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Riflessioni in merito alla responsabilità del vescovo per i fatti compiuti dai presbiteri incardinati nella propria diocesi

Creato il 04 maggio 2015 da Ilnazionale @ilNazionale

RIFLESSIONI IN MERITO ALLA RESPONSABILITÀ DEL VESCOVO PER I FATTI COMPIUTI DAI PRESBITERI INCARDINATI NELLA PROPRIA DIOCESI

4 MAGGIO – Dall’analisi di alcune pronunce della giurisprudenza in relazione a casi avvenuti in Italia, e più specificatamente nella Diocesi di Roma, nel corso degli anni ’70 – ’80 del Novecento, nella Diocesi di Nardò – Gallipoli, nel 2008, e, di recente, nella Diocesi di Bolzano e Bressanone si evince che le autorità giudiziarie, con le loro sentenze, hanno individuato in capo alla Diocesi una responsabilità civile per i fatti commessi dai chierici in essa incardinati, condannandola al risarcimento del danno, patrimoniale e non, commesso dagli stessi.

I giudici coinvolti si sono avvalsi in particolare della norma dettata all’art. 2049 c.c. secondo la quale i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti e la cui applicazione presuppone la contestuale presenza di tre elementi ovvero il fatto illecito del preposto, il rapporto di preposizione ed il nesso di occasionalità necessaria tra l’esercizio delle proprie mansioni e il verificarsi dell’evento dannoso. Seguendo la tesi più rappresentativa in giurisprudenza, quindi, sarebbe possibile attribuire alla Diocesi, legalmente rappresentata dal Vescovo, una responsabilità civilistica di natura oggettiva per il fatto illecito compiuto dal presbitero in essa incardinato.

La prima di queste vicende, trattata dalla Corte d’Appello di Roma, riguarda i danni derivanti da un incidente stradale causato da un religioso e occasionato da incombenze espletate con il consenso del direttore della Casa di appartenenza. La Corte d’Appello ha ritenuto di fondamentale importanza capire se l’illecito compiuto dal membro di una Congregazione, al di fuori delle mansioni di economo cui era specificatamente addetto, rientrasse nella previsione dell’art. 2049 c.c. Alcune testimonianze rese nel corso del giudizio di primo grado hanno convinto i giudici della Corte d’Appello a ritenere che il religioso che ha causato il danno abbia coinvolto la responsabilità dei superiori e della Casa di appartenenza in quanto, accompagnando alla stazione degli ospiti della comunità, agiva per incarico e nell’interesse, sia pure indiretto, della Domus. Una tale applicazione dell’art. 2049 non sarebbe stata possibile nel caso in cui si fosse trattato di un dipendente o amministratore di un’associazione non riconosciuta laica, legato ad essa solamente da un rapporto contrattuale stabilente le precise incombenze a cui egli fosse adibito. Il confronto è utile a capire quanta rilevanza sia stata data dalla Corte all’elemento dello status religioso che non ha mancato di evidenziare come, per il diritto canonico, la sottoposizione del religioso ai suoi superiori abbracci sia le specifiche mansioni che gli sono affidate sia la sua sfera personale. La Corte, in conclusione, dà una sentenza che esclude la responsabilità del religioso ed addebita eventuali responsabilità al suo superiore.

Il secondo episodio invece riguarda il caso di un sacerdote che ha abusato nella sua sacrestia di un ragazzo ventottenne rivoltosi a lui perché bisognoso d’aiuto a causa della grave situazione di indigenza in cui si era imbattuto. Il Giudice penale, dopo aver rigettato la richiesta di estromissione provenuta dai legali difensori della Curia, suggeriva di ricostruire il legame intercorrente tra il Vescovo e il sacerdote secondo i canoni del diritto canonico che disciplinano la procedura di designazione dell’ufficio di parroco: al Vescovo spettano dei pregnanti poteri di questo tipo in forza dei cann. 381, par. 1 (conferisce al Vescovo tutta la potestà ordinaria propria e immediata che è richiesta per l’esercizio del suo ufficio pastorale), 515, par. 1 e 519 (affidano al Vescovo il compito di vigilare sulla cura della parrocchia), 522, 523 e 524 (conferiscono al Vescovo il potere di nominare il parroco, a tempo indeterminato). Inoltre il Vescovo deve occuparsi della cura dei fedeli che gli sono affidati (can. 383, par.1) e gode anche di un potere di rimozione del parroco, del vicario parrocchiale e del parrocchiano (can. 538, par.1, 522 e 572). È dunque individuabile un rapporto tra Diocesi e chierico in cui le funzioni del subordinato sono compiute sotto la vigilanza del Vescovo che lo aveva nominato (can. 547) ed in esecuzione del mandato canonico affidatogli, volto alla realizzazione di scopi comunitari e tipici del loro ente di appartenenza. Tale aspetto è anche provato e rafforzato da quanto annunciato nel canone 1389 che al par.1 dice che “chi abusa della potestà ecclesiastica o dell’incarico sia punito a seconda della gravità dell’atto o dell’omissione” e al par. 2 afferma che “chi, per negligenza colpevole, pone od omette illegittimamente con danno altrui un atto di potestà ecclesiastica, di ministero o di ufficio, sia punito con giusta pena”. E’ plausibile dunque che il Vescovo per i danni cagionati da parte del preposto, nell’ipotesi di una non diretta responsabilità nel delitto commesso dal chierico, anche in ipotesi di concorso omissivo nel reato commissivo, risponda ai sensi dell’articolo 2049, qualora fosse accertata in sede processuale una situazione di scarsa vigilanza o di negligenza nel mettere in pratica le cautele necessarie ad impedire un illecito o ad interromperne la sua naturale prosecuzione. Il giudice salentino ritiene che in forza di questi canoni si possa imputare la responsabilità di cui all’art. 2049 ed estende gli effetti dell’ordinanza ai rapporti interni all’organizzazione ecclesiastica al fine di assicurare, in vista di un’eventuale condanna economica a favore della vittima del reato, garanzie economiche superiori sia dal punto di vista quantitativo sia dal punto di vista qualitativo rispetto a quelle che potrebbero essere offerte dal singolo parroco.

