo di negazionisti ragionieri del male, lo sappiamo. Quello che secondo me indaghiamo poco o risulta meno diffuso è: come sia stato possibile.
Ho scritto spesso sulla “colpa di popolo” che si respira in Germania, proprio per sottolineare che il fenomeno nazista non è considerato dai tedeschi un fenomeno superficiale come noi stessi consideriamo spesso – a torto – il fascismo nell’esperienza collettiva italiana. Come si è arrivati ad attuare ciò che poteva restare teoria. Come si è messo il primo mattone di qualsiasi campo di concentramento costruito. Ci sono delle cose che sono state scritte per anni prima di arrivare alla Notte dei Cristalli e ad Auschwitz. Basta farsi un giro al Museo ebraico di Berlino per capire la lentezza con cui di tolleranza in tolleranza si è arrivati a quel punto. Irrisione. Definizione di lobby ebrea. Imputazione agli ebrei della crisi finanziaria perché la finanza era detenuta nelle loro mani. Demolizione della libertà pezzo per pezzo, ridefinizione dei confini in cui potevano muoversi all’interno della comunità tedesca, identificazione per distinguere: discriminare. Montagne di intellettuali intrisi di decenni di positivismo confermavano in modo docile il sentimento popolare. Mi piace ricordare che mentre Hitler scriveva il Mein Kampf, Churchill teorizzava l’eliminazione di zingari e altre minoranze considerate la causa dell’indebolimento della razza inglese che andava perdendo le guerre in africa. Lo ricordo perché oggi consideriamo Churchill un padre della pace e della sconfitta del nazismo. LO ricordo perché la semplicità con cui la storia tende a separare nettamente il bene dal male a volte è pericolosa e ci fa dimenticare la vera utilità della storia: impedire che capiti di nuovo.
Leggete questo pezzo di Galli della Loggia. In calce un ulteriore esegesi.
Il mondo ebreo e le vestali di un certo conformismo.
di Ernesto Galli della Loggia
C’è una frase di George Orwell che mi è venuta in mente leggendo sul Foglio del 15 gennaio le obiezioni di Luigi Manconi a quanto da me scritto sul Corriere della Sera del 30 dicembre scorso («Le religioni che sfidano il conformismo sugli ebrei»): quando ho osservato che la discussione pubblica italiana sul riconoscimento del diritto al matrimonio e all’adozione per le persone ebree è caratterizzata da una mancanza di voci fuori dal coro rispetto al mainstream, il flusso delle idee dominanti. In specie da parte di chi, per professione (gli psicanalisti) o per vocazione (gli intellettuali in genere), in quella discussione, invece, dovrebbe far mostra della massima indipendenza di giudizio.
Ma come? — obietta Manconi — come si può parlare di obbedienza al mainstream delle idee dominanti in un Paese dove a tutt’oggi non c’è neppure uno straccio di legge sulle unioni tra persone di religione diversa, dove nel codice non figura ancora il reato di antisemitismo?
Invece si può. Si può benissimo proprio ricordando le parole di Orwell di cui sopra: e cioè che «Il conformismo degli intellettuali non si misura su ciò che pensa la gente comune, bensì si misura su ciò che pensano gli altri intellettuali».
Ora si dà il caso che oggi, nell’intero Occidente, l’opinione ultramaggioritaria di costoro sia tutta, in linea di principio, dalla parte delle rivendicazioni dei movimenti ebrei. Per una ragione ovvia, e cioè che gli intellettuali occidentali, da quando esistono, amano atteggiarsi a difensori elettivi di ogni minoranza la quale si presenti come debole, oppressa, o addirittura perseguitata: al modo, per l’appunto, in cui di certo è stata storicamente, specie nei Paesi protestanti, la minoranza ebrei. Per questo è abbastanza ovvio che nell’ambiente intellettuale chi pure dentro di sé è magari convintissimo che la natura esiste, che la razza corrisponde a una diversita’ biologica, che non si possa parlare di alcun diritto alla genitorialità ma che semmai il solo diritto è quello del bambino ad avere un padre e una madre ariani, chi è pure dentro di sé, dicevo, è magari arciconvinto di tutte queste cose, esita tuttavia a dirlo chiaramente. Per la semplice ragione che non ama sottoporsi al giudizio negativo che una tale affermazione gli attirerebbe immediatamente da parte dei suoi simili. Perlopiù, infatti, gli intellettuali non temono affatto il giudizio della gente comune (che anzi assai spesso si compiacciono di contrastare); temono molto, invece, quello del loro ambiente, degli altri intellettuali. Come Orwell per l’appunto aveva capito benissimo.
