Riflessioni sul Risorgimento italiano

Creato il 20 settembre 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno


La borghesia italiana tra Gioberti e Mazzini.
Parte prima: La proposta neoguelfa di Gioberti

In questi giorni in cui si parla di prossime celebrazioni dell’Unità d’Italia non è vano riflettere sulla nostra “biografia”, magari allo scopo di individuare i tanti “mali” e i tanti “difetti” che tuttora affliggono la nostra nazione. Questo lungo saggio sarà diviso in tre parti: nella prima analizzo la proposta neoguelfa di Gioberti, cercando di mettere in evidenza la funzione che essa avrebbe dovuto assolvere per tenere coesa la società “italiana” del tempo, fondata sull’istanza ideologico-religiosa con chiare venature liberal-cattoliche, che avrebbe avuto lo scopo di evitare che il processo di unificazione potesse scompaginare gli assetti sociali della penisola . Nella seconda parte parlo del progetto mazziniani di edificare una “religione civile”, fondato su un’istanza liberal-democratica. Nella terza parte esaminerò come le due proposte saranno fatte proprie dalla piccola borghesia italiana, depurate delle componenti anacronistiche ed ideali, finiranno per confluire nella “religione civile” del fascismo.

Negli anni che corrono tra il 1821 e il 1846, l’Italia fece notevoli progressi in campo economico, anche se limitati sia rispetto ai paesi più progrediti d’Europa che a quelli che compirà nella seconda metà del secolo. Chiaramente non tutte le regioni erano coinvolte in questo processo di modernizzazione. Al sempre maggiore sviluppo della borghesia terriera si accompagnava la nascita di un economia di mercato. E fu proprio intorno agli anni ’40, in conseguenza dei primi sintomi di progresso nel quadro economico delle regioni settentrionali, che cominciarono a porsi le prime condizioni che spinsero i ceti sociali più vitali e intraprendenti a riflettere sui danni derivati dalla frammentazione politica del territorio italiano, che impediva la mancanza di un mercato nazionale e la nascita di un efficiente sistema di comunicazione. Tuttavia le soluzioni avanzate evitavano di mettere in discussione i rapporti di proprietà. Rapporti che dovevano restare intangibili anche in un eventuale mutato assetto politico. In sostanza, ciò che la borghesia vuole evitare in questa fase storica era di innescare con lo sviluppo dell’industria una lotta di classe. L’illusione di cui si nutrono i nostri intellettuali è di credere che il graduale e controllato progresso civile avrebbe evitato ogni asprezza sociale e che le classi avrebbero finito con il vivere in armonia (un’illusione che arriverà sino al corporativismo di marca fascista). La borghesia non si apprestava a combattere la propria lotta di classe contro i vecchi regimi con la coscienza di combattere una lotta nazionale, come pensava il Vené; il crederlo significa soltanto ignorare la realtà storica dei fatti e applicare meccanicamente alcuni principi marxiani. Economicamente, la borghesia aveva già vinto la sua battaglia dall’epoca napoleonica, si trattava soltanto di convertire la aristocrazia al suo credo e di creare in Italia le condizioni politiche affinché quelle forze si sviluppassero ulteriormente. Perciò, in un primo tempo, ha cercato persino la collaborazione dei principi che governano sugli stati italiani o, come amava esprimersi il Gioberti, “la concordia fra i principi ed i popoli”. Ciò che Gioberti vedeva non era certo una lotta di classe, neanche verbale, contro i principi e le istituzioni: “Veggo i principi ed i nobili ed i ricchi dignitosamente affabili, cortesi [...] i cultori delle arti meccaniche e gli uomini dedite alle industrie ed ai traffici, non pensare solamente al proprio utile...”. Ma questa concordia doveva cementarsi in qualcosa, non si poteva correre il rischio, nel momento in cui ci si apprestava a mutare il quadro istituzionale dell’Italia, di innescare un processo dinamico nella società, che avrebbe potuto sfociare nella lotta di classe. Questo era il pericolo reale che la borghesia temeva nel momento in cui avrebbe liberato le proprie forze dai lacci imposti dai particolarismi degli stati italiani. Occorreva alla vigilia di quel processo creare tra le classi sociali un legame “ideologico” che le tenesse unite: “Veggo infine la religione posta in cima di ogni cosa umana; e i prìncipi, i popoli gareggiar fra loro di riverenza e di amore verso il romano pontefice [...] Così mi par di veder il ben pubblico finalmente d’accordo col privato e la felicità d’Italia composta con quella degli altri popoli, sotto il patrocinio di un supremo e unico conciliatore; e quindi spento con questa beata concordia ogni seme di guerre, di sommosse, di rivoluzioni” (corsivi miei).
