Comunichiamo che il seminario annunciato per fine ottobre viene spostato nella seconda metà di novembre, Vi preghiamo di inviare le vostre adesioni all’indirizzo giannipedros@libero.it. Sarete rincontattati per maggiori dettagli. Ci teniamo a precisare che tale evento viene organizzato per incontrare persone realmente interessate al nostro lavoro e per la costituzione di una sorta di think tank finalizzato a sviluppare le tematiche affrontate in questi anni da conflittiestrategie.
GIANFRANCO LA GRASSA
LA REALTA’ E’ “ASSENZA”
(in squilibrio incessante)
Indice
INTRODUZIONE di Gianni Petrosillo pag.3
PREMESSA pag.9
I parte – La teoria dello squilibrio.
La realtà come flusso conflittuale e squilibrante pag.11
II parte – Miti dell’economica dominante.
Robinson e Tarzan: da dove si sarebbero dovute prendere le mosse? pag.37
III parte – L’isola che non c’è
Fantasia o realtà? Domanda non conclusiva pag.43
Introduzione
1. La realtà è flusso squilibrante
In principio era (ed è) lo squilibrio e, probabilmente, sarà così finché gli uomini esisteranno. L’approccio lagrassiano allo studio dei fenomeni sociali è, con questo incipit, completamente nuovo e originale. Non esistono, da quanto sappiamo, interpretazioni teoriche che abbiano provato a porre la questione dell’indagine scientifica sulle organizzazioni in questi termini letteralmente opposti all’ipotesi dominante: quella dell’equilibrio internamente coerente di una struttura o di un insieme di strutture che compongono la società. Siamo, dunque, in presenza di un importante cambio di paradigma che sconvolge postulati sin qui incontestabili. Tutte le speculazioni sulle costruzioni umane finora conosciute sono sempre partite dall’esistenza di un equilibrio come dato primigenio, necessario e sussistente, per la tenuta dei sistemi (di una o più istituzioni, di uno o più apparati ecc. ecc.), cioè di una stabilità innata degli stessi che però può essere sconvolta da elementi perturbatori intervenienti, sempre da disattivare per evitare la “catastrofe”. Infatti, qualunque discostamento da questo stato di normale funzionamento dei sistemi avverrebbe a causa di fattori di alterazione esogeni o dal manifestarsi di contraddizioni impreviste che scuotono l’intero edificio. Lo squilibrio, per questa visione, rappresenta, pertanto, l’onda anomala che sconvolge la “regolarità” dell’equilibrio, l’elemento aleatorio che si manifesta dal nulla per rovinare la festa agli uomini di buona volontà, all’umanità democratica, solidale e comunitaria.
Persino nel luogo dell’anarchia per antonomasia, il mercato capitalistico, viene esaltata la componente forse più rara, o solo tendenziale, quella dell’eguaglianza tra domanda e offerta, che si raggiunge in determinate circostanze e mai, contemporaneamente, in tutti i settori merceologici. Per i liberisti, per esempio, è l’intervento non richiesto dello Stato (l’elemento disturbatore) che impedisce all’istituzione del mercato di raggiungere quell’equilibrio tra domanda e offerta alla quale essa protenderebbe naturalmente, grazie all’agire della mano invisibile di smithiana memoria. Una incredibile favola alla quale danno adito fior di sedicenti scienziati delladismal science. C’è qualcosa di fortemente ideologico in un simile approccio che va rimesso in discussione. Lo fa La Grassa con un imponente ragionamento.
