Rileggiamoli «Apocalittici e integrati»

Creato il 30 settembre 2011 da Agnese Vardanega

Diceva Umberto Eco nel 1964 che «fare la teoria delle comunicazioni di massa è come fare la teoria di giovedì prossimo». Era il periodo, quello in cui è uscito questo libro,  in cui la televisione era la novità tecnologica e la società dei consumi la catastrofe incombente.

La società italiana aveva preso il ritmo accelerato che avrebbe caratterizzato da allora in avanti il mondo, il quale – ora lo possiamo vedere con chiarezza – era già globale, nonostante un muro di fresca costruzione pareva in grado di dividerlo in due, arrestando il cambiamento.

Per comprendere l’inadeguatezza della strumentazione teorica a disposizione degli intellettuali di allora «Basti pensare che in quegli anni uscivano inchieste sociologiche sul futuro dei giovani in cui si pronosticava una generazione disinteressata della politica, volta a una buona posizione, un matrimonio tranquillo, una casetta e un’utilitaria». Quattro anni dopo, il Sessantotto.

Perché suggerisco di rileggere in questo momento Apocalittici e integrati?

Prima di tutto, perché mi pare una buona idea tenere presente che analizzare la contemporaneità significa sempre tentare di fare “la teoria di giovedì prossimo”. Cioè dire molte cavolate azzardate o molte cavolate banali, per dirla “pop”.

Sarà forse un atteggiamento regressivo da parte mia, ma quando sento argomenti antichi riemergere sotto nuove spoglie, li vado a scovare nei vecchi libri, per vedere se – chissà – le vecchie risposte possano avere ancora un qualche valore, risparmiandoci qualche cavolata – oltretutto già sentita.

In particolare, tante delle questioni che sono oggi al centro del dibattito sul web e sui social media sono praticamente le stesse che muovevano allora i tentativi di comprendere la portata sociale, storica e culturale che avrebbe avuto la tv.

Apocalittici e Integrati continuano – in una parola – a definire i termini del dibattito, benché le posizioni di Eco siano state ampiamente superate dalla storia, dalla teoria delle comunicazioni di massa, dalla critica e da Eco stesso. O forse proprio per questo: di giovedì in giovedì sono diventate mero cliché.

Com’è noto, gli Apocalittici sono coloro che – considerando la cultura come «la gelosa coltivazione, assidua e solitaria, di una interiorità che si affina e si oppone alla volgarità della folla» – vedono nella cultura di massa, nella cultura cioè «condivisa da tutti, prodotta in modo che si adatti a tutti, e elaborata sulla misura di tutti, … un mostruoso controsenso». E non «una aberrazione transitoria e limitata», ma una «caduta irrecuperabile».

Gli Integrati sono invece gli ottimisti della cultura di massa, quelli che vedono come una benedizione l’«allargamento dell’area culturale in cui finalmente si attua ad ampio livello, col concorso dei migliori, la circolazione di un’arte e una cultura “popolare”». La cultura è alla portata di tutti. La cultura deve essere alla portata di tutti.

Eco non trascura certo i fattori di “struttura”, com’era d’uopo allora e come spesso omettiamo di fare oggi, in parte probabilmente per reazione a quello che era il cliché di allora – talora poco più che una formalità, o una concessione d’obbligo al  dominante strutturalismo (nelle sue varianti marxista e funzionalista).

In primo luogo, la civiltà cosiddetta di massa è una “situazione antropologica” determinatasi con «l’ascesa delle classi subalterne alla partecipazione (formalmente) attiva alla vita pubblica, l’allargarsi dell’area del consumo delle informazioni» (p. 22). Come a dire che le élites non erano più le sole a fruire di cultura ed intrattenimento. Ciò rendeva pressante porre la questione estetica in termini nuovi, anche in considerazione delle modalità sociali di uso del mezzo e di fruizione dei contenuti.

Che le “classi subalterne” potessero persino produrre contenuti, naturalmente, non era neanche lontantamente pensabile.

Detentori entrambi del potere di “fare cultura”, essi contribuivano a diffondere «”concetti feticcio” … per polemiche improduttive o per operazioni mercantili di cui noi stessi quotidianamente ci nutriamo». Una riflessione razionale – accademica – sul nuovo mezzo, doveva (deve) necessariamente svincolarsi da questa battaglia per l’egemonia culturale.

Ed Eco percorre nel volume varie strade, dall’argomentazione razionale all’ironia. Il volume suscitò allora – come ricorda l’introduzione all’edizione del ’93, “Saggi Tascabili” Bompiani – un vasto dibattito e notevoli polemiche, non ultimo per il linguaggio semplice (pop).

Pietro Citati, ad esempio, aveva guardato con sospetto quella che diventerà una delle cifre di Eco, ovvero il ricorso alla “Cultura Alta” per analizzare la “Cultura Bassa”.

E cosa scrive lo stesso Citati, ancora nel 2011? «Non sappiamo più leggere, né scrivere, né conoscere le lingue straniere, né comporre un lavoro qualsiasi. Un tempo, l’Occidente era il luogo dell’esperienza e dell’avventura. Oggi, siamo diventati quello del niente e del vuoto» (LaRepubblica.it).

Questo esempio di nichilismo fiammeggiante mi pare sufficiente a chiarire le ragioni di attualità di questo libro:

Tutti sanno … che oggi noi viviamo in un’universo dell’informazione; lo sviluppo tecnologico ha fatto sì che se dialogo e cultura potranno ancora sopravvivere (e c’è chi ne dubita) tutto questo non avverrà che sullo sfondo di una comunicazione intensiva di dati, di notizie, di aggiornamenti circa ciò che sta accadendo. E’ facile capire come una condizione del genere si presti alla “deprecazione”. … Dov’è finito l’uomo? Si è dissolto nel vaneggiamento, nella melassa dei conformismi, nei disordini protervi di una intelligenza informata ed informale. Cosa ci resta? il silenzio (senza esilio e senza astuzia), la contemplazione tragica del vuoto. E la consolazione di essere un animo nobile. Un nichilista fiammeggiante (I nichilisti fiammeggianti, pp. 361 sgg. nell’ed. del 1993).


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