L'agricoltura non basta
Sembra proprio che i meridionali debbano decidersi a tornare agli agresti costumi di un tempo. Da ogni parte si moltiplicano i consigli, tra infastiditi e perentori, che suggeriscono a chi è rimasto sotto il Garigliano di abbandonare i "miti" (anzi, la "sottocultura") dell'industrializzazione, e di guardare invece alle più antiche e autentiche risorse dell'agricoltura e del paesaggio mediterraneo come fonti di reddito. Anche nel tono di questi discorsi si registra un marcato mutamento: e alle dichiarazioni di chi si richiama ancora e sempre al migliore interesse dei meridionali si intreccia l'insofferenza di chi apertamente si dice stufo di pagare per questo Mezzogiorno, che costa così caro e che dà così poche soddisfazioni.
Chi, contro le "cattedrali nel deserto", esalta il Mezzogiorno agrario e le sue risorse ancora inutilizzate di espansione turistica, può certo contare sul favore delle mode ecologiche correnti, che sembrano aver fornito addirittura il modello di certe invettive contro i grandi impianti, gli inquinamenti, la distruzione di colture pregiate che avrebbero trasformato le più belle regioni meridionali in una conurbazione di Manchester o di Sheffield novecentesche. Ma chi non ha dimenticato che cos'era il Mezzogiorno agricolo e turistico da cui è partita la battaglia meridionalistica ha il diritto di chiedere precisazioni e chiarimenti.
Davvero riteniamo che l'agricoltura meridionale, sulla quale grava ancora una percentuale di addetti pari al 28,1 per cento della popolazione attiva (in confronto al 15,5 per cento della media italiana; al 10,8 della Francia; al 7,1 della Germania; e al 2,7 della Gran Bretagna), possa produrre reddito in misura adeguata ai bisogni di una popolazione che tuttora raggiunge il 34,3 per cento della popolazione italiana?
Non si dimentichi che i prodotti tipici dell'agricoltura meridionale incontrano una concorrenza crescente da parte dei nuovi membri mediterranei della Comunità europea. Certo, vi è spazio per una riconversione strutturale che sviluppi anche nel Mezzogiorno quelle produzioni agricole di base, dalla moderna cerealicoltura alla zootecnia, che godono oggi di più favorevoli condizioni di mercato e di maggiori sostegni della Comunità europea: ma prima di affidare a queste speranze tutto l'avvenire delle nostre regioni si facciano valutazioni più concrete e realistiche, che tengano conto insieme delle difficoltà che l'agricoltura incontra in tutti i Paesi avanzati e di quelle specifiche di territori così gravemente sfavoriti, nonostante tutti gli sforzi, in confronto alle ricche pianure dell'Europa continentale. Anche i disegni di chi prospetta sviluppi finora trascurati dell'industria piccola e media, dovrebbero confrontarsi con le realtà della concorrenza che i paesi del Terzo Mondo esercitano su settori come quelli tessili e alimentari, e che hanno costretto anche i maggiori Paesi industriali a difficili processi di conversione.
E' troppo facile attribuire la scelta delle industrie di base ad alta intensità di capitale ai soli capricci politici e all'affarismo di gruppi corrotti e di corruttori. Chi e quanti siano costoro accerti la Magistratura, e provveda a termini di legge. Ma si vada cauti a credere che sarebbe bastato volere la piccola e media industria per farla sorgere dove non è sorta nonostante gli incentivi, i crediti agevolati, ecc. Di solito, si vede in questo la riprova della incapacità dei meridionali a inserirsi in una seria politica dello sviluppo, per mancanza di spirito imprenditoriale, di "cultura industriale", ecc. Ma sta di fatto che nel Sud hanno scarseggiato non solo gli imprenditori meridionali ma anche i settentrionali: anch'essi respinti dalle difficoltà che inducono Zappulli alla pessimistica conclusione che "il Sud non si sviluppa perchè non è sviluppato". E' proprio questo il circolo che il meridionalismo classico ha cercato di spezzare: e se non si può certo gridare al trionfo delle sue indicazioni, è almeno altrettanto vano sperare che l'industria si trasferisca "naturalmente" nel Mezzogiorno, quando piacerà alle leggi dell'economia di mercato di stabilire che l'ora è finalmente venuta.