L’equilibrio è quello che vediamo superficialmente come risultato di una miriade di squilibri in compensazione reciproca. Lo squilibrio è, pertanto, la vibrazione essenziale che forma e trasforma il mondo, è il germogliare delle relazioni (conflittuali) nella vita sociale, il pullulare dei rapporti (di forza) che si compongono e si scompongono in essa, sospinti dal flusso impetuoso (ed in sé inaccessibile) della realtà. Una rilevazione con strumentazioni teoriche meglio calibrate ci svela questa particolarità non discernibile ad occhio nudo. Se azzardiamo un paragone fisico forse riusciamo a capire meglio di che si tratta. Dopotutto, persino un sasso non è immobile anche se lo vediamo fermo. Eppure i suoi atomi si spostano in continuazione vibrando senza sosta. Ma dobbiamo affinare le nostre lenti di osservazione per scorgere tali fluttuazioni. Una metafora, sicuramente più azzeccata dell’autore, ci porta al cuore della questione:
“Se stiamo fermi in piedi, anche sull’attenti e immobili in una garitta, il nostro corpo è sede di innumerevoli movimenti squilibranti, che si contrastano mantenendo il temporaneo e apparente equilibrio. Dopo un dato periodo di tempo ci si stanca e si cerca di mantenersi in piedi muovendosi, prima lentamente e poi sempre più velocemente, mettendo in moto squilibri sempre più ampi, finché sopraggiunge la cosiddetta stanchezza, che significa rottura dell’equilibrante contrapposizione di squilibri; e allora si casca o ci si deve sedere o ci si fa sorreggere da un altro (che così afferma la sua supremazia). L’importante è capire che, per quanto lungo possa apparire un determinato equilibrio con il suo stato di quiete (lo ricordo: costumi, abitudini, cultura, morale, Stato, apparati vari, associazioni, imprese economiche, ecc.), si tratta sempre di un insieme sistemico di azioni e reazioni. Appunto, come quando un individuo si tiene fermo in piedi, con una serie di movimenti contrapposti dei muscoli e quindi dei fasci nervosi e dei comandi centrali (magari “automatici”, non consapevoli); quando s’invecchia e i muscoli perdono robustezza ed elasticità, non a caso si cade spesso, ci si regge in piedi con maggiore difficoltà”.
Dunque, c’è uno squilibrio sempre operante che non si percepisce empiricamente. Soltanto in determinate fasi storiche esso diventa evidente in quanto risultato di un’azione di rottura che porta al palese scarto di un organismo sociale dalla sua stabilità con “radicale riorientamento della sua struttura di relazioni e il conseguente passaggio ad altro sistema diversamente configurato”. In ogni caso, questa precipitazione visibile è l’esito macroscopico di spinte microscopiche destabilizzanti che agiscono continuamente, pur se non avvertite istantaneamente.
Poiché la realtà è scompenso continuo, qualsiasi creazione collettiva è soggetta a questa legge permanente dello squilibrio che la rende alla lunga caduca. Per non farsi trascinare da questo flusso caotico, chi intende muoversi con un minimo di coordinazione nella realtà deve ipotizzare dei campi di stabilità che, per quanto transitori, possono dare alle sue scelte una incidenza concreta sul terreno di azione prescelto. Almeno transeuntemente, perché nel fiume in piena della realtà qualsiasi rete o appiglio viene prima o dopo spezzato. Come scrive La Grassa, in ambito societario, l’equilibrio deriva dalla vittoria di un gruppo di agenti strategici che hanno strutturato gli apparati di gestione del luogo in cui si trovano ad operare, sulla base del loro potere effettivo (che non coincide mai perfettamente con le loro intenzioni astratte). Imponendo questa egemonia nello spazio occupato costringono le forze concorrenti, che esercitano spinte contrarie, ad integrarsi nel sistema complessivo. In questa maniera, gli apparati da essi formati o modellati per garantirsi tale preminenza, in quanto precipitato di una conflittualità sempre in atto, seppur a volte più latente, sono in grado di controllare la reazione dei drappelli avversari, la cui ostilità viene confinata in una processualità (o ritualità) meglio prevedibile. In una situazione di questo tipo si riscontra il cosiddetto equilibrio che non annulla gli scontri ma li smorza e li integra, senza mai compensarli del tutto, nell’impalcatura sociale che ricalca un potere particolare. Tuttavia, non solo lo spazio ma anche il tempo (storico) ha un valore determinante nell’analisi degli eventi sociali, poiché, come abbiamo detto, il flusso conflittuale e squilibrante non si arresta mai. Col succedersi degli eventi l’intelaiatura eretta a protezione di una certa configurazione dominante subisce dei cedimenti, viene erosa dallo scorrimento carsico sotto le sue fondamenta e inizia a vacillare.
