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Ripensare la difesa italiana: intervista al dott. Fabrizio Coticchia

Creato il 19 maggio 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Francesca Palermo e Maria Serra

Da mesi è al centro del dibattito nazionale il progetto di ristrutturazione delle Forze Armate proposto dal Ministro Giampaolo Di Paola, una riforma che mira ad una sostanziale revisione della spesa grazie alla riduzione, nell’arco dei prossimi 5 o 6 anni, di circa un terzo delle infrastrutture, coinvolgendo tagli ai comandi territoriali e logistici, all’Aeronautica e alla Marina (con la riduzione della flotta dei caccia Typhoon ed F-35, di fregate, corvette e sottomarini). Una razionalizzazione che ha suscitato non poche polemiche a causa della possibile perdita di capacità operative, ma che nell’ottica del Ministro Di Paola si rende necessaria per garantire migliore efficienza e, al tempo stesso, per salvaguardare gli interessi dell’industria italiana.

Ripensare la difesa italiana: intervista al dott. Fabrizio Coticchia
Qualsiasi riduzione dei numeri, tuttavia, dev’essere accompagnata da una riflessione più profonda che coinvolga la strategicità, la cultura della difesa e, più in generale, il ruolo dell’Italia. Ne abbiamo parlato con il dott. Fabrizio Coticchia, Research Fellow presso l’International Research Laboratory on Conflict, Development and Global Politics – CDG Laboratory, DIRPOLIS della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che abbiamo incontrato a Firenze al termine dell’incontro “L’Italia e il Mondo Nuovo” all’interno della programmazione del LiquidLab festival. Il dott. Coticchia, esperto di teoria delle relazioni internazionali, studi strategici, development and institutional change, ha lavorato presso il Peace Research Institute di Francoforte e i suoi articoli sono apparsi su numerose riviste nazionali e straniere, tra cui L’Espresso, Il Sole 24 Ore, Il Mulino, Quaderni di Scienza Politica, European Security . Recentemente ha pubblicato con Piero Ignazi e Giampero Giacomello “Italian Military Operations Abroad: Just Don’t Call it War“.

Da anni si parla della necessità di dover riformare il comparto della difesa nazionale, a causa degli alti costi di gestione tra missioni, nuove commesse, etc. Il Ministro Di Paola ha dunque recentemente proposto una sua riforma basata su tagli al personale e ai programmi. Punti salienti della riforma sono: l’introduzione di forme di flessibilità della programmazione finanziaria; una graduale revisione numerica del personale militare e civile che, nel lungo periodo (2024), ha l’obiettivo di ridurre il personale militare a 150 mila unità ed a 20 mila unità quello civile; un riordino complessivo dell’assetto organizzativo del Ministero della Difesa; una rimodulazione dei programmi di ammodernamento tecnologico. Citando l’Amm. Di Paola si potrebbe riassumere la riforma nel motto: “Meno generali, meno ammiragli, più operatività e tecnologia”. Cosa pensa dell’attuale proposta e, soprattutto, pensa che questa possa fornire maggiori professionalità ed efficienze al nostro comparto nazionale?

