Lo stesso giorno, il 2 gennaio, Matteo Renzi diceva, in un’intervista al Fatto Quotidiano: «Se all’Europa proponi un deciso cambio delle regole del gioco, a partire dalle riforme costituzionali, con un risparmio sui costi della politica da un miliardo di euro che non è solo simbolico, un Jobs Act capace di creare interesse negli investitori internazionali, fai vedere che riparti da scuola, cultura e sociale, allora in Europa ti applaudono anche se sfori il 3 per cento». Bisogna essere molto più precisi, altrimenti anche questa rischia di rivelarsi una pericolosa illusione a cui nessuno a Bruxelles crederà. Siamo stati (crediamo) i primi a proporre, il 17 maggio su questo giornale, una strategia di politica economica che contempli un nuovo negoziato con Bruxelles e un temporaneo superamento del vincolo del 3% sul deficit dei conti pubblici. Scrivevamo che anziché rincorrere il 3% con aumenti di tasse (come avviene da un ventennio, e continua tuttora con la legge di Stabilità di due settimane fa) il governo avrebbe dovuto proporre a Bruxelles una riduzione immediata delle imposte sul lavoro di almeno 23 miliardi (quanto necessario per portare i contributi a carico delle imprese al livello tedesco), accompagnata da tagli corrispondenti, ma graduali, della spesa, e riforme coraggiose, soprattutto del mercato del lavoro, da attuare nell’arco di un triennio. Il deficit supererebbe per un paio d’anni il 3%. Torneremmo sotto la sorveglianza europea, una ragione in più per garantire che tagli e riforme vengano davvero attuati. Riducendo i sussidi improduttivi (che valgono, fra incentivi diretti e agevolazioni fiscali qualche decina di miliardi) e avviando un piano di liberalizzazioni, si darebbe il segnale che la priorità è la crescita. E, parallelamente, le dismissioni di immobili e le privatizzazioni di cui tanto si parla, ma solo se ne parla.
Per farci approvare dall’Europa un piano simile dobbiamo però presentarci a Bruxelles dopo aver approvato i tagli di spesa e con obiettivi numerici, scadenze temporali e meccanismi istituzionali che ci obblighino a farle davvero queste riforme di cui tutti parlano ma sempre attenti a non scontentare nessuno. Il problema è che finora questo non lo abbiamo saputo fare. L’irritante vaghezza e i continui rinvii di Letta e Saccomanni lo confermano. La discesa dello spread al di sotto dei 200 punti è magra soddisfazione per un Paese che dal 2007 ha perso quasi il 10 per cento di reddito. Forse la stangata fiscale del governo Monti e, soprattutto, le rassicurazioni della Bce, sono servite a calmare temporaneamente i mercati riguardo a un eventuale ripudio del debito. Ma il 133 per cento di rapporto debito su Pil, anche con tassi relativamente bassi (per ora), rimane un fardello che uccide la crescita. Dichiarare vittoria perché lo spread e sceso è un altro pessimo esempio della nostra tendenza ad adagiarci non appena ci si allontana di qualche passo dal baratro.
La cattiva abitudine a rinviare sempre tutto, a parte le maggiori imposte, è la ragione della nostra scarsa credibilità in Europa. Ad esempio, dopo l’ingresso nell’euro i tassi di interesse sul nostro debito sono crollati: il debito ci costava l’11,5% del prodotto interno lordo nel 1996, questo costo è sceso sotto il 6% dopo l’ingresso nella moneta unica. Avremmo dovuto approfittarne per ridurre il peso del debito, tagliando la spesa. Non lo abbiamo fatto e abbiamo sprecato un’occasione d’oro. Invece di ridursi, la spesa pubblica al netto degli interessi è salita di più di tre punti di Pil (dal 39,6% nel 2000 al 43% nel 2003). Questi erano anni in cui l’economia (cioè il denominatore del rapporto spesa/Pil) cresceva: ma il numeratore saliva ancor più rapidamente. Quando la crescita si è fermata, il rapporto spesa su Pil è continuato ad aumentare raggiungendo il 46 per cento di oggi. Abbiamo così dimostrato che non appena ci ritorna un po’ di respiro e di tempo subito ci adagiamo: è questo che l’Europa teme. L’unico successo, e non da poco, va detto, è stata la riforma pensionistica.