Quest'ora fu attesa per qualche secolo, prima che si iniziasse 1'intervento straordinario: e credere che possa suonare spontaneamente adesso, in tempi di così grave difficoltà Per tutti i Paesi industrializzati, sarebbe davvero troppo ingenuo. Quando si fanno questi discorsi si richiamano i "tempi lunghi" di Einaudi: ma a me vengono in mente piuttosto le battaglie liberiste per le industrie "naturali", che dovevano trovare nel Paese la materia prima, e che erano considerate solo legittime in un Paese come il nostro. A questa stregua è da dubitare che in Italia sarebbe sopravvissuta la stessa industria della seta, che già nella seconda metà del secolo lavorava in gran parte materie importate.
Tutto questo dovrebbe solo indurre a maggiore cautela prima di accogliere demolizioni senza appello di ciò che nel Mezzogiorno si è fatto durante trent'anni. Ma dietro le demolizioni par di cogliere qualcosa che potrebbe essere assai grave.
I ceti produttivi del Nord, imprenditori e operai, manifestano una crescente insofferenza dei sacrifici richiesti per il Mezzogiorno. Che questi sacrifici non siano stati ampiamente compensati da vantaggi di ritorno per il Nord sarebbe da discutere, come sarebbero da discutere i raffronti con la spesa sostenuta nel primo conflitto mondiale, che, dilatata su un periodo otto volte più lungo e riferita a un reddito nazionale cresciuto di quasi dieci volte in termini reali, perde molto della sua drammaticità. Ma si comprende che in tempi difficili come questi l'appello alla solidarietà con le regioni meno favorite incontri resistenze maggiori in chi ha già tanti problemi da risolvere: e le manifestazioni sindacali per il Mezzogiorno non possono nascondere la realtà delle quote sempre maggiori di reddito che la spinta salariale nell'industria ritaglia a favore delle regioni settentrionali.
E' dunque probabile che l'intervento nel Mezzogiorno debba assumere in avvenire forme diverse: ma se queste forme diverse dovessero solo servire a nascondere un sostanziale disimpegno della collettività nazionale dai problemi del Mezzogiorno, che resterebbe affidato alla beneficenza a buon mercato degli investimenti agroturistici, in attesa che l'industria si decida a rimontare la corrente e a scendere finalmente nel Mezzogiorno, è bene renderci conto che ciò rimetterebbe in discussione alcuni del fondamenti su cui si è costruita la stessa unità nazionale. Quando, nel 1848, la classe dirigente meridionale rinunciò alla creazione di uno Stato liberale nel Mezzogiorno, e optò per la soluzione "albertista", essa fece una scelta che da allora ha determinato tutta la storia del Paese a sud del Garigliano. Allora si decise che il Mezzogiorno avrebbe puntato sullo Stato nazionale come strumento fondamentale per la sua modernizzazione e per il suo inserimento in Europa. Per un secolo l'unità ha funzionato così: e chi guardi al di là delle polemiche utili e necessarie non stenta a riconoscere il senso generale di questo processo. Il culmine più alto da esso raggiunto è stato, probabilmente, l'ultimo trentennio, che ha visto il massimo sforzo mai prodotto da tutto il Paese in nome della "centralità" del problema meridionale. Se i risultati, comunque grandiosi, non sono stati pari alle attese, è dovuto, a mio giudizio, alla difficoltà che una politica meridionalistica doveva necessariamente incontrare senza il sostegno di una programmazione di tutta l'economia nazionale, che è appunto il terreno su cui è fallito il centro-sinistra. Se, dopo tutto questo, al Mezzogiorno dovesse essere riservata solo una forma di "benign neglect", sarebbe un nuovo passo verso quel progressivo svuotamento della nostra esperienza nazionale al quale abbiamo assistito negli ultimi decenni.
di Rosario Romeo (Giarre, 11 ottobre 1924 – Roma, 16 marzo 1987) è stato uno storico e politico italiano, esponente del Partito Repubblicano Italiano e parlamentare europeo.