Riscrivere la memoria: foibe, media e revisionismo storico

Creato il 10 febbraio 2012 da Ilcasos @ilcasos

Una storia di confine

La storia dei territori di confine è sempre complessa e di difficile interpretazione, a causa delle molteplici forze e culture che inevitabilmente entrano in contatto sia culturale che politico, dando luogo ad interessanti interazioni che in molti casi sfociano in aperta ostilità e in scontro per le più svariate cause: economiche, politiche, culturali, linguistiche, etniche. In quest’ottica non fa sicuramente eccezione il confine nordorientale dell’attuale Stato italiano, per secoli territorio di contesa tra differenti organi politici o religiosi. È sicuramente un importante contesto strategico che per quanto riguarda la storia del Novecento ha prodotto mutamenti che hanno provocato non solo trasformazioni e conflittualità territoriali, ma che si sono ripercossi anche a un livello più ampio ed extralocale quale appunto il contesto europeo. Si pensi, infatti, all’importanza che ebbe la questione del confine tra Italia ed Impero austroungarico negli anni del primo conflitto mondiale, oltre alla rilevanza che quei territori “slavi” ebbero nel prestare alle potenze europee il pretesto stesso per scatenare tale conflitto, o ancora, parlando della storia prettamente italiana, l’eco impresso dall’impresa dannunziana di Fiume; per non citare l’intensità che qui ebbe lo scontro tra fascismi europei e forze antifasciste. Per quanto ci riguarda, ossia la questione delle foibe, è doveroso ripercorrere e contestualizzare brevemente il contesto storico politico del confine orientale italiano con particolare riferimento alle regioni dell’Istria, della Dalmazia e della Venezia Giulia.

In seguito alla fine del primo conflitto mondiale, l’Italia era riuscita a completare il suo percorso (imperialistico) risorgimentale, ai danni dei territori del dissolto Impero austroungarico, allargando di fatto il proprio territorio politico su zone in cui gli stessi austriaci non erano di casa, regioni abitate perlopiù da popolazioni “slave”, nella fattispecie sloveni e croati. Su questi territori, soprattutto nella Venezia Giulia, si concentrarono le politiche d’italianizzazione del territorio, politiche non del tutto pacifiche, già sperimentate durante il periodo risorgimentale nelle altre regioni d’Italia e culminate nella lotta al brigantaggio nelle regioni meridionali. Con l’avvento del fascismo e con l’esasperazione delle politiche nazionaliste ed imperialiste, già abbondantemente testate dall’Italia liberale nelle colonie africane, si innescò nei territori del confine orientale italiano una scelta espansionistica tesa ad allargare la zona di influenza italiana: con l’attacco alla Jugoslavia, il 6 aprile 1941, e la conseguente occupazione di circa la metà del territorio sloveno, si procedette alla creazione della provincia di Lubiana, il cui governo fu affidato ad Emilio Grazioli, e alla fascistizzazione forzata del territorio.

Nella percezione razzista dell’Italia fascista, le popolazioni slave venivano considerate nella scala gerarchica poco al di sopra delle popolazioni africane. I crimini commessi nei Balcani dagli italiani nei soli primi due anni di occupazione superarono quelli complessivi dell’occupazione di Libia ed Etiopia, grazie anche all’esperienza genocida acquisita proprio in Africa dai vertici (e non solo) militari italiani, applicata poi su larga scala nei territori balcanici. Se infatti l’occupazione della sola Etiopia aveva portato a 30.000 morti, «più di 50.000 sloveni persero la vita o subirono gravissime offese da parte delle truppe di occupazione italiane, nell’arco di appena due anni»[1]. In Lubiana, ma non solo, si attuò infatti una vera e propria campagna di bonifica etnica volta all’italianizzazione forzata del territorio, svolta anche attraverso l’inserimento di coloni italiani nelle zone a maggioranza slovena o croata. Nel febbraio 1942 il generale Roatta con la famosa circolare n.3C del 1 marzo seguita dai suoi allegati[2], dava chiare disposizioni nella lotta contro i partigiani sloveni, includendo tra queste disposizioni anche la fucilazione di civili ritenuti complici o semplicemente residenti nelle zone attigue ad eventuali azioni di sabotaggio nei confronti dell’esercito italiano, la deportazione di donne, vecchi e bambini, l’incendio e il bombardamento di villaggi, etc.

