Una moltitudine di opere apparentemente estranee, o diversissime tra loro, distanti nel tempo e nello spazio, dal passato al presente, dalla pittura
rinascimentale alla fotografia modernista, dagli albori del cinema alla scultura o installazione contemporanea sono state accidentalmente accostate, tenute
insieme nell’ esposizione “La Grande Magia” al Mambo di Bologna secondo la logica del puro immaginativo o meglio rilette secondo categorie paradigmatiche
desunte dal pensiero magico quale filone sotterraneo d’un sapere segreto, esoterico, dell’occulto o dell’irrazionale visibile tuttavia nelle sue
manifestazioni tangibili ai margini della logica dominante del razionalismo occidentale a partire dal VIII secolo. Nel presente allestimento tali categorie
desunte dal filone del pensiero magico/irrazionale vengono utilizzate come metafore per rileggere lavori tra loro più estranei e disparati, per pensare
l’atto della creazione, la figura dell’artista, il rapporto tra arte e natura, arte e artificio. In particolare in tutte le opere scelte la magia viene
vista in binomio indissolubile con l’arte attraverso una serie di figure del pensiero del “magico”: in primo luogo l’opera è pensata come trasformazione
alchemica o “magica” della materia, d’una materia resa viva, vivente perché plasmata, manipolata, passata al vaglio dalla mente e delle mani dell’artista
demiurgo. In secondo luogo, la capacità dell’arte di appropriare come nel rituale esoterico, di possedere la realtà attraverso le immagini: l’immagine
fotografica nel suo potere di catturarla e trasmutarla visivamente, il cinema nel suo potere cinestetico di creare immagini in movimento riconnesse alla
pellicola invisibile del sogno, della memoria o dell’immaginazione cosciente, infine l’immagine poetica generata dal linguaggio nel suo potere di
simbolizzazione attraverso la parola.
Le opere qui riunite nel loro rapporto pur diverso e disparato al magico o all’irrazionale entrano in qualche modo in un rapporto differente al tempo,
insinuano l’idea d’una temporalità percepita come flusso e continuo oltre la contingenza del singolo avvenimento, della singola esistenza e fuori dai
limiti cronologici d’un tempo lineare misurato dagli orologi. Aprono alla percezione d’ un territorio di circolazione fluida delle forze e dei saperi tra
l’uomo e la natura secondo un concetto di magia naturale o sciamanica che è l’essere in ascolto, in corrispondenza con tutte le forze del cosmo, vegetali,
animali e minerali, animate o inanimate, del mondo visibile o invisibile, che è, ancora, un riconoscersi in questo insieme di similitudini e corrispondenze
tra le parti e il tutto secondo una percezione espansa o poetica del mondo simile a quella del poeta.
Luogo obbligato di passaggio, in questo senso, appare il prologo a “La belle et la bête” di Jean Cocteau; parole proiettate su uno schermo traslucido e
riflettente all’inizio della mostra invitano gli spettatori a varcare “le soglie della propria certezza razionale”, a lasciarsi portare in questo altro
mondo incantato dell’infanzia trascinati dalle quattro parole magiche del “c’era una volta”, vero e proprio “apriti sesamo dell’immaginazione”, in quella
dimensione dove si credono mille cose assurde: “che una rosa che si raccoglie in un giardino può’ attirare i drammi d’una famiglia, che le mani d’una
bestia umana che uccide si mettano a fumare…”
La figura “del sortilegio”, incanto o incantesimo
operato nel dominio del magico ritorna in queste riletture di artisti simbolisti o contemporanei come visione di straniamento, sospensione o perdita dove
l’anima smarrisce le proprie coordinate spazio-temporali restando imprigionata in un’altra realtà in seguito a furto o incidente oppure perché irretita e
trattenuta da qualcun’altro. Perduta alla propria originaria dimora, inizia a galleggiare invano nel vuoto senza potersi ricongiungere al proprio
corpo-destino, alla propria autentica esistenza. Di qui, i volti imprigionati di sirene o “pesci d’argento” di Klimt, la figura del “viandante” di Eline
Brotherus o, ancora, la “sospensione aerea” di Clara Strand.
