di Matteo Riccò.
(Lettura inaugurale congresso SIDILV Parma - 2009)
La storia del continente europeo rappresenta un puzzle che le convenzionali metodiche di indagine archeologica e storica sono difficilmente in grado di risolvere. I primi documenti storici accessibili in nostro possesso risalgono infatti al XIV – XII a.C. : si tratta dei testi palaziali micenei in lineare B, intellegibili in quanto – pur composti in un complesso alfabeto sillabico, decifrato nel corso del XX secolo dall’inglese Michael Ventris, sono espressione della più antica variante del greco antico. Si tratta, tuttavia, di testi molto “poveri”, quantomeno secondo il punto di vista del lettore contemporaneo: comprendono quasi esclusivamente registri annonari, ovvero documentazione amministrativa, in cui solo eccezionalmente compaiono accenni alla realtà storica contemporanea – che, comunque, non va oltre alle specifiche esigenze del palazzo e del suo contado.
Al di là dell’indiscutibile valore storico e documentario, cercare di ricostruire le più antiche vicende europee – o quantomeno dell’area geografica dell’Egeo, tramite questa documentazione è come tentare di immaginare la travagliata storia del XX secolo tramite un registro contabile. Relativamente maggior fortuna si ha non appena varcato l’Egeo: gli archivi di Hattusas, capitale del coevo impero ittita, contengono infatti un certo numero di testi letterari e storici. Ad esempio, la loro scoperta e decifrazione ha permesso di scoprire come il leggendario Ramesses II avesse clamorosamente “gonfiato” tramite una propaganda pubblicitaria degna dei nostri tempi gli esiti assai più controversi della battaglia di Qadesh che, combattuta nel XII secolo a.C. fra forze ittite ed egiziane per il controllo della Siria, fu dal grande faraone spacciata come una clamorosa vittoria sul nemico asiatico. O come Esiodo, uno dei più grandi poeti dell’arcaismo greco, avesse risentito, nella composizione delle sue opere pervenuteci (“Le Opere e i Giorni” e la “Teogonia”) dell’impronta culturale ittita, sopravvissuta al crollo dell’impero nel corso del XII secolo a.C.
Per chi si interessa della storia europea, in ogni caso, l’utilità di tale documentazione è comunque solo parziale. Nonostante una certa storiografia abbia interpretato l’impero ittita come prima espressione di una potenza “europea”, per collocazione geografica (la penisola anatolica) e per interessi politici e commerciali, esso appartiene indiscutibilmente all’area medio-orientale, da cui – all’atto pratico, si distingue quasi esclusivamente per ragioni etnico-linguistiche. Gli Ittiti sono infatti la prima popolazione indoeuropea (o supposta tale) a comparire nelle vicende storiche mediorientali sotto forma di uno stato centralizzato e ben organizzato: la prima storiografia del ‘900 (soprattutto di area tedesca), spinta da una propaganda di stato volta ad identificare affinità culturali fra mondo ittita e mondo germanico, funzionale al crescere degli interessi tedeschi in area mediorientale, esaltò la cultura ittita come primordio della cultura europea, ravvisando in essa aspetti che in realtà non esistevano.
A testimoniare il fatto che le attenzioni ittite fossero rivolte ad oriente piuttosto che all’occidente (prefigurando la secolare ambiguità di tutte le entità statuali che andranno ad occupare l’area anatolica), nonostante la grande fioritura micenea e quella ittita siano grossomodo contemporaee, la documentazione di Hattusas riserva accenni del tutto sporadici al mondo egeo ed all’Europa in generale. Affascinante, certo, che in questi archivi si parli di una città occidentale chiamata Wilusa (“pericolosamente” affine al termine Ilio, altro nome di Troia) in guerra con certi Ahhiyawa (Achei?) in documentazioni in cui nomi assai famigliari quali Paride, Alessandro, Achille e così via emergono improvvisi e del tutto inattesi.
Detto ciò, risalire tramite documenti storici al periodo ancora più antico, e sicuramente decisivo nella formazione dell’identità europea – a quelle prime fasi di “storia” europea indissolubilmente intrecciate con la fine della “preistoria” è praticamente impossibile.
Su questa mancanza di documentazione scritta, e sulla carenza dei dati archeologici, la storiografia del primo ‘900 ha ampiamente ricamato: in analogia al citato esempio degli Ittiti come leggendari precursori dell’Impero Germanico, le potenze coloniali europee hanno variamente fatto proprie le diverse civiltà portate alla luce dalla nascente ricerca archeologica, gareggiando nel riconoscere in esse più o meno diretti precursori della propria identità culturale. Basandosi sulla narrazione di Tucidide relativa alla più antica storia greca e su Erodoto, Evans – lo scopritore di Cnossos e del cosiddetto “Palazzo di Re Minosse”, immaginò ad esempio la civiltà minoica come un Impero dei Mari (Talassocrazia) assai più simile all’Impero Britannico di sua Maestà Britannica la Regina Vittoria che al mondo minoico quale noi oggi effettivamente abbiamo imparato a conoscere.
Il passo che separa queste fantasiose ricostruzioni storiche (comunque ancora dotate di una base documentale) alle affermazioni pseudostoriche del nazionalsocialismo (che vedeva nel Volk tedesco l’ultima e più pura espressione di una primitiva civiltà eurasiatica, esistente piuttosto nei racconti di fantascienza che nella realtà storica), è pericolosamente breve.