La riforma del sistema della difesa, più che essere una scelta da parte del Ministro Di Paola è una necessità per sanare lo squilibrio che esiste nella cosiddetta “funzione difesa”, ossia nei costi relativi al funzionamento delle forze armate (personale, addestramento, acquisizione e manutenzione degli equipaggiamenti, investimenti in infrastrutture militari). I dati sono certamente complessi da analizzare e anche gli studi internazionali – come quelli condotti dal Sipri – utilizzano numeri diversi, ma ciò che chiaramente emerge è uno squilibrio attorno al 65% di spese per il personale e le restanti, appunto, spese per funzioni di esercizio ed investimenti. Ciò che voglio dire è che l’Italia si porta dietro l’eredità del sistema di difesa militare della Guerra Fredda e paghiamo praticamente circa 30mila uomini che si alternano nelle missioni militari, mentre il resto dei 180.000 effettivi rappresenta la componente “stanziale”. Il dibattito in merito è aperto dal 1991, quando fu presentato il nuovo modello di difesa. Da allora l’Italia è stata impegnata in una vasta quantità di missioni e ancora nel 2001/2002 (data dell’ultimo Libro Bianco) vennero realizzate riforme importanti, anche in linea con le nuove sfide di difesa globale. Tuttavia il cambiamento sostanziale deve ancora arrivare, nel senso che l’Italia non può più sostenere, soprattutto da un punto di vista economico ed operativo, il modello esistente. La riforma è necessaria perché i costi di mantenimento della struttura attuale non sono sostenibili, con – come posto nella domanda – un minor numero di ammiragli e generali che in termini assoluti non è così lontano dal numero dei generali americani. Tuttavia, al di là dei numeri, e delle pressanti necessità di efficienza (e soprattutto di operatività), credo che serva un dibattito complessivo sulla riforma, innanzitutto dal punto di vista strategico. Ciò che manca è un linguaggio comune attraverso cui discutere delle questioni connesse alle missioni. Pensiamo alla missione in Libia: il tentativo del Ministro La Russa di promuovere trasparenza sulle missioni, parzialmente intrapreso in Afghanistan, è fallito con la guerra in Libia, rispetto alla quale non abbiamo avuto alcuna informazione puntuale e dettagliata. Osservando semplicemente il sito del Ministero della Difesa britannico o francese erano a disposizione aggiornamenti quotidiani sulle operazioni in Libia. Non possiamo dire lo stesso nel caso italiano. Non si tratta quindi di eliminare solo gli squilibri che pesano sui conti, ma anche capire quale linea di politica di difesa adottare; occorre cioè un processo complessivo teso a promuovere una effettiva cultura strategica nazionale. Si tratta, ovviamente, di un discorso di medio-lungo periodo che non si può esaurire in questa sede, ma che è necessario affrontare se davvero si vuol riformare il sistema della difesa italiano.

Se si va a ben guardare il nostro Paese è comunque uno degli Stati che spende meno nella sicurezza e nella difesa (oltre 20 miliardi di euro, pari a 0,9% del PIL contro una media europea dell’1,61%). A fronte del generalizzato aumento della spesa militare a livello globale (Russia, Cina, Iran, Israele.. finanche l’Azerbaijan) e di fronte alle numerose minacce alla sicurezza – non solo a più livelli regionali, ma anche più globali –, non pensa che ci sia dunque uno scarto eccessivo tra riforma della difesa e necessità di mantenere alti livelli operativi, memori soprattutto della strategicità geopolitica del nostro Paese evidenziata lo scorso anno nella guerra in Libia?

Ripensare la difesa italiana: intervista al dott. Fabrizio Coticchia
Anche in questo senso credo sia essenziale parlare di trasparenza. Alcuni si sono lamentati delle informazioni limitate presenti nell’ultimo rapporto sull’esportazione di armamenti. L’Italia, come dicevo nel mio intervento alla conferenza “L’Italia e il Mondo Nuovo”, esporta il 60% delle armi a Paesi che non fanno parte nè dell’OSCE né della NATO (penso ai Paesi del Golfo e all’Algeria). Dopo quello che è successo in Libia (e in alcune aree dell’Africa) credo che parlare di questi temi, ed approfondirli adeguatamente, sia necessario. Al tempo stesso ritengo sia fondamentale promuovere un dibattito sulla cultura della sicurezza e della difesa anche a partire da temi come l’importazione e l’esportazione di armamenti.

