Circa 30 anni fa quando molte delle grotte che conosciamo ora neanche sapevamo che esistevano e la speleologia stessa era diversa, forse più “epica” come mi piace immaginarla, 3 ragazzi speleologi Guido Maria Agostini, Massimo Pozzato e Franco Busacca dell’allora Gruppo Grotte Giara Modon, hanno iniziato ad esplorare le grotte della Val Lastaro, una bellissima vale carsica a circa 1.000 di quota che fa un po’ da anticamera per l’Altopiano di Asiago, almeno per chi viene da sud. Tutto è partito dal ricordo di Guido bambino che in villeggiatura in quella valle, aveva notato come l’acqua si infilasse in una fessura orizzontale nera e stretta proprio dietro a dove ora sorge un campo da calcio, ai tempi in cui andare sulle montagne di casa nostra era ancora considerata una grande vacanza. Così, negli anni 80, in un decennio di grandi esplorazioni speleologiche e scoperta di grandi abissi, in 3 partono alla volta di Lastaro e notando i segni di una piena inabissatasi dentro un maestoso meandro, alto almeno 6 metri e largo 2, decidono di concentrare qui i loro sforzi esplorativi. Il meandro, che più esattamente si chiama Buso delle Frane ed era stato rilevato nel 1970 dal Club Speleologico Proteo di Vicenza, dopo una quindicina di metri era quasi completamente tappato da detrito ed immondizia portati dentro dall’acqua. Ci si mette così a scavare inseguendo le tracce lasciate dall’acqua e l’avventura ha inizio! Si monta anche una teleferica d’acciaio per agevolare la movimentazione dei secchi e si costruisce uno sbarramento con pali di legno per fermare i sassi e poter scavare verso il basso… alla ricerca del pavimento del canyon. Ma non tutte le ciambelle riescono col buco, e dopo mesi di scavo la grotta stringe, i mezzi di allora erano poco efficaci e a un certo punto si disse stop ai lavori. La prosecuzione di quel meandro rimase una zona bianca nella carta geografica del sottosuolo di Lastaro. Tuttavia, mentre il sogno esplorativo del Buso delle Frane o “Perestroika” come l’avevano ribattezzata i ragazzi, sembrava essere finito, se ne fa strada un altro: là vicino, sul prato, Guido scopre un buchetto da dove spira aria calda. Il pertugio viene aperto, si riesumano pian piano le pareti di un ambiente sotterraneo… quel buchetto in qualche mese diventerà la Grotta Raissa Gorbaciova, un altro canyon che solca il sottosuolo di Lastaro e finisce chissà dove. Si perché ad un certo punto anche questa grotta mostra le sue solide porte fatte di blocchi rocciosi che ostruiscono il passaggio e davanti a queste barriere si chiude il sipario delle esplorazioni del 1988.
Passano decenni di oblio e complice una delle domeniche più piovose della scorsa estate, il Gruppo Speleologico CAI Marostica i barbastrji accompagnati da un reduce del primo trio esplorativo speleo (Guido), parte alla volta di Lastaro. Quel giorno dalla vicina Val Biancoia si è attivato un copioso torrente che dopo una curva secca, ha puntato dritto sulla depressione che si trova nel boschetto a valle del campo da calcio entrando anche nella Raissa Gorbaciova; questa grotta era diventata un formidabile scarico per l’acqua e nei 26 anni che erano passati dall’ultima volta che Guido ci era stato dentro, aveva scavato ed allargato molti passaggi. Il primo giorno in cui siamo andati lassù, abbiamo potuto vedere con i nostri occhi come l’acqua di due valli, quella della Biancoia e quella di Lastaro vada a finire tutta là, proprio dove ci sono le grotte ed altre doline. Sotto ci deve essere il mondo! Abbiamo pensato, non solo guardando il comportamento dell’acqua, ma ascoltando anche il respiro profondamente freddo di quella terra. Non vi era più traccia di quella fessura nera vista dal Guido bambino. Non ve ne era neanche negli anni 80 quando Guido aveva ormai 30 anni ed era tornato lassù da speleologo. La morfologia del posto nel tempo è stata stravolta; comunque, quel giorno di fine agosto 2014, coincidente con quella grande bevuta fatta dalle bocche nere dei pascoli, ha segnato l’inizio ufficiale della speleologia marosticense in Lastaro. C’è stato un giorno anzi ancora prima, un giorno con la neve accecante che mi scricchiolava sotto gli scarponi, che sono andata là in quella valle a cercare le grotte. Sono passata sopra alla Raissa senza vederla perché completamente ricoperta di neve e mi sono affacciata a quella soglia nera che si apre su una delle paretine dietro il campo da calcio. Ho percorso con cautela infinita l’involucro di ghiaccio che mi separava dalle pareti della grotta finchè mi sono fermata nel punto dove partiva il cavo di una teleferica. Sono rimasta là per un po’ a capacitarmi del tempo che si era fermato. Bloccato da mille domande che andavano avanti ed indietro su quel cavo d’acciaio che andava a tuffarsi in un ammasso di ghiaia e immondizie. Del vecchio sbarramento di legno non c’era traccia, sembrava che tutto fosse destinato ad essere perennemente inghiottito dentro le parti sconosciute della grotta. Rimaneva solo una uniforme lingua di sassi bloccati dal freddo.