Un’altra figurazione può essere utile a chiarirci le idee. Afferma l’autore:
“Immaginiamo che in un grande recipiente (il mondo) si versino alcune grosse pietre (le potenze) che, pur urtandosi e contrapponendosi, stabiliscono un certo equilibrio. Vi si versi una serie di piccole pietre, che si sistemeranno nei vuoti esistenti tra le pietre più grosse. Anche queste minori pietre eserciteranno pressioni e forze sul resto, se non altro perché gli spazi vuoti si vanno restringendo e le superfici di contatto e frizione si accrescono; tali pietre più piccole, tuttavia, trovano infine i loro equilibri “subordinandosi” alla pressione superiore dei pietroni. Infine, si rovesci del pietrisco fine fine nel recipiente. Accadrà l’identico fenomeno precedente, i sassolini si sistemeranno tra le pietre più piccole, eserciteranno la loro pressione e frizione, ma in definitiva si sistemeranno e integreranno con il resto, “subordinandosi”, però, nel corso di tale integrazione.
Tutte le pressioni e frizioni sembrano sparite, annullate, l’armonica integrazione appare ormai stabilmente assestata. Niente di tutto questo. Il tempo e i fattori esterni (“atmosferici”) disgregano alcuni pietroni e anche pietre, ma portano pure progressivamente a nuove aggregazioni mediante fusione dei pezzi e di altre pietre con ingrandimento di nuovi pietroni e pietre; e il fenomeno interessa in vario grado anche il pietrisco. Gli apparenti equilibri svaniscono, l’integrazione precedente tra i vari ordini di grandezza delle pietre mostra la sua transitorietà e sostanziale labilità di fronte alle spinte squilibranti, si producono frane nell’insieme e vanno creandosi nuove configurazioni del pietrame nel recipiente (mondo). Si entra insomma in un’epoca di mutamento. L’equilibrio apparente è venuto meno, ma semplicemente perché i processi temporali (storici) hanno annullato le forze di integrazione che attenuavano quelle squilibranti, incessanti e sempre attive malgrado fossero in apparenza dissolte nell’illusoria armonia del “tutto”. Tale armonia, in definitiva, era il semplice apparire temporaneo di un equilibrio nel bel mezzo del flusso continuo squilibrante.”
Siamo dinnanzi ad un disvelamento di non poco conto che apre un inesplorato continente di cognizioni. Il reale è flusso di tensioni squilibranti di cui abbiamo coscienza ma non conoscenza. Saremmo trascinati e travolti dalla sua corrente se ci immergessimo in esso senza selezionare configurazioni relazionali e perimetrazioni parziali dello stesso. In ogni caso, il reale non ha in sé né suddivisioni né nessi, essendo piuttosto un continuum di scosse e di vibrazioni. Le teorie con le quali cerchiamo di capire il mondo non “riproducono il concreto nel cammino del pensiero” ma costruiscono, secondo intuizioni, tagli di visione e angoli di osservazione specifici, dei campi strutturati nei quali dare corso alle proprie ipotesi conoscitive e lotte per l’egemonia, la cui correttezza è costantemente da verificare, periodo dopo periodo, esperienza dopo esperienza, battaglia dopo battaglia.
Questi campi possono risultare saldi per intere fasi storiche ma non sono immutabili perché vengono continuamente colpiti dal flusso della realtà che li attraversa e li deforma fino a trasfigurarli. Dunque, le teorie che individuano il campo sono il primo passo per stabilizzare l’azione dei soggetti che in esso intendono agire (in quanto trasportati dal flusso squilibrante) al fine di cogliere e poi servirsi delle sue dinamiche, per posizionarsi al di sopra di altri gruppi che si contendono la preminenza.
Come sostiene La Grassa, la teoria, sotto questo aspetto, è già una prassi, forse la più importante (per la stabilizzazione di un campo), perché senza di essa ci sarebbe unicamente il rimbalzare cieco degli attori da un fatto all’altro senza alcun un senso logico. La teoria raccoglie le informazioni sugli eventi per orientare i comportamenti degli agenti, seleziona nodi e snodi della realtà che ritiene decisivi ai fini della sua comprensione/mutazione, disegna mappe e rotte da seguire per assicurarsi un approdo, devia dai tragitti tracciati davanti agli ostacoli e cerca di evitare i vicoli ciechi. Almeno finché ha le energie scientifiche per farlo, perché essa, aggiustamento dopo aggiustamento esaurisce la sua capacità interpretativa, invecchia e si ossifica perdendo “contatto” col mondo. Metamorfosa in ideologia. Giunge il momento di revisionarla o di abbandonarla per testare nuove ipotesi più adatte ai tempi. Poi c’è la cosiddetta istituzionalizzazione, con la formazione di apparati gerarchizzati e regolati da norme e consuetudini, utili al raggiungimento di determinati obiettivi. Questi metodi di consolidazione del campo, col passar del tempo, diventano ineffettuali, conservativi o incapaci di frenare le spinte squilibratrici che si moltiplicano, favorendo l’avanzata di gruppi che sentono di poter cavalcare al meglio il rinnovamento. E’ l’impulso sbilanciante che crea le condizioni della trasformazione all’interno di una data società, determinando innovazioni, rivoluzionarie o graduali, che coinvolgono drappelli di agenti, i quali si sentono autonomi nelle loro decisioni pur essendo, in verità, agiti dalla suddetta forza trascinatrice che La Grassa definisce vibrazione squilibrante.
