Riflessioni (Pt.1)

Creato il 22 marzo 2013 da Theobsidianmirror
“C’era una volta un re, seduto sul sofà, che chiese alla sua serva: “Raccontami una storia”, e la serva incominciò: “C’era una volta un re, seduto sul sofà, che chiese alla sua serva: “Raccontami una storia”, e la serva incominciò...”Questa storiella è stata un vero e proprio tormentone della mia infanzia. La conoscete? Sono certo che ne esistono molte varianti, ma la solfa è la medesima. Tutte le volte che la sera, prima di dormire, chiedevo a mia madre di raccontarmi una fiaba e lei non ne aveva voglia, intonava questa litania con il preciso intento di farmi annoiare in meno di due minuti. Ora che sono adulto capisco che non era cattiveria, la sua, che forse quelle volte era solo troppo stanca per dedicarmi più di quei due minuti, e ci rido su, ma all'epoca mi arrabbiavo molto. Anzi, mi infuriavo proprio! E lei a sua volta fingeva di mettere il muso, dicendomi che la storia prevista quella sera era quella e se non mi andava bene non me ne avrebbe raccontata nessun’altra, e poi ne approfittava per spegnere la luce e defilarsi, lasciandomi da solo nel mio letto a smaltire il nervoso.Alla storiella della serva e del re non pensavo ormai da moltissimi anni, e quando l’ho fatto mi ha colto, improvvisamente, la consapevolezza che la sua struttura a scatole cinesi si fonda su una serie di rimandi che si autoalimentano virtualmente all’infinito, come in un gioco di specchi. Una versione meno colta, e semplificata, dei racconti de “Le mille e una notte”…
Perciò, quando ho concepito questa incursione nel mondo dello specchio (che non è la prima, per la verità, ma è almeno la terza se si conta l’introduzione al blog e questo post), è stata una scelta naturale cominciarlo proprio così, con quella vecchia storiella. Perché un post sullo specchio come lo cominci? Con nozioni generali, con rimandi letterari o cinematografici o in che altro modo?No, ripensandoci, è insolito che io abbia infine deciso di cominciare il post in questo modo. Non pretendo di affermare che sia letteratura (e non credo neanche che a nessuno sia mai venuto in mente di metterla per iscritto, prima dell’era di Internet), ma questa filastrocca è qualcosa di totalmente intangibile, mentre a me viene più facile associare lo specchio a qualcosa che attiene alla dimensione visiva. D’altronde, non si dice forse che gli occhi sono lo specchio dell’anima?

Le macchie di Rorschach sono la base di un noto test per l'indagine sulla personalità