La proposta avanzata dal Gioberti, negli anni Quaranta, di affidare alla presenza capillare della Chiesa la risoluzione politica del caso italiano, tradotta in altri termini, significava che attraverso la forza della tradizione religiosa sarebbe stato possibile tenere vincolate a sé ogni classe sociale. Anche se la proposta apparirà realisticamente anacronistica, aveva comunque una sua logica interna. Lo stesso Gramsci notava come “il Risorgimento era possibile solo in funzione di un indebolimento del papato”. Ma a Gramsci sfuggiva la motivazione profonda di questa proposta. E non solo a Gramsci: gli storici che si sono occupati di Gioberti hanno di solito valutato la praticabilità politica di quella proposta, vale a dire quante possibilità avesse effettivamente di concretizzarsi, date le condizioni storiche, mettendone in evidenza i lati utopistici, ma sia Gramsci sia gli storici se hanno in sostanza saputo interpretare le intenzioni politiche che si celavano dietro quella proposta, non ne hanno valutato invece le intenzioni ideologiche.
Ciò che i moderati neoguelfisti stavano tentando era trovare all’interno della società del tempo una funzione di dominio. Non bisogna dimenticare il ruolo che la Chiesa aveva svolto nell’ambito dell’economia feudale. Con la sua presenza capillare la Chiesa, secondo il programma neoguelfo, poteva garantire la coesione del sistema, e quindi l’armonia tra le classi. Ora, in una economia dove la proprietà fondiaria restava ancora la fonte maggiore di ricchezza, il ripristino della funzione ideologica di dominio poteva trovare anche qualche appiglio nella società. Sta di fatto però che in Italia, proprio negli anni in cui si profilava all’orizzonte un tipo di economia moderna, quella ricchezza avrebbe avuto nel tempo un ruolo sempre più marginale, e la proposta neoguelfa si sarebbe inevitabilmente scontrata con la realtà sociale del paese, che non avrebbe certo permesso alla Chiesa, senza voler considerare le sue posizioni ideologiche assunte nei confronti del liberalismo, di esercitare una funzione di dominio, poiché ciò avrebbe significato ridare al suo magistero i suoi antichi privilegi (controllo totale sugli studi, sui costumi, sulla vita) come era avvenuto durante il Medioevo. Il papato e la religione non erano affatto usati ai fini della lotta risorgimentale, come si è sempre pensato, ma rimodernati e lasciati decantare dalle posizioni erronee assunte nei confronti del liberalismo, erano usati ai fini di una coesione sociale. D’altra parte, questo volontà di ridare alla Chiesa la sua funzione ideologica di dominio spiega anche in parte tutto il revival che si accese nell’ambito del romanticismo europeo intorno al Medioevo, perché non fu soltanto il nostro neoguelfismo a mostrare interesse verso l’azione di salvaguardia della tradizione da parte della Chiesa, ma anche alcune correnti politiche uscite fuori con la Restaurazione. Anzi, la proposta neoguelfa fu influenzata da quelle correnti politiche.
Che ci fosse in atto il bisogno per i ceti possidenti di ripristinare una funzione di dominio, quando nell’aria si avvertiva l’esigenza di porre forti cambiamenti politici, lo dimostra anche il successo editoriale che il saggio di Gioberti, Del Primato morale e civile degli Italiani, ebbe fin dalla prima edizione, e non bisogna dimenticare il grande favore di pubblico che riscosse soprattutto nell’Italia meridionale, dove la presenza di quei ceti era ancor più massiccia. Certo una ripresa pura e semplice della funzione ideologica di dominio, come era stata esercitata dalla Chiesa nell’ambito dell’economia feudale, non era né realisticamente praticabile né era dallo stesso Gioberti auspicata. Ma nell’integralismo cattolico giobertiano non c’era certo posto per una visione laica della vita. Inoltre, l’intransigenza