Più precisamente, dice il pensatore veneto:
“Gli individui attivi in società lo sono nell’ambito di un incessante flusso di squilibri, più o meno intensi, ampi, duraturi. Tali squilibri sono spesso reciprocamente compensabili per periodi di tempo (fasi storiche) di varia lunghezza, poi diventano in genere non più controllabili e in accentuazione. Abbiamo già detto che si formano pure gruppi di coalizione, di alleanza (in genere transitoria e sempre pronta a mutamenti di posizione), al fine di resistere agli attacchi o di muovere offensive, ecc. I movimenti degli individui o gruppi sociali avvengono appunto perché lo squilibrio – che sposta oggettivamente, e all’inizio perfino inconsapevolmente, i rapporti di forza nell’interazione tra di essi – viene da ognuno creduto frutto dell’iniziativa e manovra di qualche altro, cui si deve rispondere adeguatamente.Dopo più o meno lunghi periodi di transizione si assestano certi apparenti equilibri, che generalmente richiedono la presenza di centri dotati di forza predominante; sia all’interno di una data forma storica di società (ad es. capitalistica; anzi più precisamente quella del capitalismo borghese o quella dei funzionari del capitale, ecc.) sia nei rapporti tra formazioni particolari”.
Gli agenti (del conflitto) operanti in un ipotetico campo stabilizzato devono ricorrere alla teoria per rendere maggiormente intelligibile l’ambiente che li circonda e alla politica (insieme di mosse strategiche, nelle varie sfere in cui suddividiamo la società per comodità analitica) per conservare la propria supremazia o scavalcare quella altrui, verificando, in medias res, la giustezza della loroconcezione del mondo (quelli più bravi di me direbbero Weltanschauung) che è un orizzonte di “potenzialità effettive” e non di utopie campate in aria, cucinate da imbroglioni che giocano con i (buoni e facili) sentimenti del popolo, immancabilmente proteso ad ascoltare e seguire simili pifferai magici.
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Robinson e Tarzan
Karl Marx chiamava robinsonate quegli esempi, epistemologicamente artificiosi e inutilmente romanzati, dai quali gli economisti della sua epoca prendevano le mosse per giustificare alcune loro teoresi sull’evoluzione della vita associata e sulle regole ad essa immanenti. “Il singolo ed isolato pescatore e cacciatore”, per esempio, da cui Smith e Ricardo inferiscono le leggi sociali dell’economia moderna “appartengono a quelle invenzioni prive di fantasia, che sono le robinsonate del XVIII secolo…”.
Robinson Crusoe, il personaggio del romanzo di Defoe, naufragato su un’isola deserta, ricostruisce istintivamente, (probabilmente) sulle spiagge di Agua Buena (arcipelago cileno), in quasi perfetta “individualitudine” (mi si passi il neologismo), eccetto che per la compagnia di un indigeno da lui chiamato Venerdì (proprio come quello che manca a molti economisti), quei rapporti sociali di cui era socialmente creatura, prima di andare alla deriva e toccare quello sconosciuto lembo di terra. Per i padri della triste scienza però non è determinate il bagaglio di conoscenze che Robinson si porta dietro in questo naufragio, insieme ad una parte dell’oggettistica della civiltà da cui proviene (orologio, libro mastro, penna e calamaio), tutti elementi che lo rendono un perfetto rappresentante della borghesia inglese del ‘700, con delle strutture mentali ed organizzative già formate. Ciò che conta per essi è che, pur in una situazione d’isolamento, il superstite rimetta in moto, spontaneamente, i meccanismi della società capitalistica, deducendone perciò che i suoi principi debbano crescere in armonia con la natura o spuntare dalla terra come i tarocchi sull’albero dei tarocchi.