Dopo questo mio primo sopralluogo ha fatto seguito quello di una squadra di barbastrji, arrivata in valle proprio in quel fatidico giorno di pioggia di agosto. Oltre a me: Guido, Maurizio (Buba) Mottin, Andrea (Icio) Grigoletto, Massimo Santini e Silvia Carlesso. Pioveva e pioveva e pioveva e più pioveva più non ci importava. Vado molto fiera del lato selvaggio che la pioggia tira fuori da me. E’ come ritrovare una natura persa. In quel giorno di pioggia quei pochi metri dietro il campo da calcio brulicavano di speleologi. Alcuni dentro le grotte, altri in battuta nel bosco. Quella mattinata si è conclusa a formaggi e soppressa in una calda malga della vicina Biancoia e mai tappa fu così propizia perché fu proprio l’attardarsi davanti ad un buon piatto che ci ha permesso di vedere al nostro rientro l’innesco del torrente che finiva per inghiottirsi pochi metri prima della Raissa.
Credo già la settimana dopo ci si è organizzati con un’altra squadra, armata di tutto quanto poteva servire alla ripresa delle esplorazioni. Partecipanti: io, Guido Maria Agostini, Luca Miotto, Maurizio Mottin, Ludmilla Harabajiu, Massimo Santini. Avevamo deciso di riprendere le esplorazioni del canyon, il vecchio Buso delle Frane o “Perestrojka”. Quel giorno sembravamo una squadra di operai impegnata a rifar su una casa abbattuta da un tornado, freneticamente quasi come avessimo solo poche ore davanti. Chi risistemava l’accesso della grotta per renderlo più agibile, chi rimetteva in funzione la teleferica e scantonava qualche spuntone di roccia per renderla più efficiente, chi raccoglieva e separava i rifiuti, chi, spostava i primi sassi che ci separavano dall’ignoto dopo aver scelto, su suggerimento di Maurizio, il punto dove avremmo provato a passare oltre. Quel giorno ci fu chiara anche una cosa: alcune piene potevano allagare completamente la grotta. Lo testimoniavano bene i rami sospesi sul soffitto a metri di altezza dalle nostre teste.
A queste prime uscite ne hanno fatto seguito altre. Ricordo i nostri Sergio Tasca e Maria faccio sdraiati nelle parti terminali del meandro a direzionare la carrucola e Silvia Carlesso con il suo impermeabile rosso, madido delle gocce di stillicidio che cadevano copiose proprio sul tiro della teleferica. Secchi che andavano e che tornavano indietro vuoti, il meandro che si spogliava poco a poco lasciandosi guardare e … scendere. Poco dopo le prime uscite infatti fu necessario mettere una corda fissa per scendere in sicurezza un primo salto di alcuni metri. Ma ci fu una giornata più emozionante delle altre, quella che ci fece ammalare irreparabilmente del desiderio di conoscere cosa si celasse oltre quel deposito. C’erano oltre a me gli assidui già citati prima: Guido, Silvia, Maurizio, Massimo più Aurora Costenaro. Massimo, già dalla volta prima continuava a dire che “qua dietro sembra ci sia il vuoto” per come “suonavano” i sassi e dovetti dargli ragione quando, messami a rimuovere dei sassetti infilati in uno strettissima sezione del meandro ho scorto il nero di un nuovo ambiente. Avevi ragione Massimo! Ca***! Ho continuato a togliere sassetti e ad allargare quella macchia di colore nero. Guido era dietro di me insieme a Massimo, ero emozionata ed entusiasta, per me, per lui e per tutti noi. Sdraiata pancia sulla terra umida, fin dove non passava più nemmeno il casco ho abbattuto lo sbarramento di sassi ascoltando il tonfo di quelli che cadevano in quell’oltre dove ancora dovevo affacciarmi. Una miriade di rivoli d’aria fredda e polvere mi hanno investita. Ho aperto quanto bastava per sbirciare qualcosa, ho tolto il casco ed ho guardato. Davanti a me il deposito era come tagliato in una