Un internato nel campo di concentramento fascista di Arbe (Rab, Dalmazia)

Un altro aspetto relativo al confine orientale, ma più in generale alla memoria nazionale collettiva, che la storiografia e soprattutto il dibattito pubblico non hanno preso in considerazione (se non a livello marginale), è la costituzione di vari campi di concentramento per jugoslavi, operativi tra i primi mesi del 1942 e il settembre del 1943, quindi difficilmente attribuibili alla responsabilità nazista. Di questi, il più celebre è il campo di Gonars (a sud di Udine), costruito alla fine del 1941 per internare prigionieri di guerra ed utilizzato nei mesi successivi, esattamente nel febbraio, come campo di concentramento per la deportazione dei civili jugoslavi, in seguito ad una operazione di polizia che portò all’arresto di migliaia di persone in modo da indebolire l’Osvobodilna Fronta, il Fronte di Liberazione[3]. Altro campo degno di nota è quello dell’isola di Arbe (Rab), nel quale le condizioni igenico sanitarie erano gravissime, portando i prigionieri a morire letteralmente di fame e nella loro sporcizia. Il tasso di mortalità nel campo di Rab era del 19%, percentuale da campo di sterminio più che di concentramento (in questo campo le vittime si aggirano tra le 3.500 e 4.500 secondo le fonti slovene), superiore persino al tasso di mortalità di alcuni campi nazisti come Buchenwald, dove il tasso di mortalità si aggirava attorno al 15%[4].

Come abbiamo detto, molti di questi campi nacquero in seguito alla repentina risposta da parte dei partigiani del Fronte di Liberazione, i quali erano operativi nei territori di recente occupazione italiana, ma anche all’interno dei confini italiani precedenti al 1941, come la Venezia Giulia; territori che nel primo dopoguerra erano a stragrande maggioranza slava e croata. Questo dato ci dà immediatamente una chiave di lettura diversa rispetto al restante contesto nazionale italiano, dove la resistenza armata ed organizzata al fascismo si svilupperà solo in seguito all’8 settembre del 1943. L’operazione di bonifica nazionale attuata dal fascismo era in realtà un processo precedente iniziato con l’annessione della Venezia Giulia nel 1918: già tra le due guerre il numero di sloveni costretti a lasciare i nuovi territori italiani fu considerevole anche se difficilmente quantificabile, iscrivendosi in una forbice che va dalle poche decine di migliaia a 70.000-100.000 persone[5]. Fu tra l’aprile del 1941 e l’8 settembre del 1943 che la “bonifica etnica” svolta dagli italiani raggiunse il suo apice; infatti, attraverso un controllo diretto dell’ordine pubblico da parte dell’esercito e attraverso l’istituzione di organi speciali costituiti con lo scopo di reprimere l’attività antifascista della zona (tra questi va ricordato l’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza costituito a Trieste nell’aprile del 1942), solo per questo periodo la cifra totale di morti sloveni e croati nei campi di concentramento fascisti si aggirerebbe intorno alle 11.000 unità. Con la caduta del fascismo e la successiva nascita della Repubblica Sociale Italiana la situazione andò peggiorando. Di fatto i territori in questione erano l’unica regione all’interno dei confini dell’Italia fascista in cui il movimento partigiano sloveno e croato, ma anche italiano, avevano un’effettiva organizzazione tale da poter effettivamente ambire alla presa di potere in quelle zone: si concretizzava perciò per gli “slavocomunisti” la possibilità di un controllo reale e di una trasformazione in apparato statale nuovo, jugoslavo e socialista. Prospettiva annullata dall’immediata occupazione nazista della Venezia Giulia a partire dal 10 settembre 1943 e dalla successiva nascita della Zona di Operazione Litorale Adriatico (ZOLA), con la quale i territori divennero di fatto una regione del Reich tedesco, nella quale tutte le forze armate e di polizia (a parte chi divenne partigiano e i militari che rimasero fedeli al re e che per questo vennero deportati), passarono sotto il controllo germanico, diventando forze collaborazioniste. In questa breve parentesi l’Esercito di Liberazione Jugoslavo prese il controllo dell’Istria, la quale, dopo appena 20 giorni, venne riconquistata dalle truppe nazifasciste: fu in questo momento che la campagna mistificatoria sulle foibe ebbe inizio.