Questo farà dire a Marx, nella Miseria della filosofia, che “gli economisti hanno uno strano modo di procedere. Per essi ci sono soltanto due specie di istituzioni, quelle artificiali e quelle naturali. Le istituzioni feudali sono artificiali, quelle borghesi sono naturali. In questo assomigliano ai teologi, che anch’essi pongono due specie di religione. Tutte le religioni che non sono la loro, sono invenzioni degli uomini, mentre la propria religione emana da Dio. Così di storia ce n’è stata, ma non ce n’è più”.
Ma più corretto e coerente, scrive, invece, La Grassa, nel suo saggio, sarebbe stato, per l’economica dominante, partire da ben altro caso letterario, al fine di capire fino in fondo come si evolve il comportamento di un uomo privo di socialità e cultura in un ambiente non insediato da suoi simili. E se come punto zero si prendesse un soggetto alla Tarzan, il quale, seppur umano, non ha mai avuto contatti con la sua specie vivendo, da quando era in fasce, nel bel mezzo della giungla, quali caratteristiche sarebbero emerse? Certamente, non quelle del cittadino inglese sradicato dal suo contesto all’ora del thè che tiene la contabilità di se stesso anche su un atollo.
Effettivamente, sostiene La Grassa, sarebbe stato uno spasso vedere come se la sarebbero cavata i marginalisti alla Walras (non a caso un altro che inseguiva il mito dell’equilibrio generale in economia) o alla Menger e Jevons, anziché con il mito di Robinson, con quello di Tarzan, l’uomo scimmia in cui non vi è il ‘primato della domanda’ ma quello della forza combinata all’astuzia in un ambiente non civilizzato.
Il protagonista della storia di Burroughs è un uomo che non ha mai avuto esperienza degli altri uomini, dei rapporti sociali, delle regole di convivenza e delle leggi economiche del suo tempo. E’ l’individuo isolato, nel vero senso della parola, che persegue il suo interesse, la mera sopravvivenza, secondo una natura davvero primordiale, tra pericoli e insidie, che non è quella artificiosa dalla quale gli economisti fanno discendere i frutti marci dell’ideologia capitalistica.
In questo senso ha ragione Marx quando afferma che: “gli economisti dominanti hanno un bel dire che quello del capitale è un sistema naturale, laddove le forme sociali in cui [si] produce e che appaiono rapporti dati, naturali, sono il costante prodotto – e solo per questo il costante presupposto – di questo modo di produzione specificamente sociale”.
Robinson, invece, è già un “concentrato sociale”, come piace alla mitologia che si fonda sull’homo oeconomicus, la prova provata che il capitalismo non crollerà mai perché il suo meccanismo di riproducibilità sistemica non è una strada casuale imboccata dall’umanità in un certo punto della sua storia ma è addirittura insito nel DNA stesso della specie umana, presa nella sua singolarità (Robinson) e collettività (in quanto aggregato di molti Robinson). Insomma, fatti non foste a vivere come bruti ma per scambiare merci ed accumulare capitali.
Questo è quel che si dice raccontar(si) stupide favolette. La Grassa ridicolizza questo modo di argomentare e rimette Robinson (e gli economisti) coi piedi per terra. Quello di Tarzan potrebbe, invece, essere un buon inizio per capire come abbiamo cominciato e come siamo cambiati, qual è la sostanza dei rapporti sociali di cui diveniamo il prodotto (maschere di rapporti sociali) e come, a volte, possiamo anche ergerci al di sopra di essi (anche se spessissimo al di sotto):
“Quello di Tarzan è dunque il vero “salto” in uno spazio diverso, con un senso della temporalità diverso. E allora seguiamolo, ma solo per cenni, nella sua crescita. Per certi versi egli usa l’istinto animale (quello detto tale, non so se propriamente; non sono in grado di deciderlo). Quando insegue un preda – in genere pure lui, come ogni altro animale, per nutrirsi – procede avvertendo da dove tira il vento e posizionandosi in modo che il suo odore non arrivi ad essa, altrimenti quella fugge a gambe levate. Inoltre, spesso non tocca terra; procede per aria passando di albero in albero utilizzando le liane. Sa però tendere le trappole, sa attendere un tempo considerevole affinché maturino condizioni più favorevoli. Considera assai meglio i rispettivi rapporti di forza; affronta la prima volta la tigre in modo “ingenuo”, ne viene ferito e a momenti ci rimette la pelle, ma impara bene la lezione e poi si ritrae sempre da scontri troppo diretti fin quando questa non è invecchiata. A quel punto è lei che non tiene conto del suo indebolirsi e Tarzan, usando anche dello strumento coltello trovato anni prima nella capanna, la uccide. Insomma, fa uso dell’“istinto”, ma anche di un pensiero che si articola in modo nettamente più complesso rispetto agli altri animali”.
