Riforma senato renzi: cosa cambia in 4 punti fondamentali

Creato il 10 aprile 2014 da Postpopuli @PostPopuli

di Matteo Boldrini

La riforma del Senato proposta dal Governo Renzi rappresenta senza dubbio un’ottima iniziativa per il nostro Paese, anche solo per il tentativo di andare a modificare lo stato di cose presente, non più oggettivamente sostenibile a causa dello scarso rendimento legislativo e politico che lo caratterizza.

Tuttavia bisogna stare attenti quando si trattano argomenti di questo tipo: completezza ed esaustività consentono un minore lavoro interpretativo a posteriori, tuttavia anche semplicità, brevità e chiarezza sono virtù importanti da far conciliare con le altre quando si parla di riforme costituzionali. Senza entrare nel merito di quanto sia giusto o meno modificare la costituzione rafforzando i poteri del Primo Ministro e riducendo quelli del Senato, ma valutando fattivamente la proposta di Renzi, essa è certo una proposta valida, anche se è innegabile che vi siano numerosi punti da rivedere.

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La proposta si articola sostanzialmente su quattro punti fondamentali: riduzione delle competenze, composizione territoriale, non elettività, non onerosità.

Relativamente alla questione della riduzione delle competenze, se resa effettiva essa porterebbe alla creazione di un Senato privato del voto di fiducia verso il governo, e con competenze non più a carattere generale ma tassativamente previste dalla Costituzione. Il nuovo Senato avrebbe voce in capitolo soltanto in materia costituzionale o regionale, per la ratifica di trattati internazionali o per la predisposizione di particolari commissioni d’inchiesta. Da questo punto di vista, si tratta di una serie di poteri ragionevoli, su cui tuttavia è possibile intervenire anche in corso d’opera e su cui dovrà poi dire la sua il Parlamento; l’importante tuttavia, è che non venga toccato il nucleo centrale del punto, ossia l’assenza di un rapporto fiduciario con il Governo e la prevalenza della Camera nel processo legislativo, attuabile attraverso una differenziazione delle competenze o attribuendo una prevalenza al voto della Camera bassa.

Sulla composizione territoriale invece c’è più da discutere. Il nuovo Senato sarebbe formato dai Presidenti di Regione, da un nucleo di Sindaci eletti tra quelli dei comuni capoluogo e da una ventina di membri nominati dal Presidente della Repubblica. Tralasciando i membri nominati, istituzione un po’ vetusta che può essere conservata, è sugli altri membri che c’è più da discutere. Ai Presidenti di Regione si andrebbero ad aggiungere sindaci espressione delle autonomie locali, ma non è ben chiaro come essi debbano essere nominati e come saranno sostituiti. Se nominati da un’assemblea di sindaci degli enti locali infatti, essi andrebbero sostituiti ad ogni tornata di comunali (che si tengono praticamente ogni anno) con il risultato che vi sarebbe un’assemblea di sindaci praticamente permanente; invece, se una volta nominati restassero in carica fino alla fine del mandato da Senatori, vi sarebbe una violazione del rapporto fiduciario con l’ente nel caso dovessero perdere le successive elezioni e non avessero più la rappresentanza del Comune. La cosa migliore che si potrebbe fare sarebbe quella di costituire un Senato composto da un numero variabile di delegati regionali, conservando i presidenti di regione, al fine di attenuare un po’ la disproporzionalità presente e dare maggiore rappresentatività agli enti territoriali, e integrando con i rappresentanti delle aree metropolitane.

Vi è poi la non elettività, principio fortemente legato, per ovvia motivi, al precedente; il punto ha scatenato numerosi dibattiti ed accese polemiche. Infatti si ritiene una violazione della sovranità popolare l’istituire un organo con competenze politiche così rilevanti senza che esso sia accompagnato da una vera legittimazione popolare. Si tratta tuttavia di una polemica fortemente pretestuosa: esiste già un organo capace, con rilevanti competenze politiche per quanto riguarda le riforma costituzionali ed i diritti fondamentali direttamente eletto dal cittadino, ed è la Camera dei Deputati, vero organo espressione della sovranità popolare. Il paradosso si ha al contrario creando due camere con la stessa base elettorale e gli stessi poteri, come se la volontà popolare si potesse scindere in due organismi, o, ancora peggio, creando due camere con la stessa legittimazione ma diversi poteri, vera e propria aberrazione costituzionale. Inoltre la legittimazione popolare c’è, seppure indiretta, in quanto la maggior parte dei membri risponderebbe in qualche modo all’elettorato.

Infine vi è il punto della non onerosità della nuova istituzione per le casse dello stato, punto sulla quale Renzi ha insistito notevolmente, al fine di potersi vantare di una vera attività contro i costi della politica. Tuttavia non bisogna dare a questo punto più peso di quello che si merita: se un risparmio è senza dubbio un fattore positivo, bisogna anche tenere presente che quando si parla di organi costituzionali la funzionalità spesso è migliore dell’economicità.

Per concludere si può dire che la riforma presenta ancora alcuni lati da ritoccare, sui quali, com’è giusto che sia, dovrà mettere mano il Parlamento. Certo si tratta di una riforma importante che può andare a riformare una materia antica e ormai inadeguata; tuttavia essa deve fare parte di una riforma organica e non di un piccolo tentativo di correzione improvvisato, al fine di evitare che tra pochi anni sia necessario correggere nuovamente il tiro: come si è visto, materie come quella costituzionale non sono facili da riformare.

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