Rischi e pregi del linguaggio in forma sintetica

Creato il 28 giugno 2012 da Autodafe

di Cristiano Abbadessa

Un paio di riflessioni, in superficiale forma accademica, sull’uso del linguaggio, la capacità di sintesi, i limiti e la forza delle frasi brevi, assertive e semplificate nell’esposizione dei concetti. Riflessioni suggerite, come spesso avviene, da un paio di casuali osservazioni cronistiche.

Primo caso, la polemica (e siamo di nuovo in ambito calcistico) di qualche giorno fa fra Mourinho e Zeman. Il quale Zeman aveva detto in un’intervista, o in più interviste, di non considerare il celebre tecnico portoghese un allenatore di rango, perché nulla insegna ma si limita a gestire. Mourinho, fedele al cliché dell’uomo che non accetta né critiche né giudizi men che entusiastici sulla sua persona, ha risposto in breve: “Non lo conosco. Andrò a vedere che cosa ha vinto come allenatore”.
Ora, a parte il fatto che non credo che Mourinho, che ha allenato in Italia, non sappia chi è Zeman, suppongo anche che proprio per la sua militanza italiana (e addirittura nell’Inter!) il portoghese dovrebbe sapere benissimo perché Zeman non ha vinto nulla e perché per anni gli è stato di fatto impedito di allenare, come sanno tutti coloro che in questo paese seguono minimamente il calcio e ricordano che vi faceva il bello e il cattivo tempo con metodi che definire mafiosi sarebbe generoso.

Ma il vero scivolone di Mourinho sta secondo me nella frase sprezzante, nell’espressione usata. Perché richiama troppo da vicino il “lei non sa chi sono io” e il “ ma chi si crede di essere” degli sketch comici più vieti. Un modo di porsi che in Italia mette subito in ridicolo colui che vi si atteggia. E qui il Grande Comunicatore (per essere tale passa infatti Mourinho) ha forse pagato una scarsa conoscenza non tanto della lingua italiana, che parla benissimo, quanto delle espressioni idiomatiche e dei loro sottintesi.

La risposta di Mourinho a Zeman sta in 64 caratteri spazi inclusi. Potrebbe dunque essere tranquillamente usata su twitter, e sarebbe persino sintetica per questo stesso strumento.
Personalmente, circa twitter ho un’opinione molto simile a quella di Jonathan Franzen. Trovo che sia uno strumento povero, perché non consente di esprimere un concetto e motivarlo, riducendo lo scambio tra intelligenze a una serie di battute prive di spessore argomentativo, destinate perciò a lasciare ciascuno sulle proprie sterili posizioni (sterili perché impermeabili alla fecondazione dell’opinione e dell’esperienza altrui).
Qualche dubbio me lo ha instillato uno dei politici italiani che con più frequenza cinguettano i loro commenti, forse solo per sentirsi al passo coi tempi: mi riferisco a Pierferdinando Casini, che è appunto uno dei pochi politici a usare con frequenza twitter, prontamente ripreso dalle agenzie.
Le dichiarazioni dei politici, per moderne esigenze di comunicazione, non brillano mai per spessore e per ampiezza del ragionamento (l’uso di questa parola, in politica, resta ancorato ai tempi di Ciriaco De Mita, che la intercalava come un refrain): i pochi secondi concessi da un “pastone” del telegiornale, le due righe di un lancio di agenzia o la necessaria brevità di un titolo giornalistico hanno suggerito, pur di presenziare, il ricorso a frasi semplici e concetti banali, spesso di impossibile o imbarazzante approfondimento.
Però, se le dichiarazioni dei politici sono già poco più che tweet, le ferree regole imposte dal social network costringono a qualche adeguamento lessicale. E così il buon Casini è obbligato a rinunciare all’uso di quel termine “irresponsabile” che variamente declinato compare in tutte le sue dichiarazioni su altri media: troppi caratteri sprecati per una parola sola, quindi vocabolo da non usare su twitter.
E, onestamente, devo dire che gli interventi di Casini su twitter ci guadagnano parecchio, se non altro in originalità, rispetto alla brevi ma pompose esternazioni con cui si propone in tv.

Non ci sono considerazioni finali, se non necessariamente scontate. Però i due episodi confermano che a volte è meglio argomentare, tanto per evitare di esprimere con icastica arroganza concetti che, fatti passare in altre forme, potrebbero risultare più digeribili (perché l’italiano ride sì istintivamente del “lei non sa chi sono io”, ma al fondo resta ossequioso verso il potente e il vincente). Ma confermano anche che la comunicazione sintetica nasconde insidie e potenzialità: saper usare le parole giuste diventa in questo caso ancor più determinante per passare da volgari macchiette a raffinati epigrammisti, e viceversa.


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