Gustav Klimt, “Pesci d’argento”
Sono due figure femminili ciascuna ravvolta in una lunga capigliatura che scende fino ai piedi in coda-strascico nero puntigliato di minuscoli diamanti
simili a sirene su un fondale verde-oro. In alto onde di metallo discontinue come pesci d’argento sono frammiste a questi volti sospesi, acquatici e
fluttuanti. Due profili, lo stesso ripetuto, uno più grande, espanso, irradiante quanto malinconico, l’altro più piccolo, brumoso, sulfureo verde ramato e
privo di luce. Lo stesso volto è ravvolto in questa capigliatura fluida, espansa sino ai piedi in un’ondata morbida, allungata e argentea, liscia e
rilucente come epidermide laminata di pesce d’acqua dolce, prigioniero forse in quella sua non-forma di corpo, a metà umano, a metà marino e da cui si
staglia, netta, solo la chiarificazione singolare del volto.
Il verde acquatico del fondale, delle alghe, dei molluschi e delle creature d’acqua, dello stato primigenio di natura si staglia contro l’oro risplendente
della divinità. Avvolte, prigioniere dentro questi involucri-chiome i corpi diventano lucida scia amalgamandosi al loro involucro protettivo. Tale, il
manto nero incastonato su verde-oro diamante che avvolge e riassorbe il corpo come brillante prigioniero.
“Wanderer” di Eline Brotherus
riprende il dipinto del romantico Friedrich, “Viandante su mare di nebbia” lo stesso punto di vista di chi volgendo le spalle allo spettatore si perde
nella contemplazione silenziosa del paesaggio ravvolto da una leggera bruma invernale. Qui è l’artista a mettersi in scena attraverso l’auto-scatto, a
riprendere sé stessa nell’atto di guardare, immergersi, perdersi nella visione di vette alpine infuse di nebbia, irrigate dalla purezza dell’aria nei
colori tenui, nei contorni sfumati delle montagne ravvolti da una leggera, bianca foschia invernale. E il villaggio a distanza appare molto più in basso
come una visione da cartolina, strana sospensione di realtà ripresa in questa tenue dissolvenza dei contorni come sotto il vago effetto d’un incantesimo,
galleggianti in aria in questa meditazione silenziosa attraverso lo sguardo.
Paesaggio dell’anima, , volto-paesaggio riflesso attraverso quello lei che vede all’esterno, sé stessa occultata al nostro sguardo.
“Aerial suspension”, Clare Strand
La fotografia si fa medium all’invisibile, rende tangibile la sospensione aerea, il volo, la levitazione da terra del corpo sollevato e come lasciato
sospeso in aria nel vuoto. Aspirazione al volo, all’assenza di gravità o di peso, alla sensazione leggiadra, leggera del divenire simili a uccelli o
creature d’aria, o, invece, irretimento in aria in mezzo all’oscuro nulla come sotto l’effetto d’un incantamento, d’ un incantamento o d’una cattura. E la
levitazione dal suolo è questo restare nella sospensione dell’indeterminato, nella perdita di contatto con la terra, contro il nero vortice che risucchia
dal fondo, nella lotta dell’anima per ritrovare il proprio corpo precipitato nel baratro del nulla, prigioniero nel mentre d’una qualche altra realtà per
uno strano, bizzarro gioco del destino.
Nella stessa parte della galleria è l’illusione ottica del treno che corre incontro agli spettatori in una delle prime immagine prodotte dal cinematografo
dei fratelli Lumière alla fine del XIX secolo, ancora una luna parlante che s’anima, grida e si tinge di giallo sullo sfondo d’una bruna gassosa e
grigiastra in mezzo a una miriade di personaggi animati, infine l’illusione ottica d’un dispositivo di vetro e acciaio a specchio (Jeppe Hein) che
capovolge la visione statica dello spazio portando con sé lo spettatore nel rovesciamento. La superficie solida diventa mobile, pieghevole, ravvolta come
un quadretto di terra dentro un fazzoletto ricamato di bianco che si porterebbe con sé nella propria tasca.