La prima cosa da dire, banalmente, è che lo specchio definisce la nostra identità, il che di per sé non è né positivo né negativo, o meglio è entrambe le cose: semplicemente, è un processo necessario per la nostra crescita come individui. È allo specchio che un bambino definisce la propria identità, dopo aver cominciato a capire che quella persona lì di fronte a sé, che si muove al suo stesso ritmo, ripetendo i suoi gesti, non è altri che sé stesso. Una volta capito questo meccanismo, è confortante per lui possedere un’ancora al mondo reale, qualcosa che gli dia costantemente conferma della sua esistenza, della sua forma – lo specchio, appunto. Allo stesso tempo, tutto ciò può essere molto doloroso: specchiandosi si può (ri)conoscere la propria immagine e confrontarla/opporla con quella altrui, scoprire il significato di concetti astratti come bellezza e bruttezza, e infine vedere su di sé gli effetti del tempo che scorre, capire come questo ci influenza interiormente (anche se queste ultime cose richiedono pazienza e saggezza: ciò che non provoca cambiamenti immediati richiede una capacità di osservazione che, per forza di cose, vien da sé col passare degli anni).Allo specchio ognuno di noi può sperimentare la straniante esperienza, resa normale dall’abitudine, di vedere se stesso come ci vede un altro, ovvero come “altro” da sé, mentre questo altro identico a noi a sua volta ci osserva. La dualità di queste esperienze, e dello specchio che ne è il tramite, è ciò che Freud avrebbe definito “perturbante”, ovvero qualcosa in grado di provocare allo stesso tempo un senso di familiarità e di alienazione.
Potremmo dire che la fotografia è uno specchio del mondo visto dal punto di vista del fotografo (e questo è un aspetto ben chiaro agli addetti ai lavori, o perlomeno a coloro che si interessano della filosofia dell’immagine). E quindi è anche uno specchio del fotografo, e del suo sguardo. Per questo ci mettiamo in posa per le fotografie, perché siamo consapevoli che c’è uno sguardo fisso su di noi (anche se non il nostro, ma quello dell’altro), e cerchiamo di controllare la nostra espressione e la nostra immagine, come faremmo davanti ad uno specchio, per essere al meglio. A differenza dello specchio, però, la fotografia non è inerte, è il risultato di un’azione intenzionale, e quindi ci trasforma in un certo senso da soggetto a oggetto. Presso molte popolazioni tribali la fotografia è malvista; e questo non è tanto diverso da ciò che accade anche qui in Occidente, dove le credenze popolari attribuiscono valenze negative agli specchi, perché essi, duplicando la realtà, sarebbero in grado di imprigionare l'anima nell'immagine riflessa. Nelle realtà rurali c’è ancora l’uso di coprire gli specchi nelle abitazioni in cui sia morto qualcuno, per impedire agli “abitanti” dell’aldilà di accedere al nostro mondo.Forse questo è un tantino esagerato (forse), ma non è una percezione così strana: realmente chi mi fotografa mi imprigiona nel suo sguardo, mi cristallizza nel tempo; in un certo senso, mi uccide. Per chi vedrà una mia foto io sarò per sempre, fisso nel tempo, il tizio della foto, ora bambino, ora via via un po’ più invecchiato. La cosa ha dei lati positivi, se ci pensate. Nella realtà delle mie vecchie foto sarò per sempre giovane. In tutte le foto che mi ritraggono, o ritrarranno, io sarò per sempre vivo. Nella mia realtà, invece, il tempo continuerà a scorrere inesorabilmente, e a trasformarmi. E ogni volta che verrò fotografato nascerà un mio doppio, un clone, che da quel momento inizierà a vivere di vita propria, anche se una vita di celluloide.
Prima ho scritto che ciò che gli altri vedono siamo noi stessi in perenne movimento, e non l’immagine statica che di noi rimanda lo specchio. Penso che il fatto stesso di poterci vedere riflessi mentre ci muoviamo inconsciamente influenzi i nostri stessi movimenti, e lo stesso avviene quando veniamo fotografati, tanto che quando capita di non riconoscersi in fotografia, spesso è perché non ci siamo messi in posa. Talvolta, quando guardo le mie foto vedo solo un estraneo che mi somiglia. Davanti a una mia foto mi capita spesso di chiedermi “ma io sono davvero così?” con sincero stupore e, spesso, delusione.

"Lo specchio scuro" è un noir del 1946 con
Olivia de Havilland nel doppio ruolo di due gemelle

Nel cinema l’effetto specchio è doppiamente straniante, proprio come in fotografia, perché dopo essere stato ampiamente esplorato in letteratura, lì il tema del doppio ha trovato nuova linfa vitale. Non solo lo schermo cinematografico è esso stesso una sorta di specchio, perché i film sono concepiti apposta per stimolare la nostra identificazione con i personaggi e le loro vicende, ma i film spesso utilizzano il tema dello specchio (uno specchio nello specchio…) per indagare la dimensione psicanalitica dei personaggi. La moderna psichiatria fa derivare tutta l’arte da pulsioni inconsce, e va a nozze soprattutto con il cinema, perché ricollega le immagini all’inconscio, proprio come le macchie di Rorschach costituiscono per gli psichiatri un ponte con l’inconscio del paziente aiutandoli a diagnosticarne i disturbi della personalità.
Questo collegamento mi è venuto alla mente dopo la visione del film “Lo specchio scuro” (The Dark Mirror, 1946) nell’ambito di una rassegna intitolata “Cinema e psicoanalisi: lo specchio nel cinema” tenutasi ormai qualche mese fa in collaborazione con il Centro Milanese di Psicoanalisi “Cesare Musatti”. Nel film un medico viene ucciso nel suo studio e il caso pare presto risolto, perché ci sono molti testimoni in grado di identificare l’assassina, una fiamma dell’uomo, senonché la donna ha una gemella e le due donne si spalleggiano, rifiutandosi di rivelare chi sia la vera colpevole. Uno psichiatra aiuterà la polizia ad individuare quale delle due sorelle ha commesso il fatto, e qual è il movente, utilizzando (fra le altre cose) proprio il suddetto test di Rorschach per accertare la sua malattia mentale. Inutile dire che, come il titolo fa supporre, nella storia lo specchio ha un ruolo centrale. C’era uno specchio nella stanza dove la vittima è stata pugnalata, e ve n’è un altro nella stanza dove si svolge la scena finale del film. Quest’ultimo, metafora della parte malata dell’animo dell’assassina, fino ad allora relegata in uno spazio emotivo lontano dal quotidiano, finirà in pezzi. Con lo specchio si sfasceranno anche la compostezza ed autocontrollo della donna, così come il legame simbiotico che esisteva con la sorella.CONTINUA

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