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Riforma strutturale e/o strumentale del lavoro... #politicaedibattitoimbarazzanti

Creato il 18 settembre 2014 da Alessandro @AleTrasforini
Si può parlare di riforme sia in termini strutturali che in termini strumentali.
Una riforma è strutturale quando si propone di perseguire la possibilità di realizzare un cambiamento reale, anche se apparentemente discutibile o non condiviso. Una riforma è strumentale (o quantomeno impostata in maniera strumentale) quando realizza nei fatti un'accezione non troppo sbandierata dell'aggettivo stesso. Tale definizione è richiamata nel seguito dall'enciclopedia Treccani:
"[...] Detto di ciò che è concepito e attuato non per il suo scopo più immediato, ma per un secondo fine o per un interesse non dichiarato. [...]"
In altre parole, quindi, ciò che è strumentale non può essere minimamente autorizzato a realizzare un cambiamento su basi strutturali.
Il compito della politica, specialmente in un momento di crisi senza (apparente) via di uscita, dovrebbe essere quello di indirizzare un cambiamento partendo dall'analisi dei dati nella loro complessità. Non certo arrogandosi il diritto di identificare un miglioramento dello status quo mediante una riforma votata all'esclusiva semplificazione delle difficoltà esistenti.
Il compito della politica, inteso nel senso più nobile del termine (e tanto arcaico quanto impossibile, visti i tempi?), potrebbe essere quello di guidare la società verso un cambiamento votato alla comprensione delle difficoltà esistenti. La riuscita di questo intento potrebbe inaugurare una vera e propria rivoluzione culturale, senza se e senza ma. Non dovrebbe esserci obiettivo più mirabile, per una politica ancora degna di chiamarsi tale.
Condizionale d'obbligo, a maggior ragione ascoltando il dibattito sterile dei giorni attuali.
Da una parte si evocano contingenze strutturali, dall'altra emendamenti irricevibili da parte di un Governo che avrebbe (condizionale d'obbligo, il treno del cambiamento sembra già essere abbondantemente passato o da troppo tempo in ritardo) inaugurare un #cambiaverso tanto generico quanto universale.
Il dibattito è ingessato e, ancora una volta, le attenzioni di troppi politic(ant)i si concentrano su un totem: l'articolo 18, appunto.
Come se il dichiarare di risolvere e/o modificare (ancora una volta) queste poche righe contribuisse a risolvere in maniera sostanziale problemi di occupazione e di creazione di un sistema maggiormente favorevole alle politiche per il lavoro.
La missione estrema sembra essere quella di semplificare anche ciò che semplificabile non lo è, sterilizzando la riforma senza aver parvenza (o capacità?) di osservare un problema nelle sue ferme complessità.
Da cosa parte la critica (nascosta e/o malcelata) a questo vituperato articolo 18?
A prescindere dalle interpretazioni, è significativo porsi l'obiettivo di provare ad analizzare quanto questo articolo incida, nei fatti, all'interno del tessuto produttivo italiano. In altre parole, prima di autorizzare o negare una modifica (ulteriore), dovrebbe essere sempre meglio capire quanto certi cambiamenti possano influire nella società italiana. Se deve essere necessario apporre una modifica a qualcosa, è bene che la stessa sia (o ambisca ad essere) assolutamente determinante per la società stessa.
Se tale condizione non sussiste, è facile immaginare come un cambiamento possa passare dall'essere strutturale all'essere strumentale.
Richiamandosi ad un approfondimento recentemente pubblicato dal giornale La Repubblica, è possibile riportare quanto di seguito riportato:
"[...] L'articolo 18 tutela in via speciale i licenziamenti illegittimi effettuati:
  • in una sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo avente più di 15 dipendenti;
  • in una circoscrizione comunale dove il datore abbia complessivamente più di 15 dipendenti;
  • qualora il numero dei lavoratori subordinati (del datore) sia superiore a 60;
  • in base a ragioni discriminatorie (relative al sesso o alla sfera politica, sindacale, religiosa, razziale e linguistica). [...]"

Particolari condizioni sono invece applicate nel caso di imprese agricole, diverse dalle precedenti.