Non immaginando le drammatiche conseguenze che tale approccio avrebbe prodotto di lì ad alcuni decenni, la storiografia del tardo ‘800 immaginò che l’Europa preistorica fosse stata la culla di una remota cultura megalitica (di cui per altro ancora si trova purtroppo traccia nei moderni libri di storia delle scuole medie e superiori) che, in perfetta analogia alle potenze coloniali europee del tempo, si sarebbe quindi diffusa a tutto il continente eurasiatico “portando civiltà” (per usare le formulazioni care agli scrittori del tempo) ed acquisendo da una regione all’altra caratteristiche specifiche. In altre parole, i dolmen ed i menhir propri dell’area nordica, rappresenterebbero l’improvvisa ed ancora primitiva fioritura di una stessa medesima civiltà che quindi avrebbe partorito il cerchio di pietra di Stonehenge, le grandi fortezze micenee, e persino le Piramidi di Giza! I responsabili di questa fiuritura? Le popolazioni che abbiamo già definito come indoeuropee.
Il gruppo indoeuropeo comprende un vasto spettro di lingue diffusesi nel continente Europeo ed Asiatico in un periodo compreso fra il 2500 a.C. ed il 1200 a.C. Se parlare di lingue indoeuropee (fatte salve alcune critiche isolate) è un fatto assolutamente accettato dalla larga maggioranza dei ricercatori, ammettere che ad una lingua indoeuropea si sia associata una cultura, e soprattutto popoli chiaramente definibili come indoeuropei rappresenta comprensibilmente una tematica tuttora assai spinosa. La scoperta dell’indoeuropeo, inteso come gruppo linguistico da cui molte lingue moderne sarebbero in ultima analisi discese, risale infatti all’epoca romantica (Franz Bopp), in cui l’assioma lingua = popolo era considerato pressoché inattaccabile e la riscoperta dei valori originari del proprio popolo un dovere quasi ineluttabile della ricerca culturale. E quale antichità più remota – e quindi più “nobile” di quella delle più precoci origini? Origini che, per altro, stando alla ricostruzione di Bopp (che per altro noi stessi moderni accettiamo) vedrebbero una sola lingua comune all’origine del Latino, del Greco, di tutte le lingue germaniche, del Persiano, e persino dell’antichissima lingua delle più grandi civiltà indiane – il Sanscrito.
Da qui l’identificazione fra gli indoeuropei ed i cosiddetti popoli megalitici. Identificazione che solo fatti relativamente recenti hanno rimosso: prima di tutto, l’applicazione delle metodiche di datazione (ad esempio, la datazione al radiocarbonio) che permesso di scoprire che le opere attribuite ai “megalitici” fossero in realtà del tutto eterogee dal punto di vista cronologico – comprendendo costruzioni risalenti ad un passato effettivamente remotissimo (fino a 6,000 anni prima di Cristo), ma anche molto più recenti (epoca romana), non essendo quindi omolagabili in quando espressione di una sola civiltà. Secondariamente, proprio la datazione al radiocarbonio (primo apporto della moderna ricerca scientifica a discipline storicamente “letterarie” quali l’archeologia e la storiografia) ha permesso di scoprire che la popolazione dell’Europa da parte delle civiltà responsabili delle opere “megalitiche” sarebbe avvenuta per una serie di ondate diverse, accomunate da un solo carattere: provenire dall’oriente, e di cui l’ondata migratoria indoeuropea sarebbe stata solo l’ultima, in ordine cronologico.
Certamente l’Europa è caratterizzata da siti archeologici molto antichi: sulle rive del Danubio, fra il 7,000 ed il 4,800 a.C. fiorì l’insediamento preistorico di Lepenski Vir, già caratterizzata da un notevole sviluppo culturale (testimoniato dal culto dei morti, espressione di viva attività religiosa), tecnico (come sottolineato dalla strumentazione agricola e progettata per la pesca), sociale (i reperti storici suggeriscono che l’insediamento fosse caratterizzato da un minuto sviluppo sociale) e persino artistico. Considerando l’area anatolica come ultima propaggine orientale dell’Europa, proprio in quest’area si trova la più antica città conosciuta al mondo – il cosiddetto insediamento di Catalhöyük, che all’apice della propria fioritura (fra 6,000 e 8,000) fu popolata da quasi 10000 persone risiedenti in una intricata struttura residenziale in muratura a forma di alveare, arricchita da rappresentazioni pittoriche ed aree cultuali con caratteri di veri e propri templi. Persino nelle estreme propaggini del nord Europa – nelle isole Orcadi, è possibile trovare insediamenti di sorprendente complessità, come quello di Skara Brae, popolato dal 3,100 al 2,500 a.C.
In ogni caso, come emergente da questo rapido excursus e dalla verifica delle date proposte (dal IX millennio di Catalhöyük si passa al IV millennio di Skara Brae) se di diffusione culturale si può parlare attraverso il territorio europeo nel corso della preistoria del continente, questa avvenne sempre, ed invariabilmente, con una sola direzione: da Oriente (cioè dall’Asia e dall’Africa) verso Occidente. Mai il contrario ipotizzato dagli storici inglesi e tedeschi del tardo 1800/primo 1900. Persino la migrazione indoeuropea ebbe origine dall’Asia, e non dall’Europa – che invece fu, al pari dell’India, il sito terminale di una parte di questo evento.