In “As time goes by” gli orologi girano al contrario, le loro lancette si muovono all’impazzata dentro quadranti esplosi in moto vorticante senza potersi
arrestare contro l’apparente immobilità del tempo della futilità quotidiana. Percepiamo un mondo governato da altre logiche di trasmissione silenziosa, di
flussi temporali e circolazioni energetiche, intravvediamo una realtà che sovverte il tempo logico, cronologico degli orologi, che spezza l’unità
spazio-temporale del qui e ora, che apre alla percezione del sovra-sensibile, dell’irrazionale come del puro immaginativo.
Il linguaggio poetico o artistico afferma la propria indipendenza, la propria struttura “libera e arbitraria” secondo una logica propria che è più vicina a quella del magico e del rituale che non a quella del razionale. Così, la visione può triplicarsi come nell’installazione di Paolini o ridursi in un dettaglio espanso e significante come nelle fotografie di Penone, ribaltarsi in un mondo al contrario come nei quadri di Baselitz, creare un universo fittizio oppure lasciarci scorgere trasversalmente per un gioco di specchi e rimandi a un altro ordine di realtà come nelle immagini di Grazia Toderi. Sempre si si tratta di varcare una soglia o aprire uno passaggio verso un altro ordine immaginativo intravvisto, percepito o convocato negli spiragli, nelle fessure aperte sul visibile o sul linguaggio ordinario.
Giuseppe Penone, “geometria nelle mani”
Sono solarizzazioni di mani su fondo oscuro, mani strette, serrate, sovrapposte l’una all’altra; mani grandi racchiudendo questo fulcro di luce, qualcosa
che si illumina, germoglia e cresce dall’interno, lucore tra le mani nella totale oscurità. Danza di mani, mani illuminate da un auto-generatore luminoso
conducendo elettricità, mani irradiate di luce nella conversione della loro energia cinetica prima: trasmutazione, atto alchemico aprendo all’invisibile.
Mani, bagliore nell’oscurità auto-convertendo luce da nero; l’oro d’un abbraccio, racchiuso, avvolto, stretto nel gesto di mani generando questa fucina di
energia luminosa sulla pellicola fotografica.
“Un mondo privato”, Grazia Toderi
E’ un castello o giardino fatato nella triplicazione dell’immagine alla luce diurna, al crepuscolo poi nell’oscurità della notte. Uno strano enneagramma di
forme domina la simbologia complessa del giardino fatto d’una magica distribuzione di linee, di punti e circonferenze, fatto di pochi crocevia casuali e
molte simmetrie di tratti proseguendo all’infinito su tracciati paralleli, ciascuno a sé eppure leggibili a distanza nell’insieme ad occhio nudo. Il loro
punto di fuga luminoso porta al fondo di quel giardino verso un castello o dimora misteriosa avvolta tra gli alberi. Lo sguardo corre là verso quel luogo,
dimora o luogo appena visibile, quasi non scorto.
Di fronte dall’altra parte del giardino, oltre il tracciato simmetrico, oltre il diagramma simbolico di linee e punti intrecciati dei quali difficilmente
si scorgerebbe l’inizio e la fine del percorso si erge un lago e il suoi giochi d’acqua nel cui specchio si riflettono quel palazzo o castello al
contrario. L’immagine si sdoppia e si si rifrange, si crea e si disfa, riverbera e si decompone nelle fluttuazioni scomposte delle correnti, nei lenti
sciabordii delle acque, nei riflessi apparenti o illusori dei guizzi di sole su quelle. Un mondo alla rovescia compare, un tempo arrestato, specchi che
catturano o sdoppiano immagini, effetti ottici illusori quanto persistenti, a volte disturbanti, ma qui quieti, luminosi facendoci intravvedere questa
altra dimensione, questa visione di un mondo sottile, con le sue manifestazioni dell’invisibile oltre la materia apparente della nostra realtà .