parete verticale alta un paio di metri. Davanti, il meandro continuava, sembrava ci fosse una via anche a sinistra, sul pavimento una lingua di ciottoli lavatissimi e molto selezionati. La grotta si era aperta ed andava avanti. Esausta, lascio spazio a Massimo che cerca di rendere transitabile il passaggio. Guardo Guido con addosso il suo vecchio casco rosso, gli sorrido, lui mi da una pacca su un braccio e penso: questo momento da solo vale la nascita dei barbastrji. Con il viso ricoperto di terra, i guanti bucati e qualche ferita di cui la soddisfazione non mi fa preoccupare, mi trascino su, oltre il salto verticale, e poi nella parte iniziale orizzontale del meandro. Racconto agli altri tutto mentre fuori è già buio. La stanchezza si fa sentire, il ritmo cala bruscamente e quasi dobbiamo tirare per i piedi Massimo che vorrebbe a tutti i costi poter passare in quella serata. Ma sarebbe stato impossibile. Quella sera dalla grotta alla macchina, poche decine di metri, credo il sacco di averlo trascinato sull’erba. Ero esausta. Tutti lo eravamo. E come se non bastasse ci punzecchiavamo a vicenda sulle meraviglie che avremo trovato oltre quella finestra. Come si fa a lasciare le cose così? Come anzi soprattutto, quando? Torniamo. Quella sera per festeggiare siamo andati la vicino a mangiare una pizza. Già fantasticavamo sul nome dei nuovi ambienti e su quello con cui cambiare il vecchio e poco appropriato “Buso delle Frane”. “Dai”, ci provocavamo, “ci rifocilliamo con una pizza poi torniamo a scavare!” Sono sicura che almeno un paio della combriccola lo avrebbero fatto davvero. Sono sicura perché una di queste persone sono io, l’altro, lo abbiamo dovuto tirare fuori a forza dalla grotta per andare a mangiare, dopo 8 ore passate a scavare, tirare secchi, sistemare sassi…
Il “quando?” fu la parola più frequente nei nostri discorsi dei giorni successivi. Quando torniamo? Quando? Riusciamo ad organizzarci per un mercoledì e riusciamo ad essere ben 6! Stavolta si è aggiunto Piero Manghisi, il nostro esploratore di punta nel marosticense, lui che insieme alla nostra Marina Presa hanno tirato fuori la grotta più grande di Marostica: il Buso Blade. Tutti abbiamo smania. Questa è la giornata in cui cammineremo oltre la finestra. Vanno avanti Piero e Massimo. Aspetto, aspetto. L’aria fredda esce dalla grotta con intensità sempre maggiore. Poi verso pranzo arriva lo stop che precede il superamento del passaggio che ci separa dall’ignoto. Legato con una corda, è Piero che scivola dentro per primo. Io, noi, tutti, vorremmo avere i suoi occhi. Dietro c’è Massimo e lo sprono a dirmi cosa vede. La mia insistenza viene stoppata quando mi dice che Piero è andato così avanti che non si sente più. Ma è uno scherzo! Brutti cafoni!!! Per non dire di peggio! Dopo un tempo che mi sembrerà interminabile arriva finalmente un resoconto veritiero: Piero è andato avanti alcuni metri trovandosi di fronte a due vie: un cunicolo che sembra essere la normale prosecuzione del canyon ed un laminatoio sulla sinistra in basso. L’aria fredda viene tutta da quest’ultimo. In fondo si vede un po’ di nero in mezzo a blocchi incastrati. Anche l’acqua si infila là. Dunque ora la grotta che fino a qualche settimana prima era lunga una quindicina di metri camminabili, ora continuava con un salto verticale di qualche metro, poi ancora un po’ di meandro orizzontale, un altro saltino di 2 metri ed infine il meandro che riparte biforcandosi in due vie a 90°. Su cosa ci sia dopo ci abbiamo consumato la fantasia. La nostra fantasia ne ha fatta di strada in quella grotta, forse è già arrivata alle sorgenti dell’Oliero facendo almeno 5 km e 700 m di dislivello.