Ciò detto, possiamo ribadire che le modalità di colonizzazione dell’Europa, e soprattutto le vicende che determinarono la conformazione etnografica del continente rimangono confuse, difficilmente districabili dalle più comuni metodiche di indagine archeologica e storiografica prese per se– ovvero, la ricerca sul campo e l’indagine di documentazione, primaria (i.e. documenti coevi del periodo oggetto dell’indagine) o secondaria (e.g. rapporti di storici antichi), di cui l’applicazione delle citate tecniche di datazione rappresenta solo la più moderna estensione.
La ricerca sul campo è infatti compromessa dalla forte antropizzazione del continente europeo e dalla sua peculiare storia di civiltà urbane: quasi tutti i siti preistorici si sono infatti trasformati in insediamenti di varia natura (etruschi, celtici, germanici, e così via), quindi convertite in città romane che, in qualche modo sopravvissute alle alterne vicende del medioevo, sono quindi le nostre città moderne. Per restare alla sola Emilia Romagna: la moderna Bologna è il risultato della trasformazione degli insediamenti villanoviani nell’etrusca Felsinea, quindi conquistata dai Celti e da questi ridisegnata a proprio uso e consumo fino alla conquista romana ed alla nascita di Bonomia, precursore della Bologna medievale (basta passeggiare per il centro storico per scoprire, innestate ed integrate nei palazzi due-trecenteschi colonne di chiara origine romana) e quindi della città rinascimentale, e così via, fino ai giorni nostri. Indagare (ovvero: scavare) in questo contesto è chiaramente difficile, se non impossibile: non è un caso che alcune delle più sorprendenti scoperte archeologiche recenti siano state casuali, e legate ai lavori per opere urbane di tutt’altra destinazione (emblematico il ritrovamento degli archivi micenei di Tebe durante gli scavi per la circonvallazione cittadina). Per quanto riguarda l’aspetto documentario, la risposta è ancora più semplice ed in qualche modo deprimente: la documentazione che a noi interesserebbe avere non esiste. Come detto, l’Europa iniziò a “scrivere” (e soprattutto: a scrivere di ciò che noi potremmo chiamare storia, o comunque impiegare per ricostruire la storia) solo in tempi sorprendentemente recenti. Ovverosia, non prima del VI secolo a.C., ed anche in questo caso gli acconti storici presentano ampi varchi. Chi dell’Europa poteva scrivere (riprendiamo l’esempio degli Ittiti) semplicemente non aveva motivo per farlo.
Per meglio capire cosa si intenda, basterà una banale riflessione terminologica. Premesso che il termine Europa sia di etimologia tutt’altro che certa, l’interpretazione più moderna lo vede come derivato di una radice semitica (per l’esattezza, accadica): “erebu”, ovvero “tramonto / terra del tramonto” (i.e. “occidente”) da cui il termine omerico “Erebo”. Nel mondo di Omero, l’Erebo (che geograficamente corrisponderebbe al moderno Portogallo) è la terra dei morti. Un luogo in cui i vivi non possono accedere se non in particolarissime condizioni. Avvicinandoci alla nostra specifica realtà, ricordiamo come il più antico nome di Italia (che a sua volta deriverebbe dall’osco Viteliù, ovvero “terra dei vitelli”) sarebbe Esperia (“terra della sera”) – ugualmente associato ad un mondo fantastico. In altre parole: l’Occidente rappresentò a lungo e fino a tempi relativamente prossimi un vero e proprio enigma. Una frontiera nella quale confinare mostri (da Gerione a Scilla e Cariddi) o l’accesso al mondo sotterraneo, ovvero popolata da genti primitivi che, per usare i termini omerici, non sanno distinguere un remo da falce, o sottoposte a misteriose ed incomprensibili divinità – i cosiddetti Iperborei (coloro che vivono sopra il soffiare di Borea, uno dei 4 venti antichi).
Per cercare di superare la barriera rappresentata dalla carenza di fonti storiche dirette, la moderna ricerca può tuttavia avvalersi di strumenti di pari validità scientifica, quali l’indagine linguistica e mitografica e, aspetto subentrato solo nel corso degli ultimi 20 anni, le più avanzate pratiche laboratoristiche – fra le quali, la ricerca genetica.
L’uso dei miti antichi come fonte informativa è in realtà una procedura molto antica: anticamente – quantomeno, fino agli albori della civiltà giudaico cristiana, e quindi per larghi tratti del medioevo, eventi propri del mito erano considerati come storici. Nessun ateniese di età classica avrebbe mai dubitato della realtà storica dei personaggi omerici: non lo fa Tucidide,
ad esempio, che nel “prologo” alla Guerra del Peloponneso parte proprio da fatti narrati nell’Iliade e nell’Odissea e critica l’operato di Menelao ed Agamennone come avrebbe fatto con un generale del suo tempo. Ovviamente, il nostro approccio ai racconti mitici e leggendari non è più quello di una diretta ed acritica accettazione: complice la moderna scuola interpretativa, incarnata ad esempio da Dumezil ed Eliade, l’attenzione della ricerca è ora rivolto – più ancora che al mito in se, al confronto, ovverosia alla comparazione con altri repertori mitici, ed all’analisi della sua forma. Scopo di questo confronto è di riconoscere affinità, strutturali o tematiche, e/o le eventuali divergenze. Questi dati, interlacciati con le informazioni provenienti dalle più convenzionali metodiche di indagine, permettono di ricostruire un’immagine più complessa ed articolata – non priva, tuttavia, di numerosi e critici caveat.