Il giardino è anagramma, simbolizzazione d’uno spazio essenziale dato come grande metafora visiva, una simmetria perfetta di forme nell’enigma apparente
lasciato alla geometria della loro visione; Tale “zona di mezzo” come uno spiazzo aperto tra la dimora e l’altro mondo increato è anello di congiunzione,
di passaggio o di mediazione, verde distesa rasserenante, immobile e pacata di forme, calma quiete e apparente di un “mentre” tra il fondo e la scena. Il
suo anagramma appare nella calma penombra del pomeriggio, poi nella completa oscurità della notte nell’ultima immagine. Un bagliore luminescente sul fondo,
lo specchio d’acqua e la dimora sono ora oscurate, il prato è ricoperto totalmente dall’ombra della notte e, solo quel punto di fuga luminoso sul fondo
resta come una stella che conduce i viandanti ignari e senza direzione.
Georg Baselitz, "betulle, pittura con le dita”
Mondo al contrario, deflagrazione di colore nel rovesciamento tra cielo e terra, il cielo in basso con le sue striature e filamenti colanti, i suoi raggi e
tinture nere e rigature su fondo acquarellato chiaro, azzurro sfumato di bianco.
Il cielo nel luogo della terra, arida e brulla, giallastra, ocra e attraversata da crepe irregolari, rigata di solchi e spaccature simili a tronchi spogli
d’alberi nel rovesciamento delle forme, nel turbinio di rivolta dal loro interno ordinamento. A lato è invasa di cespugli verdi a macchia nell’effetto
deformante d’un mondo esploso o dissolto nei suoi apparenti contorni, mandato in aria con tutte le sue parti dall’interno fodero del suo sentire. L’ego
razionale ribaltato da una percezione espansa oltre la contingenza della sua singola esistenza raziocinante è poi ricondotto alla forma del rispecchiamento
per assurdo.
L’artista alchemico, la “canoa” di Zorio
L’alchimia secondo il sistema filosofico-esoterico tramandato segretamente per secoli è trasmutazione dei metalli in oro, del comune piombo in ciò che
brilla e risplende nell’uomo come la ricerca della sua perfettibilità, d’una prolungazione infinita della sua vita per vincere la malattia, la
corruttibilità della materia nel tempo attraverso la sua conversione immutabile in oro. Trasformazione della materia dal “vile piombo” all’ “oro
filosofico” dunque ma anche psichica e spirituale dell’essere umano implicato nel processo. L’alchimia, in questo senso, diventa metafora dell’operare
dell’artista, del processo di distillazione operato dal lavoro artistico partendo dai suoi coaguli di materia grezza, dalle scorie e le squame della sua
esistenza sensibile, dalle aperture che gli offrono gli elementi come le cose del mondo, dunque il processo di sublimazione implicito che opera l’arte, in
linguaggio in primo luogo nei suoi meccanismi costantemente partendo da presupposti o pretesti molto più bassi, primari, perlopiù inconsci.
La luce trattenuta tra le mani generatrice d’oro in Penone, le isole fluttuanti del disegno a carboncino di Christo ricoprono a raso la superficie d’acqua,
dischiuse come lettera aperta e poi ricucite nel collage su una missiva senza indirizzo.
Le “impronte di piedi” (Richard Long) intrise di fango generano un grande reticolo di forme d’ una pittura dell’accidentale, dell’azione estemporanea,
dell’intervallo del corpo nell’impromptu musicale dell'improvvisazione.