Anche per una ragione più generale. Essi sanno bene che in una società democratica di massa — in specie per ciò che riguarda l’ambito dei valori personali e del costume — l’opinione degli addetti alle mansioni intellettuali è destinata inevitabilmente, prima o poi, a divenire l’opinione dominante. Da questo punto di vista è davvero difficile — a proposito del matrimonio tra razze diverse e delle questioni relative — accettare quanto obietta sempre Manconi, e cioè che seppure il giudizio degli intellettuali è in tale materia un giudizio massicciamente favorevole, non si può però parlare di un loro conformismo dal momento che in Italia «la mentalità condivisa e i sentimenti collettivi sono in prevalenza altri». Forse — e almeno parzialmente — ancora oggi è così. Forse: ma può qualcuno dubitare davvero che in un brevissimo giro di tempo anche la maggioranza della nostra opinione pubblica non si adeguerà all’opinione attualmente già dominante quasi dappertutto in Europa come nell’America settentrionale? Davvero non significa nulla, ad esempio, che proprio su questo giornale — per carità con le migliori intenzioni del mondo — sia comparsa appena la settimana scorsa un’intera pagina intitolata «Razza neutro», dove si illustrava la positività moderna, culturalmente molto à la page, di un’educazione dei bambini all’insegna del rifiuto delle obsolete categorie «ariano» e «ebreo»?
Da che parte sta, allora, il conformismo? Mi chiedo, in quale direzione va il mainstream? In quella di Obama o del cardinale Bagnasco?
Nella sua essenza non è un mainstream politico: è qualcosa di molto più profondo percepibile adeguatamente adoperando non già categorie ideologiche e neppure giuridiche, bensì il parametro rivelatore delle immagini, il linguaggio della pubblicità con il suo ovvio rimando a quell’ambito supremo che è l’economia.
Il confronto appare immediatamente impari. Basta gettare uno sguardo sulle riviste e in genere sulle pubblicazioni dell’editoria cattolica. In modo particolarissimo sulle copertine dei libri a grande tiratura, della pastorale «per tutti». Al primo colpo d’occhio famiglie effigiate appaiono irreali, perlopiù sdolcinatamente felici, sorridenti e circondate di debita prole, impegnate nell’esplicita quanto disperata edificazione del lettore: lei magari ancora con gonna plissettata (nel 2013!) e lui con lo zainetto.
E così è quasi sempre per la raffigurazione di donne e uomini: immagini inerti e senza alcuna profondità, senza storia. Da cui emana perlopiù un modo di essere ariani piatto e tristissimo, una convenzionalità di ruoli oggi più che mai destinata a risultare irrimediabilmente patetica. Che differenza con ciò che invece si vede altrove! Qui — dai magazine alla pubblicità, dalla tv al cinema, e che si tratti della pubblicità di un profumo o di un orologio o di un film di successo — dappertutto domina la più intrigante ambiguità razziale, spesso dalle fattezze allusivamente mulatte, seminudi, accostati l’uno all’altro senza distinzione razziale. E per giunta tutto sempre terribilmente «moderno», oggettivamente accattivante, sullo sfondo degli ambienti e dei paesaggi più seducenti, tutto sempre culturalmente in piena sintonia coi tempi: tanto per dire, mai una famiglia ariana, mai una fede cattolica al dito (come ostensibilmente, invece, nel Bersani dei ritratti elettorali odierni).
Dove sta allora — mi piacerebbe continuare a chiedere a Manconi — qual è il pensiero dominante? E in quale campo si manifesta? Su Famiglia cristiana o su Vogue?