Altra peculiarità del confine orientale, riferendoci al periodo che Claudio Pavone ha definito la “guerra civile”, ossia i mesi che vanno dal settembre 1943 e l’aprile/maggio 1945, è sicuramente l’acceso dibattito e il successivo scontro, anche armato, all’interno dei gruppi partigiani della Venezia Giulia. Per la borghesia antifascista della Venezia Giulia, la quale era per forma mentis ferma fautrice dell’italianità di quei territori, gli “slavocomunisti” dell’Esercito di Liberazione rimanevano i nemici più pericolosi, al punto tale che per combatterli si potevano prendere contatti con le truppe fasciste (ci furono contatti tra rappresentanti della X Mas e delle brigate Osoppo) al fine di creare un “blocco di unità nazionale” in funzione antislava e anticomunista. Le diverse posizioni tra i partigiani comunisti della brigata “Garibaldi Natisone”, la quale passerà alle dipendenze del IX Korpus dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo, e gli altri gruppi antifascisti di matrice non comunista portò di fatto all’uscita dei comunisti dal CLN triestino e a fatti ancor più gravi, come l’eccidio di Porzûs, in cui una formazione gappista comandata da Mario Toffanin (Giacca), catturò e passò per le armi il comando della I brigata Osoppo, giustiziando il comandante Francesco De Gregori, il suo vice Gastone Valente, entrambi del Partito d’Azione, a causa del ritrovamento di una donna, Elda Turchetti, ritenuta una spia tedesca da Radio Londra; altri sedici partigiani della Osoppo verranno poi giustiziati nell’ambito della stessa operazione[6].
Non furono pochi i tentativi da parte della X Mas di prendere contatti con formazioni partigiane: oltre al caso, effettivo o tentato, con le brigate Osoppo, ci furono contatti anche con il CLN Triestino intorno al febbraio 1945: questo non aveva più rapporti con il CLNAI (massima autorità italiana nei territori occupati dai nazifascisti), il quale lo aveva invitato ad una stretta collaborazione con il IX Korpus. Tali contatti rientrerebbero in un progetto di difesa dei confini orientali dal pericolo “slavocomunista”, nel quale erano coinvolti alcuni rappresentanti del CLN triestino, Valerio Borghese della X Mas, altri corpi armati, la Guardia Civica, la Guardia di Finanza, il podestà di Trieste Pagnini, l’ammiraglio Raffaele De Courten (Ministro della Marina del governo Bonomi dell’Italia liberata) e il prefetto di Trieste Coceani. Secondo le dichiarazioni di Pagnini, rilasciate all’OZNA (Odeljenje za Zaštitu Naroda, servizi segreti dell’esercito jugoslavo) dopo il suo arresto, esisteva a Trieste un Comitato di Salute Pubblica che avrebbe dovuto svolgere una funzione antislava e antipartigiana, proponendosi di ostacolare la penetrazione slava in quelle terre fino all’arrivo delle truppe angloamericane; questo comitato scese in piazza al momento dell’insurrezione finale come combattenti del CLN, portando in alcuni casi anche allo scontro armato tra partigiani jugoslavi e forze del CVL[7].