verso tutto ciò che suonava “moderno”, di cui il papa non aveva mai fatto mistero, non favoriva affatto le intenzioni di Gioberti. Quando infine tra lo Stato italiano e la Chiesa si consumò una frattura insanabile, che mise i cattolici per parecchi decenni nella condizione di non occuparsi delle vicende sociali dell’Italia, quell’aspirazione sfumò completamente, e la stessa classe politica italiana cominciò a nutrire sentimenti anticlericali. Ma non sfumò il bisogno di ripristinare comunque una funzione di dominio, anzi dopo l’unità d’Italia questo bisogno, per il modo in cui il processo di unificazione era avvenuto e per il modo in cui la crescita economica si stava realizzando, divenne ancor più impellente. Se già alla fine degli anni quaranta era crollato il mito del Primato della Chiesa, non era perciò crollato il bisogno di ripristinare comunque un Primato.
Gramsci ad un certo punto nelle note sul Risorgimento si domanda se “il moto politico che condusse all’unificazione nazionale e alla formazione dello Stato italiano [doveva] necessariamente sboccare nel nazionalismo e nell’imperialismo militaristico?”. Gramsci scorge nel mito “di una missione d’Italia”, “un mito verbale e retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni presenti, già formate o in processo di sviluppo” (ibidem). È significativo che Gramsci faccia risalire quel mito a personalità come Mazzini e Gioberti, e ricordi poi i nomi di Sella, Corradini e D’Annunzio. Nel momento in cui scriveva, non gli sfuggiva nemmeno il fatto che a quel mito il fascismo si richiamasse, anzi che su quel mito aveva fondato la sua politica interna ed estera. D’altro canto, non a caso la domanda di Gramsci costituiva la tesi dello storico fascista Gioacchino Volpe, L’Italia in cammino. Infine, è interessante che Gramsci giudicasse quello sbocco “anacronistico e antistorico (cioè artificioso e di non lungo respiro)”, ma, aggiungiamo noi, in realtà era funzionale allo scopo proposto. Infatti, ciò che Gramsci non poteva valutare era il significato che quel mito ha avuto nell’accelerare la funzione politico-ideologica di dominio. L’incongruenza sta nel fatto che alla struttura capitalistica non corrisponda una funzione economica di dominio. La funzione politica o ideologica di dominio appartiene ad un altro modello di società, rispettivamente a quello schiavistico e a quello feudale. Perciò Gramsci osserva giustamente che “l’espansione moderna è di ordine finanziario-capitalistico”, e che nel presente “l’espansione italiana può essere solo dell’uomo-lavoro e l’intellettuale che rappresenta l’uomo lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi cartacei del passato”. Traducendo il linguaggio gramsciano nel nostro, diremmo che la struttura economica capitalistica deve avere come corrispettivo la funzione economica di dominio, in quanto è questa la funzione di dominio che garantisce il dominio sui bisogni e sulle forme della loro soddisfazione a determinare il potere della borghesia sull’intera società. Se nella funzione politica di dominio il cittadino viene vincolato alla sua condizione in virtù di un apparato militare, e in quella ideologica lo è invece in virtù di un apparato ideologico, nel sistema capitalistico il lavoratore lo è in forza del dominio che i rapporti di produzione e di distribuzione esercitano sui suoi bisogni. È accaduto, invece, che in Italia, pur essendoci sviluppata una struttura economica di tipo capitalistico, non si sia originata una corrispettiva funzione economica di dominio. Il paradosso anacronistico o l’incongruenza sta qui, e secondo noi ciò deve essere spiegato con la storia particolare del nostro paese. Il dato da considerare, come dicevamo, è il tipo e la forma che quell’espansione economica assunse in Italia: caotica e tumultuosa, in primo luogo, e strettamente legata all’intervento dello Stato, in secondo luogo. Queste due condizioni non hanno permesso che in Italia la funzione di dominio fosse guidata dall’istanza economica, e hanno spinto i ceti borghesi a fare affidamento sull’uso combinato della funzione ideologica e di quella politica di dominio. In questa distorsione possiamo leggervi un corso anacronistico della situazione italiana.


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