Un esempio piuttosto semplice delle conseguenze di questa modalità di approccio alla tematica storica ci viene offerto dall’analisi del mito della creazione greco, narrato da Esiodo. Esso ci narra di tre generazioni divine, in cui da entità confuse e dai caratteri del tutto animistici (Urano, il cielo e Gea, la madre terra) si passa quindi a divinità sempre più antropomorfe (Crono e Rea), fino a diventare in un certo senso “più umane degli stessi uomini” (Zeus e Hera), in cui il passaggio da una generazione all’altra è segnata da conflitti e faide del tutto simili a quelle che un antico greco poteva riconoscere fra le grandi famiglie nobiliari del suo tempo. Sulla base della successione di tre generazioni divine, è stato ipotizzato che anche la Grecia antica avesse conosciuto tre colonizzazioni successive: un modello apparentemente appropriato in cui, da divinità molto primitive legate a fenomeni atmosferici (la prima generazione divina), attribuite alla primitiva popolazione ellenica – i cosiddetti pelasgi, termine già impiegato da Tucidide e Plutarco, si sarebbe passati al panteon classico a seguito delle progressive invasioni di popoli (e quindi di cultura: e quindi di dèi) indoeuropei sempre meglio delineati. Zeus, inteso come Dio del Fulmine e leader della compagine divina è infatti una “vecchia conoscenza” per chi si dedica alla mitologia comparata, e del resto già gli antichi (da Erodoto a Tucidide, passando per Cesare e Tacito) procedevano ad una pressoché automatica identificazione di tale divinità con i vari Odino/Wotan (il dio supremo germanico), Indra (il dio delle tempeste indiano), e così via. In realtà, la realtà archeologica ha dimostrato inequivocabilmente che gli dèi venerati in epoca micenea, quindi prima dell’ultima grande migrazione in area ellenica (quella dei Dori), già fossero quelli a noi meglio noti tramite i racconti omerici ed esiodei, demolendo quindi questa parte dell’ipotesi iniziale.
D’altra parte, l’avanzamento della ricerca linguistica e proprio la comparazione mitologica hanno suggerito che le suddette generazioni divine siano associate ad una dinamica culturale assai più complessa. La deificazione di Cielo e Terra è un fenomeno diffuso in culture molto diverse, e del tutto prive di contatti e relazione: la loro presenza nel mito delle generazioni divine è probabilmente spia, piuttosto che di uno strato culturale pre-esistente l’arrivo dei greci storici nell’area ellenica, di uno strato culturale preistorico di questi ultimi. E’ invece il secondo strato, quello della generazione di Crono e Rea, a rappresentare un possibile lascito delle popolazioni pre-elleniche e della loro cultura. Prima di tutto, la funzione narrativa esercitata da Crono non è reperibile in analoghi miti della creazione, o comunque non con le caratteristiche proprie del mito greco. La ricerca linguistica ha dimostrato che il nome Crono sia di origine pre- ellenica, derivando da un radicale comune al termine “falce”, ed in particolare “falce di luna”. Crono, che nella tradizione romana viene identificata con la divinità delle messi (Saturno) sarebbe dunque un’antica divinità implicata sia con i raccolti che con i cicli stagionali, esattamente come la divinità latina (per di più corradicalica) Cerere. Poiché i reperti archeologici ed un controverso passo di Erodoto suggeriscono che il culto
delle popolazioni greche più antiche fosse associato a divinità del mondo sotterraneo e dei raccolti (Crono è anche custode del Tartaro, il mondo sotterraneo, prima che il figlio Hades lo rimpiazzi alla fine dell’ultima ribellione divina), è quindi Crono la divinità più propriamente indicata. Esiste inoltre buona evidenza che divinità mediterranee del raccolto e delle messi (come il semitico El) siano strettamente correlate a tale figura.
È a questo punto che entra in gioco la moderna ricerca laboratoristica, ed in particolare l’indagine genetica. Se alla comparsa di una determinata cultura (e quindi di una determinata lingua, dei miti fondatori, di una religione, e così via) si associa infatti il movimento fisico di esseri umani, questo si associa alla comparsa od alla scomparsa del relativo patrimonio genetico.