Sembra lecito, a questo proposito, chiedersi quanto impatto nel "reale" possano avere le righe che costituiscono l'articolo 18.
A questo proposito, è utile richiamare due differenti stime diffuse dalla Cgia di Mestre, ente da sempre attivo nella previsione e nella stima di dati su base statistica significativi a livello nazionale. Il paradosso di queste differenti stime è emblematico e, per completezza, richiamato espressamente nel seguito della trattazione:
"[...] Se le aziende “interessate” dall’articolo 18 sono solo il 3%, quasi due lavoratori su tre [...] sono tutelati da questo provvedimento. [...]
Vediamo i numeri: le aziende al di sopra dei 15 dipendenti sono solo il 3% del totale.
Infatti, su poco più di 5.250.000 imprese presenti in Italia, solo 156.500 circa hanno più di 15 addetti. 
Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, invece, il 65,5%  è “coperto” dall’articolo 18. [...] su quasi 12 milioni di operai ed impiegati presenti nel nostro Paese [...] quasi 7.800.000 lavorano alle dipendenze di imprese con più di 15 dipendenti: soglia oltre la quale si applica l’articolo 18. [...]"
Un'altra stima divulgata è riportata invece nel seguito:
"[...] Per la Cgia di Mestre, l'articolo 18 [...] riguarda il 2,4% delle aziende ed il 57,6% dei lavoratori dipendenti italiani occupati nel settore privato dell'industria e dei servizi. In termini assoluti, su poco meno di 4.426.000 imprese presenti in Italia, solo 105.500 circa hanno più di 15 addetti. Per quanto riguarda i lavoratori [...] su oltre 11,3 milioni di operai e impiegati presenti in Italia, quasi 6.507.000 lavorano alle dipendenze di aziende con più di 15 dipendenti, soglia oltre la quale si applica l'articolo 18. [...]"
In altre parole, pertanto, dovrebbe essere più importante di tutto individuare l'articolo 18 in maniera il meno semplicistica possibile: nonostante riguardi una percentuale irrisoria del tessuto aziendale italiano (nella sua componente più critica), è in grado di interessare potenzialmente una platea maggioritaria dei lavoratori italiani. Un dibattito serio dovrebbe essere costruito su questo punto, al fine di evitare irrigidimenti e prese di posizione alquanto immotivate e ridicole. A maggior ragione se si tratta di effettuare una riforma strutturale.
Qualora invece si voglia optare per una riforma strumentale, nulla pare più adatto che intestardirsi ed andare dritto per una strada tanto pericolante quanto oscura. Specialmente per le possibili implicazioni future. La complessità che si nasconde dietro all'articolo 18 è una questione che non può essere in alcun modo derubricata o banalizzata, sia in un senso che nell'altro. Esiste una società con problemi tanto complessi (quanto forse irrisolvibili) proprio perché, fino ad oggi, è stato imbarazzante e semplicistico l'approccio nel (provare a) risolverli.
Un Governo disposto al #cambiaverso dovrebbe impedire il radicalizzarsi di uno scontro tanto inutile quanto improduttivo, per una lunghissima serie di motivazioni ed argomenti.
Condizionale d'obbligo, con tutta probabilità di essere inquadrati fra i profili aperti di recente dall'attuale Presidente del Consiglio: gufi, rosiconi, professionisti della tartina, professoroni, [...].
E chi più ne ha più ne metta, le selezioni sono sempre aperte.
Il suggerimento più grande è, in fin dai conti, sempre il solito: procedere con prudenza.
Anche qui il #passodopopasso dovrebbe trasformarsi in #millegiornidipassifelpati, seguendo la politica dell'hashtag tanto cara (e comunicativa) per l'attuale Premier.
I perché che avvallano questa interpretazione sono, a rigor di logica, definibili in primo luogo sulla base della crisi socio-economica che sta attanagliando il nostro Paese. Senza sosta.
Non si può evocare un cambiamento che vada ad intercettare la presenza di squilibri nel "settore" dei diritti. Non si tratterebbe di riforma, bensì di compromesso al ribasso. Ennesimo, dati i precedenti (da ultimo funzionali alla sopravvivenza del Governo delle furono larghe intese). Quali altri voci possono essere chiamate in difesa di questa teorica etica del #millegiornidipassifelpati?