L’ultima vicenda, decisa con sentenza del Tribunale di Bolzano nel 2013, vede come protagonista un sacerdote che, dopo essere stato consacrato chierico, era stato assegnato ad una parrocchia ricompresa nella Diocesi di Bolzano. Egli ricopriva incarichi di responsabilità nell’area dell’educazione pastorale e dell’organizzazione catechetica giovanile e, abusando della sua posizione di sacerdote, aveva carpito le attenzioni di una fanciulla di tenera età obbligandola, in maniera sempre più crescente, a subire violenze sessuali ripetute. Anche in questo caso, il giudice ha ritenuto sussistente un rapporto disciplinabile ai sensi dell’art. 2049. Determinato inoltre che il rapporto di preposizione è ben più ampio del solo rapporto di lavoro subordinato, il giudice ritiene anche che, alla stregua dei canoni prima citati (381-515-519-522-523-524-383-1389), il Vescovo debba essere considerato un committente del parroco e che vi sia in capo al primo un dovere di seguire con particolare sollecitudine i presbiteri curando che adempiano fedelmente gli obblighi propri del loro stato. In dottrina però non sono mancate voci contrarie che hanno giudicato abnorme tale omologazione del rapporto ecclesiale al nesso tra committente e preposto perché ritenute assolutamente inconciliabili con la natura delle relazioni esistenti all’interno della Chiesa. Inoltre già sulla base delle previsioni del Codex, il vescovo che abbia conoscenza di fatti rientranti nella previsione del canone 1395 par.2, in quanto titolare della potestà giudiziaria anche penale, ha precisi obblighi finalizzati all’accertamento dei fatti, alla punizione del colpevole e alla tutela dei soggetti coinvolti attraverso l’adozione di idonee misure cautelari e disciplinari.

Seguendo la tesi più rappresentativa in giurisprudenza, quindi, sarebbe possibile attribuire alla Diocesi, rappresentata legalmente dal Vescovo, una responsabilità civilistica, di natura oggettiva, per il fatto illecito compiuto dal presbitero, in essa incardinato.

Ovviamente è opportuno compiere delle distinzioni in ordine alla tipologia di fatto commesso, distinzioni che sono già rintracciabili nei casi esaminati, ma che è meglio evidenziare. Qualora, infatti, il presbitero avesse commesso un illecito civile, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie propendono per l’applicazione dell’art. 2049 c.c. ritenendo pertanto il Vescovo, in qualità di legale rappresentante della Diocesi di cui è posto a capo, responsabile civilmente per il fatto commesso dal sacerdote e quindi tenuto all’obbligo di risarcimento.

Nel caso, invece, in cui si trattasse di un reato penale, il quadro è molto intricato e bisogna procedere ad un’ulteriore distinzione. In una prima circostanza, in cui il reato è stato commesso esclusivamente dal sacerdote, è necessario verificare la sussistenza di una responsabilità civile in capo al Vescovo e l’operatività nei confronti del medesimo dell’art. 185 c.p. Questo articolo disciplina gli obblighi civilmente rilevanti derivanti dalla commissione di un reato che sono, in concreto, le restituzioni ed il risarcimento del danno. L’identificazione delle persone che, in compagnia del colpevole, sono responsabili civilmente del danno conseguente dal reato sono indicate nel testo dell’art. 185 c.p. che rinvia alle disposizione contenute in alcuni articoli del Codice civile tra i quali anche il 2049, unico applicabile alla relazione intercorrente tra il Vescovo e il sacerdote. In forza quindi del rinvio operato dall’art. 185 c.p. e dell’applicabilità dell’art. 2049 c.c. alla relazione Vescovo/sacerdote, sembrerebbe possibile configurare una responsabilità civile del Vescovo per gli atti illeciti compiuti da un presbitero incardinato nella propria Diocesi.