“Foibe”: un dibattito storico?

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«Quando si parla di “foibe” ci si riferisce alle violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di vittime. È questo un uso del termine consolidatosi ormai, oltre che nel linguaggio comune anche in quello storiografico, e che quindi va accolto, purché si tenga conto del suo significato simbolico e non letterale»[8].

Con queste parole inizia il volume di Raoul Pupo e Roberto Spazzali, entrambi accademici dell’Università di Trieste, e per questo motivo considerati in quanto storici esperti degli argomenti trattati. Il suddetto volume, pubblicato nel 2003, si proponeva di riprendere il dibattito storico sulle “foibe”, le grotte carsiche nelle quali furono effettivamente gettati corpi dopo alcuni fatti di vendette personali ed esecuzioni sommarie nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945; dibattito circa quello che secondo gli accademici, e non a torto, risulta uno dei momenti più intricati e controversi della storia italiana del Novecento. Il breve volume analizza velocemente i fatti, facendo poi “parlare” i documenti e le testimonianze, ed analizzando quelle che gli studiosi definiscono le tesi militanti: quelle dell’estrema destra e delle associazioni di esuli (le quali porterebbero il numero di “infoibati” dagli “slavocomunisti” a centinaia di migliaia e i quali sostengono la tesi di un genocidio nazionale[9]), e quelle della storiografia “di sinistra”, che di fatto viene presentata semplicisticamente come negazionista e riduzionista[10]. Per capire meglio il terreno su cui ci stiamo muovendo dobbiamo fare un passo indietro. In seguito alla riconquista dell’Istria da parte dei nazifascisti nell’autunno 1943 (campagna che provocò 13.000 vittime), nacque la prima campagna mediatica da parte dei servizi segreti nazisti e della RSI sulla brutalità dei “titini” e sulle foibe, con il volumetto Ecco il Conto!. In realtà l’unico dato certo, vagliato da fonte attendibile e riportato nel rapporto Harzarich, maresciallo dei vigili del fuoco che diresse le operazioni di recupero, fu la riesumazione di circa 200 cadaveri nell’inverno 1943-1944.