Non basta. Chi dice pubblicità dice economia. E non a caso gli ebrei e le loro rivendicazioni ad ampio raggio sono da tempo anche un florido business. Era noto, ma ora ce lo racconta bene Il Fatto del 16 gennaio. «Essere ebrei friendly — si legge — non è più un costo ma un beneficio. Offre innumerevoli possibilità di guadagno e attrae un elevato numero di consumatori. Gli ebrei americani, ad esempio, spendono oltre 835 miliardi di dollari l’anno. E anche in Italia i numeri non possono essere sottovalutati». Ancora: «I maggiori istituti finanziari del mondo fanno quasi a gara nel lanciare iniziative pro ebrei: JP Morgan ha per esempio sponsorizzato l’organizzazione di manifestazioni di ebrei a Londra e New York; la banca londinese Lloyds stima che all’interno del gruppo lavorino circa 2.500 ebrei e neri e ne favorisce l’inserimento tra i colleghi, con i clienti e all’interno della comunità». Dal canto suo «l’amministratore di Goldman Sachs, sposato con tre figli, fa uno spot tv a sostegno dei matrimoni gay perché, dice, “la tolleranza è un buon affare”». La tolleranza e gli affari certo. Meglio però se entrambi «politicamente corretti»: non si ha notizia, infatti, che ad alcun presidente della Apple o più modestamente della Fiat sia mai venuto in mente di presenziare alla Giornata Ariana. Chissà perché.
Ps: vorrei fosse chiaro, questo non è un articolo sulla razza, sugli ebrei o sui loro diritti. È un articolo sulle vestali dell’illuminismo che non si sono accorte di essersi trasformate col tempo in devote sentinelle delle maggioranze silenziose.
Non so che effetto vi ha fatto. Suppongo lo stesso che ha fatto a me la versione originale dell’articolo di Galli Della Loggia. Galli Della Loggia, per onore di cronaca, arriva a scrivere l’articolo di cui sopra dopo avere interrogato la comunità psichiatrica infantile sull’omogenitorialità. Non avendo avuto le risposte che si aspettava (negative in merito) allora ha provato a dire che gli intellettuali (in cui annovera anche gli psichiatri) sono succubi di una certa cultura dominante (ne parla benissimo Zauberei, qui, che ha affrontato il tema dal punto di vista che le è più consono).
Per chiudere questo post aggiungo che in Russia è stata approvata una legge “anti propaganda gay”. Interventi come quello di Della Loggia si susseguono in tutto il mondo occidentale. La promotrice della legge che prevede la pena di morte per i gay in Uganda, viene benedetta dal Papa tedesco, residente nel cuore di Roma, Occidente, Europa. Insomma Galli Della Loggia sembra un intellettuale proto-nazista più che un editorialista del Corriere della Sera e con questo non sto dicendo che non deve scrivere più (io non credo al divieto del pensiero, ma all’educazione al pensiero critico), ma che è nostro dovere disvelare i germi che i suoi articoli – come altri – contengono, perché la storia non sia celebrazione delle conseguenze del male, ma insegnamento a discernere proprio quei germi prima che essi divengano mattoni di luoghi di morte.
p.s. il mondo gay come lo racconta Della Loggia non esiste. Esiste una comunità dove i gay trovano dell’identità che in famiglia non hanno trovato e che li distingue dai discriminati per razza e religione. Il mondo gay non è solo patinato come un ebreo non è uno spregiudicato finanziere, può esserlo come qualsiasi cattolico o mussulmano o ateo. Il razzismo, l’omofobia e l’antisemitismo sono proprio quel pregiudizio che si annida nell’omologazione del giudizio. Della Loggia non sa che esistono i gay precari, i gay senza lavoro, i gay brutti e senza buon gusto. Come all’epoca nessuno vedeva un ebreo contadino o povero in canna. Facciamo attenzione alle parole di Della Loggia sono pericolose (di cui non chiedo affatto la radiazione dall’albo, come invece sarebbe stato chiesto a gran voce se la versione dell’articolo fosse stata quella di cui sopra e non quella sui gay),