Mi chiedeva dell’atteggiamento tenuto dal nostro Paese rispetto alla guerra in Libia. Questa è una bella domanda. Non si parla più del conflitto in Nord Africa e poco si conosce della instabilità che regna nell’area. Eppure, attraverso l’operazione “Cirene”, l’Italia ha deciso di inviare in Libia un centinaio di militari per l’addestramento delle forze locali di polizia e di sicurezza. Dati gli stretti legami tra Berlusconi e Gheddafi ed i numerosi accordi siglati tra i due Paesi prima della guerra, alcuni commentatori hanno evidenziato una forte discontinuità nelle scelte di politica estera e di difesa italiana. In realtà, pur con le dovute peculiarità del contesto libico (a partire proprio dal rapporto tra i due leader), l’operazione condotta delle forze armate italiane insieme agli alleati si colloca a mio avviso in piena continuità con le tradizionali scelte compiute dall’Italia in epoca post-bipolare. Vi sono numerosi tratti comuni con le altre missioni condotte dalla fine della Guerra Fredda. Mi spiego meglio: penso alla mancanza assoluta di trasparenza nella conduzione dell’operazione militare, oppure alla pressione diplomatica volta all’adozione di un framework multilaterale, linee guida cruciali della politica di difesa italiana. Dopo i primi giorni di intervento italiano in Libia, infatti, il nostro governo ha fatto di tutto per attribuire il cappello della NATO all’operazione intrapresa dagli alleati. È in questo framework multilaterale che l’Italia può giocare un ruolo importante. Stiamo parlando di un tema classico della letteratura nazionale, ovvero il rapporto fra rango e ruolo: noi cerchiamo di assumere un rango maggiore rispetto alle nostre capacità giocando in un contesto più ampio (quale quello UE o delle altre alleanze internazionali). Altro fattore di continuità che rilevo nell’intervento è la motivazione/giustificazione che viene attribuita alla missione: nel caso della Libia ci si è appellati all’emergenza umanitaria, alla “responsibility to protect”. La definizione del concetto di “missione di pace”, di “intervento umanitario” ha caratterizzato praticamente ogni intervento militare dell’Italia, a prescindere dalla natura stessa dell’operazione. Ovviamente questa formula viene spesso usata per giustificare le missioni di fronte all’opinione pubblica e per ottenere un ampio consensus bipartisan. Ma dal punto di vista operativo tali interpretazioni hanno spesso conseguenze disastrose. La definizione di un’operazione come “missione di pace” influenza la modalità con la quale viene pianificato l’intervento, in termini di equipaggiamento, regole d’ingaggio e caveat. Inviare i soldati solo per essere “presenti” sul terreno, non fornendo mezzi adeguati al contesto può avere gravi conseguenze in termini di sicurezza. L’esempio di Nassirya è eclatante proprio in questo senso. La missione in Iraq è stata definita addirittura come “aiuto umanitario”, e l’iniziale struttura dell’operazione (mezzi, collocazione delle basi, protezioni) era drammaticamente plasmata da tale interpretazione. Altro caso emblematico è la missione “Nibbio” in Afghanistan nel 2003, definita dall’Italia come “peacekeeping” quando i soldati delle altre nazioni svolgevano, invece, operazioni “search&destroy” al confine tra Pakistan e Afghanistan. Questo tipo di retorica bipartisan continua senza alcun dubbio ad influenzare il dibattito politico nazionale. Anche la Libia ne è stata un esempio. L’ultimo elemento di continuità che vorrei sottolineare prima di passare alla domanda successiva è la centralità delle “nuove minacce” non militari alla sicurezza nazionale che la missione in Libia ha evidenziato: ovvero l’ondata migratoria proveniente dal Nord Africa, tema che ha assunto rilevanza centrale nel dibattito pubblico. Anche per quanto riguarda quest’aspetto si può rinvenire una linea di continuità con quello che è accaduto durante l’Operazione Alba del 1997 e durante le missioni che si sono alternate nel caso del Kosovo: anche lì la minaccia era l’ondata di immigrati. In merito a tale argomento penso sia doveroso per tutta l’opinione pubblica italiana guardare i documentari che sono stati girati recentemente, tra cui “Mare chiuso”, che denuncia le conseguenze dei respingimenti verso la Libia effettuati nel 2009 dal Governo Italiano. Centinaia di persone sono state maltrattate, riportate in Libia, messe in strutture di sicurezza (chiamiamole anche prigioni) al confine del deserto o, ancora, abbandonate nel deserto. Molte di queste persone avevano lo status di rifugiato, ma gli è stato riconosciuto solo successivamente.