In una seconda ipotesi, si presume che il Vescovo sia autore o compartecipe del reato. È pacifico che se un Vescovo compie un abuso di questo tipo, il reato gli viene imputato insieme alla conseguente responsabilità civile per danni da reato.

Se, invece, si configura l’ipotesi della compartecipazione criminosa, commissiva od omissiva, tra il Vescovo e il sacerdote imputato del reato in esame sorgono diverse problematiche, la più spinosa è sicuramente quella del reato omissivo improprio. I reati omissivi impropri si perfezionano con la verificazione dell’evento che, spessissimo, coincide con la mancata realizzazione di un’azione doverosa. Questi reati solitamente nascono dal combinato disposto dell’art. 40 c. 2 c.p. che stabilisce la clausola di equivalenza in forza della quale non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo e di una norma contenuta nella parte speciale, relativa ad una fattispecie a forma libera causalmente orientata. Ai sensi e per gli effetti dell’art. 40 c. 2 c.p., la clausola di equivalenza implica quale requisito imprescindibile l’esistenza di un obbligo di impedire l’evento in capo all’agente. Bisogna quindi indagare se nel nostro ordinamento la condotta episcopale possa rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 40 c. 2 c.p.

Una parte piuttosto consistente della dottrina ritiene che, osservando il dato meramente testuale, non si possa configurare in capo al Vescovo una posizione di garanzia e quindi nemmeno un obbligo giuridico di vigilare, nell’esercizio del proprio ministero, attivandosi per prevenire e/o impedire la consumazione o la prosecuzione del reato (spesse volte si è trattato di reati a sfondo sessuale, come ad esempio gli abusi sui minorenni). Nell’ordinamento giuridico italiano manca una disposizione, giuridicamente autonoma rispetto alle norme canoniche che prevedono un obbligo di questo tipo in capo al Vescovo quindi la condotta tenuta da quest’ultimo non può essere ritenuta rilevante per l’art. 40 c. 2. In sostanza una responsabilità penale del Vescovo deve escludersi oltre che per l’assenza di un principio o di una disposizione statale che la qualifichi come tale, anche per la mancanza di una norma che conferisca efficacia giuridica alle disposizioni confessionali in materia mediante gli strumenti del rinvio formale e del presupposto.

La Chiesa cattolica tuttavia ha assunto una posizione decisamente differente che è stata resa pubblica attraverso la Nota Esplicativa del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi del 12 febbraio 2004 intitolata “Elementi per conoscere l’ambito di responsabilità canonica del Vescovo diocesano nei riguardi dei presbiteri incardinati nella propria Diocesi e che esercitano nella medesima il loro ministero”. Dal testo della Nota emerge che il rapporto Vescovo – sacerdote è “irriducibile sia al rapporto di subordinazione gerarchica di diritto pubblico nel sistema giuridico degli stati, sia al rapporto di lavoro dipendente tra datore di lavoro e prestatore d’opera” e che “tale vincolo di subordinazione è limitato all’ambito dell’esercizio del ministero proprio che i presbiteri devono svolgere in comunione gerarchica con il proprio Vescovo”.

L’obbedienza quindi è solamente gerarchica e l’ambito di controllo e di vigilanza del superiore è limitato solamente all’esercizio delle funzioni, e non al resto della vita del sacerdote. L’obbedienza non è assimilabile a quella che si realizza in un normale rapporto di lavoro poiché il servizio sacerdotale è legato ad un coinvolgimento stabile e duraturo che il presbitero ha assunto non con il Vescovo, ma con la Diocesi in forza dell’incardinazione e proprio per questo motivo non è facilmente rescindibile a discrezione del Vescovo. L’ambito di vigilanza del Vescovo dunque è limitato all’esercizio dell’attività ministeriale ed egli deve garantire l’autonomia presbiterale che si manifesta in tre ambiti: quello degli atti ministeriali, quello degli atti relativi al proprio status clericale e infine quello strettamente personale. Secondo l’ordinamento canonico, specialmente nell’ultimo ambito il Vescovo non ha nessuna responsabilità, la quale ricade soltanto in capo al chierico, a meno che l’Ordinario non abbia agevolato o favorito la consumazione o la prosecuzione del reato di cui era a conoscenza a seguito di una denuncia sporta dalla vittima, denuncia che lo avrebbe obbligato ad intervenire.

Sia la posizione che ritiene sia sussistente una responsabilità civile in capo al Vescovo, sia quella opposta, sostenuta dalla Chiesa cattolica, manifestano dei punti forti e delle lacune difficilmente colmabili in assenza di una disposizione legislativa specifica. Premesso ciò, io ho cercato di analizzarle entrambe per linee generali, mettendo in evidenza le conclusioni giurisprudenziali nonché le riflessioni dottrinali che, purtroppo, nel nostro Paese sono ancora piuttosto sporadiche, mentre all’estero, soprattutto negli stati Uniti e in Belgio, sono già diffuse e attuali.

Paolo Martinelli

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