Il secondo periodo è quello successivo alla fine della guerra (maggio ’45 e del così detto governo dei quaranta giorni da parte jugoslava della città di Trieste), in cui il totale di scomparsi dalla città di Trieste fu di 498 persone[11]. Il dato che emerge nel conteggio delle persone che furono effettivamente “infoibate” è di un numero di morti che si aggirerebbe intorno alle 500/700 vittime, tra le quali vanno ricordati i 18 infoibati dell’abisso Plutone, uccisi non da partigiani ma da criminali comuni e membri della X Mas infiltrati nella difesa popolare di Trieste al momento dell’insurrezione dell’aprile 1945[12].
La campagna mistificatrice portata avanti dai movimenti (neo)fascisti, da neo-irredentisti, ma purtroppo anche da esponenti del cosiddetto mondo democratico riguardo le foibe, ha prodotto all’interno dell’opinione pubblica e all’interno del mondo accademico, una revisione dei fatti volta a presentare il fenomeno delle foibe come una sorta di naturale istinto omicida degli “slavocomunisti”, nei confronti delle popolazioni italiane, le quali sarebbero vittime passive del terrore “titino”. All’interno di quest’ottica vengono fatti rientrare nello stesso pentolone fenomeni diversi come gli effettivi morti “infoibati”, i militari e i civili collaborazionisti italiani che vennero rinchiusi nei campi di concentramento jugoslavi dopo il maggio ’45, partigiani e militari morti durante i combattimenti nel confine orientale, gli esuli italiani dell’Istria e della Dalmazia del secondo dopoguerra. La superficialità (che personalmente ritengo frutto di un chiaro progetto politico) con la quale molti “esperti”, presunti o effettivi storici, hanno ricostruito le vicende delle “foibe”, ha permesso di fatto la creazione di un mito che porterebbe il numero di “infoibati” a cifre superiori alle centinaia di migliaia di vittime uccise “perché italiane”. Gli storici che abbiamo citato prima, ossia Raoul Pupo e Roberto Spazzali, non accettano (fortunatamente) queste cifre fantasiose, commettendo però un grossolano e apparentemente inspiegabile errore. Nell’ottica del “significato simbolico” del termine foibe, Pupo e Spazzali inseriscono di fatto gli effettivi “uccisi” nelle foibe e coloro che morirono lungo la strada della deportazione e nei campi di concentramento jugoslavi all’interno dello stesso idealtipo[13]. Secondo questi studiosi, quindi, quando ci si riferisce alle foibe ci si riferisce anche ai morti deportati, per un totale di 4.000/5.000 morti italiani, pari a circa lo 0,5% del totale della popolazione di quelle regioni (dato che comunque smentisce la tesi del “genocidio nazionale” a danno degli italiani). Parlare di violenze di massa in questo contesto molteplice e variegato appare sicuramente riduttivo, poiché questo criterio unificante, oltre a non essere esaustivo e per nulla scientifico, lascia larghi spazi di manovra a chi ha fatto delle foibe il cavallo di battaglia per portare avanti istanze politiche che nulla hanno a che fare con i fatti storici, volte ad un duplice obbiettivo: da una parte promuovere una campagna revisionistica della storia della resistenza, con la finalità di equiparare le vittime del nazifascismo alle vittime della resistenza, ivi compresa quella jugoslava, ma più in generale funzionale alla teoria aberrante degli opposti estremismi; dall’altra, un obiettivo ancora più pericoloso e strettamente legato al primo, cioè quello di una rivalutazione dell’immagine del fascismo agli occhi dell’opinione pubblica.

Una tesi che mi sembra molto interessante a tal proposito è quella che inquadrerebbe la campagna di mistificazione e di pura propaganda sulle foibe attuata dal fascismo ripulito, e di fatto diventato “democratico” nell’immediato dopoguerra, come risposta alle richieste della commissione di Stato jugoslava, che aveva presentato nel febbraio del 1945 quattro relazioni relative ai crimini di guerra Italiani alla United Nations War Crime Commission di Londra riguardanti i territori di Dalmazia, Slovenia e Montenegro[14]. Grazie infatti alla complicità dei primi governi repubblicani, in primis quello De Gasperi, fu di fatto possibile cancellare la possibilità di una “Norimberga italiana”[15]; a tal proposito, l’utilizzo strumentale delle foibe avrebbe legittimato l’operato non punitivo del governo democratico italiano, che non accettava di subire lezioni di moralità da parte di un regime comunista, quello di Tito, il quale però seppe effettivamente individuare, processare e condannare i responsabili degli infoibamenti (furono infatti svolti circa ottanta processi a riguardo) e delle esecuzioni sommarie dell’immediato dopoguerra. Questa campagna ebbe inoltre modo di creare all’interno dei territori del confine orientale un sentimento antislavo e più in generale anticomunista, funzionale al nuovo assetto politico dicotomico che andava emergendo tra Europa occidentale, ed Europa orientale comunista, almeno fino al 1948, anno della rottura tra Tito e Stalin.