Calchi di figure in gesso fissamente si guardano nello spazio chiuso d’una “mise-en-scene” fittizia al centro della galleria: i loro occhi di vetro entrano
in contatto in questo spazio ermeticamente blindato costruito dalle traiettorie dei loro sguardi dentro un tempo sospeso, nell’avvenimento di qualcosa che
pur accadendo di fronte a noi resta lì cripticamente estraneo .
La “canoa di Roma” di Zorio, rovesciata e sospesa al soffitto in resina poliestere e tubi d’acciaio accompagnata da un fischio premonitore si fa vettore d’infinite trasmutazioni dentro la materia.
E’ “luogo” perché raccoglie energia in uno spazio ristretto, fluorescente all’interno dello scafo e poi la riproietta in linee di forza attraversano l’intera galleria.
E’ elemento simbolico perché come pochi altri in Zorio, giavellotti, stelle ecc., apre all’artista un passaggio verso una dimora originaria, un’energia primigenia della materia.
E’ archetipo di viaggio e movimento, dunque portatore di memoria e, come linea che traccia nell’alto attraverso lo spazio, anello di ricongiungimento tra
passato e futuro. In aria sospesa al contrario, sottile e rilucente nella sua resina oscura, saldata in sottili tubi d’acciaio ai lati si fa vettore d'una
comunicazione che ricongiunge spazi, dimensioni e saperi provenienti da diverse temporalità e esistenze, oggetto alchemico per eccellenza.
Corpo sciamanico, corpo performativo
Le sciamano nella sua capacità di conoscere e contattare le forze della natura, delle piante, degli animali, di viaggiare nei mondi, di entrare in contatto
con l’aldilà di questa realtà coinvolge il proprio corpo-spirito nell’espressione di gesti e rituali, nel ripetersi di formule, movimenti e suoni talvolta
fino a riuscire a farsi tramite di un'altra dimensione.
Il corpo, ugualmente, nell’esperienza performativa contemporanea si fa vettore di pensiero e di senso, strumento espressivo altamente ritualizzato, spesso prestandosi al gioco simbolico delle sue molteplici interpretazioni. Non solo appare nell’evento visivo della performance ma anche nell’esperienza trasformativa, nell’accadimento che in esso esperisce vive o attraversa.
Shirin Neshat “speechless”
Il volto è visto nel dettaglio del metà-viso, simmetricamente guardato e espanso in questa solo esatta metà del suo emisfero sinistro da cui emergono occhi
neri, intensi e brillanti, risolutamente gettati contro nell’atto del guardare, nell’azione di puntare gli occhi all’esterno , di soffermarsi e arrestare
il proprio sguardo su qualcuno o qualcosa ed indagare la realtà attraverso esso: atto conoscitivo e desiderante, analitico e sensuale del farsi tramite al
mondo attraverso la via d’accesso privilegiata dei propri occhi. Tuttavia, sempre, l’inviare è anche un ricevere di ritorno, l’indagare attraverso la
soglia del proprio sguardo è anche un offrirsi, l’essere nudi in quello sguardo, nel dettaglio analitico del proprio auto-ritratto. Il volto dell’artista
appare senza remore espanso, ingrandito e auto-esposto, completamente nudo in quel suo farsi tramite d’immagini al mondo, fotografiche o filmiche, solo
frapponendo una leggera pellicola quasi invisibile tra lei e l'esterno, sottile e effimera quanto i simboli grafici che le ricoprono il viso.
Saturo di scrittura, di minuscoli caratteri amplificati, appare nel suo magico rivelarsi attraverso occhi grandi, attoniti, parlanti in sé.
Fotografia e magico
“Misterioso connubio tra tecnica e magia, tecnica che combina ottica e chimica” come sottende la mostra, la fotografia fissa l’immagine sensibile prodotta
dalla luce in infinite tracce cartacee o digitali del mondo. Lo sguardo rivelatore del fotografo trasforma le forme del quotidiano, cattura immagini
rubandole al flusso continuo e indeterminato dell’esistenza, degli avvenimenti più banali, dei dettagli o delle anomale apparenze, documenta ma anche dà
corpo, dà voce alla propria interna visione alle cose. Come nel magico supera i confini apparenti di realtà qualche volta in favore di immagini
fantomatiche nate dal fondo della propria esistenza cosciente, immemore o immaginativa.
