Settimana di inventari tra artigiani del luogo. Non pensate all’accezione romantica del termine “artigiano”. Non fatevi venire in mente un artista che trasforma la materia – legno, ferro, pelle, tessuto – in un oggetto esteticamente pregiato.
Pensate piuttosto agli oggetti che vi circondano, che “funzionano” e che date per scontati: una porta, una sedia, le posate, i rubinetti. Vi siete mai chiesti da quali processi produttivi si originano, quali mani e macchine li hanno assemblati fino a portarli nelle vostre case?
Sono spesso mani unte di grasso, tagliate dagli ingranaggi inceppati che devono essere riparati, infilate in maniche di tuta impregnate dell’odore metallico degli olii lubrificanti. Appartengono a persone che cominciano i discorsi in italiano ma scivolano inevitabilmente nel dialetto, dopo poche parole. Sono di uomini con le schiene spaccate dalla fatica e da poche ore di sonno, torturati dall’ansia continua della ricerca dell’affare della vita, quello che li innalzerà alla categoria degli industriali, circondati da oro zecchino, combattuti tra la voglia di fare le cose secondo la legge e l’istinto confessato a mezza voce di frodarla perché, se fanno i conti delle tasse e degli adempimenti burocratici e delle garanzie sanitarie di tutela dei loro operai, giungono alla conclusione che è meglio chiudere perché il margine si riduce sempre di più. Sono uomini che vedono poco i loro figli e quando sono a casa non riescono a stare fermi, irrequieti in trappola.
Li guardo indaffararsi. Ci discuto, per ottenere da loro i dati nei tempi rapidi che la grande azienda richiede. Li sento proclamare che hanno per le mani qualcosa di grosso, ancora segreto e abbozzato ma che questa è la volta buona. Oppure constatare, scuotendo la testa, che con questa crisi non ce la fanno più, mollano tutto e si cercheranno un padrone così la vita sarà più comoda e alle cinque torneranno a cas senza altri pensieri per la testa. Li guardo e mi chiedo se ha un senso tutto questo, se ne vale la pena o se forse sarebbe meglio imparare a dire basta, quando si avvicina la sera, e incamminarsi lungo il fiume, con il proprio bambino per mano, a prendere fiato.
Cooney Potter
Mio padre mi lasciò in eredità
quaranta acri di terreno
e io. mettendo a lavorare dall’alba al tramonto
mia moglie, i miei due figli maschi e le due femmine,
acquistai mille acri. Ma ancora non contento,
volendo giungere a possederne duemila,
faticai per anni con l’ascia e con l’aratro.
sudando, rinnegando me stesso, moglie e figli.
Squire Higbee si sbaglia sul mio conto
quando dice che morii a causa dei sigari Red Eagle.
Mangiare torta ancora caldissima e trangugiare caffè
nelle ore ardenti della mietitura
mi hanno portato qui prima dei sessant’anni.
Edgar Lee Master – Antologia di Spoon River – Traduttore sconosciuto