La ricerca scientifica ha sfruttato varie possibili modalità di indagine genetica rispetto alle popolazioni umane. Le più classiche strategie hanno riguardato la determinazione delle frequenza dei gruppi sanguigni umani, così come del fenotipo Rh-. L’epocale ricerca di Cavalli Sforza ha, per esempio, sottolineato come particolari popolazioni europee siano caratterizzate una prevalenza estremamente elevata del suddetto fenotipo. Poiché questo appare più frequente in area mediterranea, ed in regioni storicamente caratterizzate da culture sostanzialmente slegate dalla “koiné mediterranea” tanto cara alla cultura classica – come l’area pirenaica ed i paesi baschi, l’area anatolica e, in misura minore, la Toscana, esso è stato considerato un classico marcatore dei popoli europei più antichi. In realtà, i gruppi sanguigni rappresentano solo una, e forse la più rozza, delle strategie di indagine applicabili e che possono riguardare la ricerca di specifiche mutazioni di determinati geni, la cui particolare prevalenza in una data popolazione può essere considerata conseguenza del più classico effetto fondatore. Un esempio molto noto è quello di HFE, il gene implicato in una specifica variante dell’emocromatosi idiopatica: la mutazione, originata in epoca storica in area scandinava, ha quindi seguito le migrazioni del clan ancestrale, diffondendosi nell’Inghilterra Orientale ed in Scozia, in Francia settentrionale, ed in alcune zone dell’Italia meridionale. Un altro esempio è quello della cosiddetto sickle cell disease (anemia a cellule falciformi): una mutazione di singolo nucleotide determina in tale patologia la formazione di emazie deformi (da cui il nome), che però in condizione di eterozigosi garantiscono un vantaggio selettivo nei confronti dell’infestazione da P falciparum, l’agente eziologico della malaria. Per quanto essa sia comparsa in varie popolazioni, in tempi ed in modi diversi, nell’area mediterranea essa raggiunge i massimi livelli di prevalenza in aree oggetto della colonizzazione fenicia a partire dal XII secolo a.C. - quindi Africa settentrionale, Italia meridionale ed insulare. Anche mutazioni assai più frequenti a livello di popolazione si sono rivelate marcatori di antichi eventi migratori: è il caso della celebre mutazione DF508 del gene dei canali del sodio, riscontrato in corso di fibrosi cistica. Il gene mutato è presente in condizione di eterozigosi con prevalenza media di 1/50 nella popolazione europea (da cui la prevalenza di 1/2500), di cui è del tutto esclusivo. In altre parole, il gene della fibrosi cistica può essere considerato un marcatore delle migrazioni dei più antichi popoli europei, ed in particolare proprio della migrazione indoeuropea.
Tornando all’esempio dell’antico mondo ellenico, ricerche condotte sul fenotipo HLA hanno rilevato come la moderna popolazione greca sia il risultato della progressiva stratificazione di pool genetici: in molti casi, essi sono stati agevolmente identificati in base ai dati storici (è il caso di geni associati a popolazioni turche), ma un’ampia base genetica, comune con popolazioni dell’area mediterranea, può essere spiegata come lascito delle più remote popolazioni agricole dell’area ellenica, sulle quali le successive migrazioni indoeuropee sarebbero andate a sovrapporsi.
Questa vicenda di sovrapposizioni, suggerita dai reperti archeologici è dunque confermata dalla ricerca genetica, che tuttavia non è in grado di determinare con certezza il periodo storico in cui l’evento avrebbe avuto luogo – il che rende dunque essenziale il costante incrocio delle diverse fonti informative. Sebbene sia stato osservato che tali frequenze geniche proprie dell’area ellenica potrebbero trovare una spiegazione in eventi storici medievali (le invasioni araba, slava, avara e turca), è pur vero che la ricerca linguistica ha chiaramente dimostrato che in quasi la metà del vocabolario di base del greco antico non sia effettivamente ricostruibile una radice indoeuropea. Questo può essere solo parzialmente spiegato nell’ambito di potenziali prestiti linguistici, in particolare con l’area del vicino oriente. Ancora una volta, l’archeologia ci dice che, quantomeno fino alla nascita delle grandi potenze imperiali assira e persiana, la Grecia continentale guardasse più ad oriente che ad occidente – e con gli scambi culturali arrivano stilemi artistici, e soprattutto terminologie e nuove parole che vanno ad arricchire il vocabolario di un popolo, affiancandosi o sostituendo termini preesistenti.
La ricerca linguistica, condotta sui più antichi testi greci a nostra disposizione, dimostra che buona parte di queste parole siano state importate nel vocabolario comune del mondo greco assai prima che questi scambi si installassero in modo stabile. Da rilevare che questo vocabolario presenta particolarità specifiche a livello di significato e di significante (ovvero di aspetto fonetico): quasi tutti i nomi della flora e della fauna propria dell’area mediterranea presentano fatti e fenomeni linguistici che possono essere spiegati solo come esito di importazione da un sostrato linguistico preesistente, con caratteristiche fonetiche, per altro, del tutto diverse dal mondo semitico ed anatolico. Un sostrato, per di più, comune a buona parte delle culture di derivazione più o meno diretta dal mondo indoeuropeo ed installatesi nell’area mediterranea. L’esempio più celebre è rappresentato dal termine “rodon”, “rosa” in latino in cui si rileva una particolare alternanza consonantica fra s/d, analoga a quella riscontrabile nel nome dell’eroe omerico meno “indoeuropeo” che si possa immaginare – Ulisse (Odusseus/Ulixes) o nel termine per “lacrima” (dacruma/lacruma). Una regola molto semplice della linguistica, teorizzata da DeSaussurre nel corso del secolo scorso, è che suoni “instabili” (l’instabilità è determinata dalla necessità di articolare in modo particolarmente complesso l’azione degli organi fonatori) evolvano per semplificazione verso suoni più “stabili” (e quindi più semplici da articolare). In altre parole, per giustificare questa particolare alternanza fonetica, è stato ipotizzato che quel pool terminologico deriverebbe da una o più lingue (oggi perdute) caratterizzate da suoni complessi, estranei alla fonetica indoeuropea, ed acquisiti dalle lingue indoeuropee a prezzo di semplificazione dei suoni complessi, con modalità diverse da una lingua all’altra.