Nella serie:
Mani femminili eleganti e nobili in primo piano, un volto di donna allo specchio in auto-ritratto d’inizio novecento, ancora il suo riflesso in dissolvenza
malinconica, poi la forma epurata ed essenziale d'una madreperlacea conchiglia ingrandita su un fondale roccioso (E. Weston).
Manipolazioni di visi simili a maschere riplasmate in dagherrotipi di inizio xx secolo.
“Self-portrait past, present”: ritagli inediti di collage fotografici estratti a caso dal flusso temporale d'un esistenza.
I visi perduti, fossili e bucherellati di Ulisse e Ercolano, la magia rituale d'una danza di cerchi d’oro e corpi in onda continua, la solitudine di luoghi
essenziali assorti nel silenzio della preghiera, varchi e passaggi perturbanti di vicoli stretti e oscuri nel quartiere ebraico di Praga all'inizio del xx
secolo.
Forme di piante e vegetazione trasposte attraverso il dettaglio, la deformazione e l’espansione, piante morbosamente espanse divenendo labirinti carnivori,
forme fetali, spine affilate, cactus o leggere ali di farfalle.
Rocce gridando l’urlo di immigranti anonimi come bocche parlanti, come fauci su fondali oscuri, traslucidi e brillanti; crateri urlano il canto di rocce
vivide, animate di presenze allo sguardo.
Rompere la parete del suono o del silenzio, essere rigati, nelle immagini di Gerard Richter, soffocati o ripiegati, graffiati o incisi di
baci espansi in striature violacee, in scarabocchi di pennelli impazziti su auto-ritratti di volti ordinari.
La figura dell'artista demiurgo o creatore riplasma come attraverso un rituale magico le apparenze del mondo in chiave immaginaria secondo leggi interne al micro-cosmo dell'opera là dove il mondo si offre come occasione di metamorfosi poetica, la materia, qualsiasi, la più marginale come la più rara, frammista, recuperata, mischiata o rivoltata, diviene potenziale in un processo combinatorio ogni volta inedito che darà vita all'opera.
“Urlo bianco”, Gunther Uecher
Sono chiodi neri e affilati, sottili e infiniti nel loro potenziale di distruzione e ricomposizione, nel loro gioco tra rigore e caos, forze centrifughe e
nucleo volgendo all'esterno in un moto concentrico di ricomposizione e disintegrazione costante. E' l'incastro infinito di chiodi sottili e acuminati,
ognuno in una distribuzione sapiente di punti dando origine a un vortice simile a fontana o cascata in espansione voluta, nel disordine organizzato della
propria forma dal centro alla periferia, nello smantellamento controllato della medesima in punti simultanei distanti e tuttavia ancora connessi.
“Simultaneo” di Matthias Weischer
E' questa grande ovazione del verde e del bianco distesi come pasta densa di cellulosa colorata aggiunta ad acqua su carta, data per simmetriche alternanze
di forme astratte e poi in guizzi improvvisi e fluidi di colore, in onde riplasmate e lavorate direttamente sulla superficie immensa del quadro prima che
la materia dissecchi.
Verde smeraldo giardino di cristalli di malachite, verde città di forme e guizzi della memoria con rete bianca e cerchio a sfera al centro; verde snodarsi di grandi linee rasserenanti alternante al bianco in energia calma e luminosa .
Verde del colore del mare visto dalla superficie terrestre, della densità piena dello spazio acquatico visto come massa tangibile di cose che sedimentano
ma anche nel guizzo improvviso, nel movimento rapido e inatteso, nell'aspetto volatile e leggero dei pesci e delle creature d'acqua. (elisa castagnoli)