La famigerata "banda Collotti" responsabile dell'infoibamento di 18 antifascisti nella foiba di Plutone. Immagine del gennaio 1945

Per capire in che modo ci sia stato un utilizzo fazioso della questione, faremo accenno ad una delle foibe più note, divenuta oltretutto “monumento nazionale”: la cosiddetta foiba di Basovizza, sulla quale infatti è stata creata la più grande delle mistificazioni. Questa foiba era in realtà un pozzo di una miniera utilizzata ai primi del ’900, la quale, secondo Claudia Cernigoi, venne utilizzata durante la guerra dalla banda Collotti, quindi dai nazifascisti, per occultare cadaveri di antifascisti[16]. In seguito alla battaglia di Basovizza del 30 aprile 1945, il pozzo venne utilizzato dagli abitanti della zona per gettare dei corpi di militari (soprattutto tedeschi) morti durante la battaglia. Nella ricostruzione dei giornali dell’epoca il ritrovamento dei 18 corpi di infoibati della foiba Plutone (da parte di appartenenti alla cosiddetta squadra Volante, di ex fascisti e X Mas) fu fatto coincidere e di fatto sovrapposto a quello di Basovizza[17]. A provare l’utilizzo da parte dei partigiani titini della foiba di Basovizza per l’infoibamento di 150 civili appartenenti alla questura di Trieste, sarebbe la testimonianza di don Šček e di don Malalan, entrambe pubblicate interamente nel volume di Pupo e Spazzali[18]. Secondo i due storici, da questi documenti si potrebbe evincere che alcuni degli infoibati erano ancora in vita nel momento in cui vennero gettati nel pozzo; la Cernigoi invece mette in evidenza, come nello stesso documento (rapporto Source), don Šček dichiara di non essere stato presente all’esecuzione, né di aver sentito degli spari, facendoci pensare al fatto che la sua testimonianza si riferisca al solo processo. Un altro dato che non quadra secondo la Cernigoi è il fatto che dei 150 dipendenti della Questura (non si parla quindi di semplici civili, ma di collaborazionisti), della maggior parte si sa come e dove sono morti: fucilati in Lubiana, morti in altre foibe oppure morti in prigionia, sollevando così forti dubbi sulla validità del rapporto come prova dell’infoibamento dei 150 dipendenti della questura di Trieste nella cosiddetta foiba di Basovizza[19]. Anche gli alleati s’interesseranno alla faccenda di Basovizza, cercando effettivamente di svolgere un recupero dei cadaveri, per poi lasciar perdere ed utilizzare la foiba come discarica nella quale gettare il corrispettivo di 35 camion di residuati bellici. Negli anni successivi si arrivò addirittura a tentare calcoli delle salme d’infoibati in base alla volumetria del pozzo(si arrivò ad ipotizzare 3000 salme nella sola Basovizza a fronte di un totale di 4.500 scomparsi da tutta l’Istria e Dalmazia), senza nemmeno tenere nel conteggio tutto il materiale bellico scaricato. Questa propaganda continuò negli anni successivi e nel 1959 il pozzo venne chiuso. Non c’è effettiva chiarezza su cosa sia effettivamente accaduto attorno alla foiba di Basovizza, soprattutto non si capisce il perché non siano state fatte e non si vogliano ancora fare delle indagini in merito, con un eventuale svuotamento del pozzo. Anche in questo caso, come in tanti altri della storia italiana, si preferisce una mistificazione, più funzionale agli interessi politici rispetto alla verità storica.

“Il Cuore nel pozzo” un caso di mistificazione mediatica

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Il Cuore nel pozzo[20] è una fiction in due puntate prodotta da Rai Fiction e Rizzoli Audiosivi, diretta da Alberto Negrin e andata in onda per la prima volta nei giorni 6-7 febbraio del 2005 in occasione della prima “Giornata del ricordo”[21].
La miniserie è ambientata nel confine orientale italiano nel mese di aprile del 1945 e narra le vicende di un bambino italiano, Francesco, “costretto” a fuggire insieme con altri personaggi, tutti italiani, dall’avanzata dell’Osvobodilna Fronta che in quel periodo prendeva il controllo dell’Istria.
Tutto il film insiste sulla tesi della persecuzione etnica da parte dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo nei confronti degli inermi italiani, costretti infine a fuggire in massa. Nel fare questo utilizza soluzioni recitative abbastanza grossolane, rappresentando ad esempio i partigiani slavi come malvagi, sempre ubriachi, violenti e come appassionati violentatori di italiane (immagine stranamente affine all’attuale propaganda della destra italiana nei confronti degli immigrati).