Anche i nostri “apprendisti” speleologi sono venuti a Lastaro per proseguire le esplorazioni nelle uscite che sono seguite il superamento della famigerata finestra: Davide Bertinazzo, Michela Valerio, Ilaria Ghiro… anche loro hanno scritto un pezzo di geografia ipogea. Di quel giorno ricorderò anche la torretta dello scivolo del parco giochi adibita a tavolino con dolci e salati, bottiglie e lattine in ogni dove. C’erano anche Marina, Maurizio, e poco prima erano venuti Sergio e Maria. Era domenica e io e Marina abbiamo iniziato a progettare di tornare là anche il giorno successivo per andare avanti nel cunicolo visto che lei sarebbe stata a casa dal lavoro. Quel lunedì pioveva, come quasi sempre ha fatto nella pazza estate passata. Siamo partite ed abbiamo beccato giusto uno spiraglio di sole che ci ha permesso di cambiarci all’asciutto. La macchina era piena di tavole, traverse, chiodi, sega da legno… Nel cunicolo c’era terra sospesa e dovevamo metterla in sicurezza costruendo un tunnel. Quel giorno io e Marina da sole abbiamo aperto quasi completamente il cunicolo, ci siamo infilate dentro fino quasi alla curva senza tuttavia riuscire a vedere oltre. Per fortuna Marina ad una certa ora doveva rientrare perché probabilmente poche ore dopo la nostra ritirata la bomba d’acqua che aveva fatto delle strade un fiume proprio mentre tornavamo a casa, ha attivato un torrente in Val Lastaro che si è andato a scaricare nella nostra grotta allagandola completamente e modificandone di molto la morfologia. Me ne sono accorta qualche giorno dopo quando, in vista di un campo speleo che avevamo in programma di fare proprio lassù, sono tornata alla grotta per mettere delle staffe e altre corde per rendere piu comoda la progressione. Ho lasciato l’auto al parcheggio del campetto, ho costeggiato a piedi come al solito il campo da calcio finchè alla curva ho visto l’erba che era stata schiacciata dall’acqua. Ho seguito la scia ed il mio sospetto è stato confermato. Una colonna d’acqua alta oltre mezzo metro era entrata in grotta. Ha cancellato i gradini che avevamo fatto all’ingresso, ha tirato dentro sassi e terra, ma per fortuna i passaggi ce li aveva lasciati aperti. Gli ancoraggi delle corde erano un grumo di fieno, schiuma sulle pareti i secchi erano spariti e le corde erano state tese come quelle di un violino, infilate giù per il laminatoio soffiante.
Il 18 e 19 ottobre, al primo campo speleo in Val Lastaro organizzato dai barbastrji, abbiamo fatto un grande lavoro per ripristinare le condizioni originarie della grotta e mettere in sicurezza i passaggi. Eravamo in 8: io, Maurizio, Guido, Silvia, Massimo, Davide Bertinazzo, Grazia Renda e Stefano Ternici. E’ stata una due giorni intensa ed intensamente divertente. I primi speleo sono arrivati in valle sotto le nebbie di un tipico pigro mattino lastaresco. Sono andati su prima per armare e scendere una grande voragine profonda 20 m e larga almeno 6 che si trova poco sopra il Buso delle Frane. Questa grotta, censita sotto il nome di Busa dell’Asinello è davvero imponente e potrebbe portarci nello stesso posto dove stiamo per arrivare passando per le Frane. L’hanno scesa anche Grazia e Stefano, lei alle prese con il suo primo pozzo, lui alla sua prima uscita in grotta. Sono stati bravissimi. Questo campo è stata anche l’occasione per fare formazione. Grazie mille a Silvia Carlesso che mi ha dato una mano fondamentale a seguirli lungo questo pozzo quasi vergine. E grazie anche al nostro Davide Bertinazzo che ci ha fatto avere per sabato sera un appartamento alle Laite come base logistica del campo! Quella sera, dopo un abbondantissimo aperitivo abbiamo avuto il coraggio di prenderci anche una pizza. Alle 23 credo eravamo già tutti a letto per la stanchezza, in questo appartamentino con vista sulla grotta… Sembrava avessimo fatto uno di quei festoni che si tirano fino all’alba del giorno dopo!
Durante il campo ci siamo dedicati ad andare avanti anche per un buchetto individuato da Massimo Santini alla base del primo salto del Buso delle Frane. Quello che all’inizio sembrava un buco insignificante, un intercapedine tra i sassi sembra si stia rilevano un comodo bypass per il laminatoio soffiante! Lo vedremo alla prossima! Ogni uscita ci riserva delle sorprese. Sul finire del campo ad esempio, proprio nel momento in cui raccoglievamo le cose per portarle in macchina Maurizio (Buba) individua l’ingresso di un nuovo possibile pozzo! L’ultima sorpresa è stata invece qualche giorno fa quando andando a montare le strutture che stabilizzeranno i depositi in previsione di altre piene, abbiamo notato come la grotta abbia cambiato respiro. Entrati ormai ufficialmente nella stagione invernale, l’aria fredda ha smesso di sbuffare fuori annoiati discorsi lasciando spazio alle correnti esterne che dopo aver giocato con l’erba dei pascoli, si inabissano nel Buso delle Frane asciugandone le pareti. Torneremo su, al più presto prima che arrivi la neve ed il ghiaccio a porre il loro stagionale sigillo sulle grotte di Lastaro, proprio come la prima volta che sono stata lassù. La speleologia ha ripreso ad interessarsi dei mondi che partono da questa valle. Non li faremo più aspettare.
Valentina Tiberi, Gruppo Speleologico CAI Marostica i barbastrji
www.speleologia.biz
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