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La presenza (attuale) dell’assenza
All’inizio di questa breve introduzione abbiamo cercato di chiarire che nella concezione di La Grassa la realtà è continuo ed inarrestabile divenire, pertanto, occorre ipotizzare un campo strutturato per mettere alla prova la propria visione dei processi sociali e la capacità d’incidere su di essi. Compito degli strateghi (agenti) è, allora, quello di fissare delle coordinate che “segnalino” il campo, nonché i rapporti di forza da cui questo risulta attraversato, al fine di disporre le proprie “legioni” e muoversi al suo interno con intenti di egemonia, tenendo presente che il flusso conflittuale rende, soprattutto in determinati periodi storici, estremamente variabili dette coordinate, richiedendo estrema flessibilità di pensiero e di azione. Per questo, precisa La Grassa, nel suo concetto di campo è l’assenza, da intendersi come indefinitezza del movimento squilibrante (che nella sua essenza, ricordiamolo, resta inconoscibile), a produrre quegli attriti che servono “a fondare il conflitto tra strategie di ‘soggetti’ che si pongono nella veste di agenti in lotta per la supremazia; ma si pongono come tali a causa di quell’assenza (indefinita) squilibrante”.
L’assenza, elabora il pensatore veneto, è la determinante essenziale del nostro modo di agire, esplica i suoi effetti, sia negativi che positivi, avviando e condizionando i processi degli attori, costruendo la (sua) realtà, fatta di organizzazioni e di allestimenti ideologici, adatti ad una specifica situazione concreta. Si pensi al cosiddetto comunismo sovietico. Esso non sarebbe sopravvissuto come semplice obiettivo ideale, laddove si rendeva manifesto, anno dopo anno, lo scarto, la deviazione tra principi ispiratori e risultati effettivamente conseguiti, tra intenzionalità coscienti e conseguenze involontarie delle decisioni assunte da quel gruppo dirigente. Tuttavia, come scrive meravigliosamente Pasternak in una sua poesia “la lontananza del socialismo” era accanto agli individui e produceva degli esiti. Afferma La Grassa: “l’“assenza” di detta costruzione … veniva determinando una creazione e articolazione di apparati (in primo luogo di Stato, la sfera produttiva era piuttosto debole in quella formazione sociale) secondo forme adeguate ad un lungo uso del potere con indubbia efficacia, pur progressivamente decrescente. Se avesse prevalso la credenza (fantastica) nel socialismo – mettiamo l’idea della “rivoluzione permanente” – quel gruppo di potere sarebbe stato spazzato via in poco tempo. L’“invenzione storica” ha dato vita ad un’“assenza”.
E’ stata questa assenza del socialismo a generare una grande potenza, quella dell’Urss, potenza i cui effetti continuano a prodursi ancora oggi, pur se in un diverso contesto epocale e politico internazionale. Non possiamo costruire o ricostruire la realtà nel cammino del pensiero perché essa “si ritrae, fugge, non si vuol lasciare definire; dunque diventa assente per quanto esistente”.Questo non vuol dire che dobbiamo rinunciare al tentativo di conoscerla, o meglio, di interpretarla, perché sarebbe un’autentica follia. Piuttosto, dobbiamo essere consapevoli di poterla cogliere solo in alcuni aspetti e per fasi circoscritte, secondo particolari tagli interpretativi, consapevoli della sua “ineliminabile indefinitezza” (quella del suo movimento perpetuo squilibrante), mutevolezza e sfuggevolezza, nella sua assenza suscitatrice di presenza/e pesanti ma instabili. La realtà è un uccello e vola via, cantava Gaber. Per questo, quando sentiamo dire da qualcuno che Marx aveva già previsto tutto, abbiamo la certezza che chi parla non ha capito proprio niente, né di Marx, né della realtà.