A questo strato remotissimo è stato dato il nome di “mediterraneo” o “pelasgico” (sempre dal nome delle più antiche popolazioni che, stando agli antichi greci, avrebbero popolato l’area mediterranea). Chi fossero queste popolazioni è tutt’altro che chiaro. Ancora una volta, l’indagine genetica suggerisce che si tratterebbe di popoli emigrati dal continente africano – o forse dall’area asiatica, al termine dell’ultima glaciazione e che avrebbero uniformemente popolato l’area europea fino all’arrivo delle popolazioni indoeuropee. Questa ricostruzione viene confermata dall’indagine sui geni del grano e dei principali cereali coltivati in area europea, sia in epoca storica, che contemporanea, che rinvenuti in reperti archeologici. Ancora una volta, la ricerca genetica conferma le ipotesi archeologiche e ribadisce come il flusso informativo – e probabilmente etnico, sia sempre stato verso l’Europa, piuttosto che dall’Europa, proveniente dall’Africa settentrionale e dall’Asia occidentale.
Secondo l’interpretazione classica, i popoli indoeuropei avrebbero esercitato un’inarrestabile forza d’impatto grazie alla
particolare struttura sociale, in cui un sistema di caste (quello indiano di epoca storica sarebbe derivato proprio dall’originaria stratificazione indoeuropea) sosteneva l’esistenza di un classe di guerrieri professionali, cui la disponibilità di armi “hi-tech” (per gli standard preistorici) quali il cavallo, il carro e l’arco da guerra, avrebbero dato un vantaggio sostanzialmente non pareggiabile né dal numero né dalla conoscenza del territorio delle popolazioni stanziali.
La migrazione indoeuropea sarebbe iniziata nel corso del III millennio a.C., originando dall’area del mar Caspio. A suggerire tale areale di origine sono vari fatti, ancora una volta archeologici, mitografici, linguistici e genetici.
Per prima cosa, i dati archeologici dimostrano che a partire dal III millennio a.C. determinate tipologie sepolcrali originarie dell’area suddetta, con presenza di specifiche armi (come appunto l’arco) si diffondono per cerchi concentrici verso oriente e verso occidente. Non va comunque dimenticato che la migrazione della cultura non sia necessariamente associata alla migrazione dei popoli, e che l’adesione ad una cultura non significa necessariamente una sostituzione etnografica (ad esempio: le popolazioni ungheresi sono affini a quelle germaniche e slave, ma parlano una lingua del tutto dissociata da quelle circumvicine; la Persia moderna manifesta una radicale islamizzazione della propria cultura, ma questo non ha significato né l’adozione dell’arabo come lingua né tantomeno la sostituzione dell’etnia persiana) senza contare che non si ha la certezza che questi popoli siano effettivamente identificabili negli indoeuropei.
L’estrema antichità di questa migrazione ha ovviamente impedito la conservazione di reperti storiografici (diversamente dalle migrazioni dei popoli medievali – le invasioni barbariche dei libri di scuola), ma che eventi drammatici abbiano colpito l’Europa preistorica, con un confronto fra popoli nomadi provenienti dall’Asia e popolazioni agricole residenti è suggerito da alcuni reperti archeologici e confermato da una vasta base mitografica.
L’Edda di Snorri (testo redatto nel medioevo, ma contenente accurata descrizione di miti risalenti all’epoca preistorica) ci racconta che gli Asi, divinità provenienti dall’Asia (sic), nelle quali sono facilmente riconoscibili omologi delle divinità olimpiche (ovvero: il panteon di base del mondo indoeuropeo), avrebbero avuto un aspro e sanguinoso conflitto con i primitivi signori del mondo, i Wani (termine corradicalico di Venere), esseri ugualmente divini strettamente associati con la sfera delle fertilità e con i cicli dei campi coltivati e della natura. Non casualmente, i due Wani più importanti sono Freyr e Freya, divinità associate alla sfera sessuale e germinativa (vedasi il latino fruor), ed a tutto l’ambito della magia. Sempre stando al mito nordico, Odino avrebbe acquisito potere dai e sui Wani nel corso della propria ascesa al sommo potere fra gli dèi, probabilmente trasmettendo il ricordo di una prima fase di incontro-scontro con le popolazioni pre-esistenti, e delle prime fasi della fusione dei popoli più antichi e di quelli immigrati (non a caso, la sposa di Odino è Frigg, ugualmente derivante dalla radice di fruor, o addirittura Freya secondo altre versioni).
Cosa abbia determinato l’originaria migrazione indoeuropea è tutt’altro che chiaro. Esiste un resoconto storico di Ammiano Marcellino, quindi di età relativamente recente (IV secolo d.C.), secondo il quale a scatenare le più antiche migrazioni di Celti e Germani sarebbe stata una disastrosa inondazione, il cui ricordo era conservato dalle relative caste sacerdotali.
Poiché il T0 della migrazione indoeuropea corrisponde in modo sorprendente con la forbice temporale per le grandi inondazioni di cui i miti del diluvio mesopotamici (dal diluvio di Utnapishtim a quello biblico) conservano il ricordo, è stato ipotizzato che la scintilla della migrazione indoeuropea possano essere stati sconvolgimenti climatici nell’area compresa fra Mar Nero, Mar Caspio e Mesopotamia settentrionale.
A confermare ulteriormente questa ricostruzione è nuovamente una fonte letteraria, indipendente dal mito del diluvio, avvalorata da dati genetici.