Sempre a proposito di strategicità, nel corso degli ultimi mesi una delle più importanti aziende del nostro Paese, parliamo di Finmeccanica, è stata al centro di varie polemiche politiche. Tralasciando le querelles ai palazzi romani, la nostra industria della difesa è una delle più importanti al mondo e, nonostante gli scandali, sembra godere ancora di ottima salute. Finmeccanica rappresenta una delle principali risorse del Paese perché è uno dei pochi grandi gruppi transnazionali a base italiana nel settore delle alte tecnologie. Lei ritiene che un rilancio della nostra economia in un momento così delicato possa anche avvenire attraverso una riqualificazione di un asset – quello della sicurezza e della difesa – così strategico per il nostro Paese?

Al di là delle note difficoltà che Finmeccanica ha avuto, credo anche qui che aprire un dibattito nazionale in merito al complesso militare-industriale sia necessario. Al tempo stesso sarebbe opportuno sollevare una discussione approfondita sulla nuova legge di protezione degli interessi nazionali, ossia sul fatto di impedire ad aziende o a Stati esteri di intervenire su quelli che sono gli asset strategici, quali potrebbero essere quelli della difesa e dell’energia. Una legge molto importante, e in un certo senso innovativa, per l’Italia. Preliminarmente, reputo vitale definire e comprendere cos’è un asset strategico per l’interesse nazionale. Come evidenziava provocatoriamente Martha Finnemore: definire l’interesse nazionale è ancor più importante che difenderlo.

Infine, negli ultimi mesi l’opinione pubblica ha molto dibattuto sul problema relativo all’acquisto degli F-35. Allargando lo sguardo al panorama europeo, il programma F-35 costituisce una forma di cooperazione industriale senza precedenti nel settore della difesa; il velivolo costituisce certamente un’opportunità per le imprese europee che partecipano al consorzio a guida statunitense ma, ora che la crisi economica richiede una maggiore integrazione a livello europeo, sarebbe possibile per il futuro preferire un progetto di cooperazione a carattere esclusivamente europeo che mantenga i requisiti di interoperabilità in ambito NATO ma che consenta alla PCSD di razionalizzare le spese militari e di ridurne l’impatto sui singoli bilanci nazionali?

Anche la questione degli F-35 si deve inscrivere in un dibattito più ampio relativo alla trasformazione della difesa nazionale. Al di là del loro costo elevato, gli F-35 hanno numerosi problemi tecnici, come quelli relativi alla copertura stealth, che suscitano profondi dubbi (anche negli Stati Uniti) sulla loro efficienza. Credo che occorra fare ulteriori test sugli F-35 per fornire risposte tecniche definitive. E questo allunga ulteriormente i tempi già dilatati. In ogni caso, nel corso della guerra in Libia i Tornado hanno dato una buona prova dal punto di vista tecnico. Ma la decisione sugli F-35 deve essere collegata ad una riflessione strategica sul ruolo internazionale del nostro Paese. Se l’Italia, come ha recentemente sostenuto il Ministro Terzi, è una potenza globale con interessi globali, allora avere un caccia come l’F-35 può essere anche comprensibile (anche in vista di sostituire gli AMX e gli AV-8 Harrier), per quanto discutibile, dato il grave contesto economico attuale e le possibilità di impiegare ancora i mezzi esistenti (pur con caratteristiche un po’ diverse). Se l’Italia non sposa l’idea di svolgere un ruolo di “potenza globale”, le cose cambiano. Ma, ripeto, tale scelta deve essere condizionata da una riflessione strategica più ampia sul ruolo dell’Italia e sulla sua politica di difesa. Che richiede, in ogni caso, una profondissima revisione.

* Francesca Palermo è Dottoressa in Scienze Giuridiche (Università di Siena),


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