Richiamando un'opinione presentata qualche tempo fa in un articolo de Lavoce.info, scritto a quattro mani da Giuseppe Bertola e Pietro Garibaldi.
L'opinione a questo proposito è quanto mai chiara ed esplicativa dell'attuale schizofrenia che sembra tanto intasare quanto ingessare il dibattito parlamentare e governativo:
"[...] come la maggiore età è passata da 21 a 18 anni, così pure la soglia di applicazione dell’art.18 potrà [...] essere ridotta.
Ma perché tale riduzione sia appropriata è necessario che le imprese più piccole abbiano maggiore accesso ai mercati finanziari, mentre un migliore accesso dei lavoratori a strumenti finanziari potrebbe accompagnarsi ad un rilassamento delle tutele sul mercato del lavoro. Difficile dire se l’Italia sia pronta all’uno o all’altro cambiamento. Ma per modificare l’art. 18 si devono considerare onestamente sia i costi che i benefici e le prese di posizione di chi vede solo i costi o solo i benefici generano solo confusione. [...]"
Al di là delle interpretazioni e della correttezza delle tesi proposte, dovrebbero colpire due termini più di tutti gli altri: considerare onestamente.
Non è un caso che, nello stato attuale, la fretta utilizzata nel riformare sia di sicuro ostacolo alle infinite considerazioni oneste che i cittadini potrebbero muovere a sostegno delle proprie argomentazioni. La seconda opinione significativa è più recente, pronunciata da Giuseppe Bortolussi, Segretario della Cgia di Mestre. Il contenuto di tale dichiarazione è esplicativo, nei minimi termini:
"[...] In una situazione economica così difficile [...] l'eventuale decisione di modificare l'articolo 18 darebbe luogo ad un duro scontro con le parti sociali che avrebbe solo ricadute negative. Mai come in questo momento [...] abbiamo bisogno di pace e di coesione sociale.
Ritengo, inoltre, che possiamo agganciare la ripresa e conseguentemente rilanciare l'occupazione privilegiando le politiche legate alla domanda.
Ovvero, rilanciando gli investimenti, i consumi interni e combattere la deflazione: solo così saremo in grado di aggredire la disoccupazione. [...]"
Serve calma, dunque. La fretta impedirebbe di risolvere nel concreto il problema, creando sia (ulteriori) disagi sociali che rinnovati problemi nella gestione di un argomento tremendamente complicato da comprendere nella sua enorme varietà di impatto.
D'altro canto, con o senza articolo 18, l'Italia mantiene una serie imbarazzante di problemi che andrebbero risolti in maniera veramente strutturale.
Senza imbarazzi e molteplici interpretazioni, infatti, rimangono problemi irrisolti in questo Paese.
Ne restano di così grandi da far (teoricamente, alle volte l'assenza di dignità ed obiettività supera qualsiasi livello immaginabile) impallidire chi sostiene che l'abolizione dell'articolo 18 sia l'unico mezzo possibile da perseguire per realizzare un cambiamento.
E' a questo proposito piuttosto significativo portare l'attenzione su un report uscito pochi giorni fa e su cui, puntualmente, non sono stati puntati a dovere i riflettori del dibattito tecnico-politico nazionale.
Tale report è stato svolto dal Centro Studi Impresa Lavoro, richiamando e rielaborando una serie di dati tecnico-economici presentati dal World Economic Forum. Il contributo alla discussione in materia di emergenze da risolvere, leggendo il comunicato stampa ed il dossier da loro diffuso, è tanto emblematico quanto testimone della tremenda paralisi italiana a cui l'intera società sta assistendo:
"[...] Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 136mo su 144 [...] nel mondo.
In termini di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri Lanka e Uruguay. [...] Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011.
L’indicatore dell’efficienza è in realtà un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro sistema attraversa e rendono plasticamente l’idea del peggioramento delle condizioni del nostro mercato del lavoro [...]
Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. [...]
Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi.
E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività.
Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: nessun Paese in Europa fa peggio di noi quanto a effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro. E siamo ancora ultimi per l’efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento: un indicatore particolarmente significativo, questo, perché evidenzia quanto questi processi vengano ostacolati dal complessivo sistema delle regole e da disposizioni quali quelle, ad esempio, dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Anche la qualità del personale impiegato mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: siamo penultimi [...] per la capacità di affidare posizioni manageriali in base al merito e non a criteri poco trasparenza (amicizia, parentela, raccomandazione) e finiamo in coda anche con riferimento alla capacità di attrarre talenti (quart’ultimi) e di trattenere talenti (23mi su 28). [...]"
Se l'articolo 18 è un problema su cui urge riformare, deve essere prima un argomento sul quale sia possibile impostare una discussione di ampio respiro che cerchi ogni soluzione possibile per evitare ulteriori irrigidimenti. Inutili per tutti: per gli italiani, per la concertazione, per la politica, per la tecnica, per le classi dirigenti di questo Paese, [...].
Rimangono infatti un'infinità di problemi che la consultazione anche marginale del report prova a mettere ampliamente in luce:
  • efficienza generale del mercato del lavoro;
  • capitale umano bruciato senza alcuna possibilità di valorizzazione;
  • terreno estremamente fertile per le raccomandazioni e assai scarsamente produttivo per una cultura del merito;
  • livelli salariali inadeguati a potere d'acquisto e a mantenimento di adeguati stili di vita dignitosi;
  • scatti per la determinazione ed il miglioramento dei livelli di stipendio;
  • flessibilità in entrata parificata o commisurata scarsamente alla flessibilità in uscita;
  • scarsità di conoscenze e gravi carenze d'istruzione che concorrono a causare problemi di competitività su scala macroeconomica;
  • assistenza e collaborazione nelle relazioni fra impresa e lavoratore;
  • partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Questi sono solo alcuni dei molt(issim)i problemi che caratterizzano il complesso mercato del lavoro italiano. L'accanimento (anche presunto) sulla modifica dell'articolo 18 è una questione che contribuisce, alla luce dei dati esistenti, a banalizzare enormemente le possibilità di fuoriuscita dalla crisi. Parimenti alla possibilità di trovare alternative. Che esistono sempre, non certo per caso.
Per saperne di più:
"Scheda. L'articolo 18 dopo la riforma Fornero", La Repubblica, R.Ricciardi
[http://www.repubblica.it/economia/2014/09/16/news/scheda_l_articolo_18_dopo_la_riforma_fornero-95860843/]
"Articolo 18: interessa solo il 3% delle imprese, ma tutela il 65% dei dipendenti italiani", Cgia Mestre
[http://www.cgiamestre.com/2012/02/articolo-18-interessa-solo-il-3-delle-imprese-ma-tutela-il-65-dei-dipendenti-italiani/]
"Neoassunti senza art.18, Cgil pronta allo sciopero", ansa.it
[http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2014/09/17/lavoro-governo-presenta-emendamento-al-jobs-act_396daabf-b831-41e7-9837-fd3451432883.html]
"Cgia: "L'articolo 18 riguarda il 57,6% dei lavoratori"", La Repubblica
[http://www.repubblica.it/economia/2014/09/18/news/lavoro_articolo_18_cgia-96084655/]
"Il nostro mercato del lavoro è il meno efficiente d'Europa", Centro Studi Impresa Lavoro
[http://impresalavoro.org/mercato-del-lavoro-meno-efficiente-deuropa/]
"Perché una soglia a 15 dipendenti per l’applicazione dell’Art. 18?", Lavoce.info
[http://www.lavoce.info/perche-una-soglia-a-15-dipendenti-per-lapplicazione-dellart-18/]
"Lavoro, Italia ultima nell'Unione europea per efficienza", La Repubblica
[http://www.repubblica.it/economia/2014/09/14/news/lavoro_italia_ultima_nell_unione_europea_per_efficienza-95745554/]
Statuto dei Lavoratori, altalex.com
[http://www.altalex.com/index.php?idnot=39728#titolo2]
RIFORMA STRUTTURALE E/O STRUMENTALE DEL LAVORO... #POLITICAEDIBATTITOIMBARAZZANTI Fonte immagine: formiche.net

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