Nel racconto del Ragnarok, la cosiddetta “apocalisse nordica” (o “crepuscolo degli dèi”), pervenutaci in una redazione islandese del X secolo d.C., viene descritto come le divinità sopravvissute alla “resa dei conti” fra le diverse forze della natura e destinate ad aprire un nuovo ciclo temporale, entreranno in possesso delle “tavole del destino”. Un passo piuttosto enigmatico, giacché i suddetti “oggetti” non sono reperibili in nessun altro mito nordico conosciuto. E che trova l’unica, sorprendente, analogia, con la conclusione dell’Enuma Elish, un testo sumero del IV millennio a.C., in cui una guerra fra diverse generazioni di dei – culminante a sua volta in una vera e propria apocalisse, è proprio incentrata sul possesso delle suddette “tavole del destino”. Analogia ancor più sorprendente quando si pensi che i primi versi dell’Enuna Elish (“quando in alto il cielo non c’era...”) echeggiano in modo assai sospetto i primi versi del mito della creazione norreno (“in principio il cielo non c’era...”), sebbene a separare questi versi sia un vero e proprio abisso geografico, culturale e cronologico (quasi quattromila anni).
Certamente, questi riscontri potrebbero essere solo analogie casuali (il risultato, per così dire, di un’evoluzione parallela), ma come si diceva alcuni dati genetici ci portano ad ipotizzare non soltanto che la migrazione indoeuropea abbia avuto inizio nel 2500 a.C. - e quindi nella fascia cronologica sospetta, ma anche con l’epicentro di cui sopra, nelle aree geografiche di cui sopra, interessando nelle sue aree di origine anche l’area nord- mesopotamica. Pertanto, i reperti citati potrebbero essere un vero e proprio “fossile” letterario, determinato dal particolare ambito di riferimento (quello religioso).
La delezione del recettore per le chemochine CCR5 (CCR5- delta 32) è infatti un carattere genetico ampiamente diffuso nelle popolazioni europee, distribuendosi sui due versanti del mar Caspio con andamento sovrapponibile a quello delle due principali branche delle lingue indoeuropee (gruppo occidentale o centum e gruppo orientale o satem, così detti dalla diversa pronuncia del numero 100, a sua volta determinata dal diverso trattamento fonetico del radicale più primitivo), dei gruppi sanguigni, degli ambiti culturali considerati indoeuropei. La suddetta mutazione offre una certa resistenza costitutiva per i suoi portatori nei confronti di alcune infezioni virali, come HIV, e garantirebbe resistenza anche nei confronti di Y pestis, l’agente eziologico della peste bubbonica. I primi studi sull’argomento avevano ipotizzato che CCR5-delta 32 fosse il risultato di una selezione darwiniana subentrata all’epoca della Peste Nera del 1348.
In realtà, la presenza del gene in aree sostanzialmente trascurate dall’epidemia (e quindi non oggetto della suddetta selezione) e piuttosto caratterizzate da un profondo isolamento geografico sin dall’epoca pre-romana (e.g. le isole della Dalmazia), ovvero in aree del tutto ignorate dall’epidemia del 1348 (l’area caucasica e centrasiatica) ha suggerito che la diffusione di tale carattere genetico sia estremamente più remota. Poiché Y pestis è emerso come patogeno in epoca storica, e poiché la forbice ipotizzata vede il fatidico 2500 a.C. dell’originaria radiazione indoeuropea come perno centrale, è ugualmente possibile che la migrazione sia stata avvantaggiata da una maggiore resistenza delle popolazioni migranti nei confronti di questo specifico patogeno – o di patogeni simili, attualmente ignoti ed ugualmente impieganti il CCR5 come recettore di adesione.
I semplici esempi qui proposti dimostrano che le indagini genetiche siano quindi diventate un essenziale strumento di ricerca storiografica, affiancandosi a metodiche più tradizionali, che vanno ad integrare e completare. Con risultati talora sorprendenti. Un caso molto particolare è rappresentato dal secolare problema dell’origine degli etruschi. I cosiddetti Tirreni, o Rasna (nome che essi stessi si davano, a quanto ne sappiamo), fiorirono nella penisola italica nel corso del I millennio a.C., dando vita ad una civiltà del tutto particolare, che ha esercitato estremo fascino sui popoli del mondo antico, e sui moderni. In ragione della capillare diffusione di stilemi artistici di area orientale piuttosto che greca, scrittori antichi ipotizzarono che i Tirreni fossero il risultato di una migrazione preistorica proveniente dall’Anatolia. Questo, quantomeno, il resoconto storico di Erodoto: stando al celebre storico ateniese, l’élite di alcune popolazioni della Lidia (una regione dell’Anatolia meridionale) sarebbe stata spinta all’emigrazione da anni di gravissima carestia, giungendo infine alle coste dell’Italia e lì installandosi, e quindi fondendosi con le popolazioni italiche originarie.
L’evento sarebbe successo tra il XIV ed il XII secolo a.C. - un periodo anche in questo caso molto sospetto, in quanto corrispondente al tracollo della civiltà minoica ed al tracollo delle strutture statuali egizie del tempo. Non abbiamo ovviamente prove che tali eventi siano simultanei ma, poiché si ha buona evidenza che a provocare almeno la fine della potenza minoica sia stata l’esplosione dell’isola di Santorini, con il conseguente tsunami ad investire le coste di tutto il mediterraneo orientale, ipotizzare che effettivamente aree anatoliche siano state ugualmente investite e duramente colpite non è affatto improbabile.
L’archeologia, da cui la sostanziale ribellione di Sabatino Moscati e Massimo Pallottino a quest’interpretazione degli Etruschi come popolo dell’Oriente, non rivela in realtà una radicale cesura fra le civiltà centro-italiche del tempo (ed in particolare, la cosiddetta “cultura villanoviana”) e le prime fasi della cultura cittadina etrusca. Anche i caratteri fortemente orientalizzanti della società etrusca possono essere interpretati nell’ambito della già citata koiné mediterranea: l’analoga orientalizzazione del mondo ellenico coevo ci sfugge solo a causa della sistematica azione distruttiva esercitata dall’età classica ed ellenistica sulle grandi opere urbane e cittadine del mondo greco delle origini, e che invece traspare immediatamente una volta esaminati i reperti del tempo fino a noi sopravvissuti (spesso proprio tramite i monumenti sepolcrali etruschi).
Anche per quanto riguarda gli aspetti più misteriosi della civiltà etrusca – ovverosia la lingua e la religione, non è necessario chiamare in causa un’emigrazione dall’oriente. La lingua etrusca non rappresenta, di per sé, un mistero inestricabile. Semplicemente, ci mancano i testi. Benché il mondo etrusco abbia prodotto una grande mole di prodotti letterari – così di raccontano gli antichi, ed in prima persona nientemeno l’Imperatore Claudio, autore di una Storia Etrusca purtroppo perduta – essi non sono sopravvissuti al II secolo d.C. ed alla sistematica romanizzazione dei popoli dell’area toscana. I nostri tentativi di approcciarci alla lingua estrusca sono limitati dal fatto che i documenti a nostra disposizione sono niente di più che qualche lapide tombale, incisioni su oggetti (vedasi il fegato di Piacenza) e qualche documento di valore legale. L’analisi linguistica ha rivelato come l’Etrusco sia una lingua a carattere agglutinante, come le lingue ungro finniche (ovverosia l’ungherese ed il finlandese, ma anche come il turco, e come molte lingue asiatiche ovviamente non connesse all’evoluzione della società etrusca): è stato ipotizzato che esso sia strettamente imparentato con il basco, il che renderebbe queste due realtà espressione di una civiltà pre-indoeuropea (diciamo pure “mediterranea”) giunta, ad una piena maturazione. Chi sostiene questa ipotesi, sottolinea che gli Etruschi praticassero una religione in cui divinità del mondo sotterraneo rivestissero
un ruolo primario, in sostanziale analogia a quelle popolazioni pre-elleniche di cui Erodoto aveva potuto studiare la lingue e le usanze perché isolate sulle più remote montagne greche. Su quest’ultimo punto va tuttavia sottolineato come le divinità etrusche, piuttosto che ctonie, fossero celesti (in analogia al panteon indoeuropeo), quantomeno nelle prime e più remote fasi, acquisendo caratteri ctoni solo in una seconda e più recente frase.
D’altro canto, tali argomentazioni, anche pienamente accolte, non bastano ad escludere l’ipotesi erodotica. Per prima cosa, popoli dell’Asia minore emigrati in occidente avrebbero potuto importare una cultura mediterranea affine a quella riscontrabile nel territorio di arrivo – evento tanto più probabile se si accetta una certa uniformità delle popolazione e delle culture mediterranee alla vigilia della radiazione indoeuropea (ancora in corso all’epoca della supposta migrazione in occidente delle popolazioni anatoliche). Ed il loro impatto non sarebbe stato necessariamente quello di un’esplosione o di una rivoluzione – ma piuttosto un effetto simile al lievito: l’importazione di tecnologie avanzate provenienti dal più civilizzato oriente, e di nuovi animali avrebbe piuttosto consentito l’accelerazione dell’evoluzione sociale.
Ad avvalorare questa possibilità, la celebre “stele di Lemno”, incisa con caratteri alfabetici molto primitivi, ma molto simili a quelli usati in epoca storica dai popoli etruschi, ed espressione dell’unica lingua a noi nota effettivamente imparentata con l’etrusco. Poiché la posizione della stele sarebbe proprio sulla strada seguita da eventuali emigranti diretti dall’Asia minore all’Occidente, l’idea che essa sia il lascito di questa migrazione è molto suggestiva – sebbene controversa.
In questa situazione confusa, i dati genetici hanno dato una svolta sostanzialmente inaspettata. Per prima cosa, le ricerche di Cavalli Sforza sul DNA mitocondriale hanno sottolineato come la popolazione toscana sia, all’atto pratico, geneticamente più affine ad isolati anatolici (ovvero: a popolazioni che, risiedendo in aree geograficamente delimitate, sarebbero sopravvissute alla robusta iniezione di caratteri genetici nel corso delle travagliate vicende della penisola anatolica) che alle circumvicine popolazioni europee, e non solo.
La ricerca veterinaria ha recentemente dimostrato che alcuni animali da allevamento considerati tipici dell’area toscana (in particolare i buoi di razza chianina) siano direttamente discendenti di un antenato di origine anatolica, ed in questo senso del tutto distinte dalle altre specie bovine allevate in Europa occidentale. Poiché si ha buona evidenza che la razza chianina sia allevata sin dall’epoca Romana, non si può escludere che proprio questi animali siano una prova dell’antica narrazione di Erodoto.
Nelle immagini: una serie di affreschi minoici.