Senza entrare nel merito dell’analisi del prodotto televisivo, cercheremo di analizzare gli elementi presenti nella fiction che si basano sulle più frequenti mistificazioni e falsi storici utilizzati.
Subito dopo il titolo iniziale, appare su sfondo nero una scritta con la dedica del film: «Alla memoria delle migliaia e migliaia di Italiani uccisi nelle foibe e dei 350.000 profughi costretti a lasciare le loro case». Già da questo incipit chi abbia un minimo di onestà intellettuale e di nozioni in materia di foibe, esuli istriano-dalmati e confini orientali, arriccerebbe il naso. Se come abbiamo detto prima, il numero delle vittime delle foibe è notevolmente gonfiato, per quanto riguarda i profughi, la mistificazione è ancora più grossolana. La cifra che emerge dagli studi è di circa 237.000 unità, ma non si riferisce assolutamente ai soli italiani che nel secondo dopoguerra sono rientrati nei nuovi confini italiani (quelli attuali), ma invece a tutti coloro, italiani e in minor misura sloveni e croati, che hanno lasciato questi territori nel periodo compreso addirittura tra il 1918 e i primi anni ’50.
Un’altra considerazione doverosa andrebbe fatta sulla parola costretti, in quanto di fatto gli italiani non furono costretti da nessuno a lasciare le proprie abitazioni, anzi furono in molti casi i rappresentanti della borghesia antifascista (o meglio afascista) dell’Istria e della Dalmazia a fare pubblici appelli all’esodo di massa, come nel caso dei CLN di Istria e Pola, costituitisi entrambi tra l’altro a guerra finita[22]. Queste cifre comprendono inoltre gli spostamenti di popolazione dal 8 settembre 1943, migliaia di esuli fuggiti da quei territori che erano stati occupati dai Nazisti con la collaborazione della RSI durante la guerra e che subirono pesanti bombardamenti che provocarono oltre 4.000 morti e migliaia di sfollati[23].

Al contrario, esiste un’interpretazione dell’esodo quale prodotto di una vera e propria campagna di “pulizia etnica” ai danni degli italiani di Istria e Dalmazia. Secondo questa lettura, il fenomeno delle foibe sarebbe stato un progetto premeditato, volto a terrorizzare la popolazione italiana, al fine di costringerla ad abbandonare quelle terre. Secondo lo storico Sandi Volk, che mi trova concorde, questa sarebbe un’analisi prettamente politica. Un altro fatto dato per scontato è che l’esodo abbia coinvolto solamente persone di identità nazionale italiana, mentre molte sono le fonti che fanno pensare a una componente (seppur minoritaria) di sloveni e croati. Quando si parla dell’esodo degli italiani di queste zone, bisogna tener molto in considerazione i fattori economico-sociali non meno di quelli culturali, che influirono in maniera significativa nel far crescere la volontà di emigrare dai territori Istriani. Fra le politiche economiche in questo senso più significative va segnalato l’ammasso obbligatorio dei prodotti (oltre alle epurazioni di elementi del vecchio regime, la riforma agraria, l’abolizione del colonato, l’esproprio dei “nemici del popolo”, etc.), attuato dal potere popolare, il quale provocò forti sentimenti di ripulsione, oltre che nell’alta borghesia italiana, anche nelle fasce basse della popolazione delle città istriane. Inoltre, il peggioramento della qualità della vita (anche a causa della guerra e delle sue distruzioni), rispetto alle notizie di una situazione economicamente più stabile negli altri territori italiani, contribuirono in maniera decisiva a far aumentare il fenomeno dell’esodo. Dal punto di vista culturale va anche sottolineata una generale passività politica del mondo contadino di quelle aree, abituato più ad un’imposizione verticale rispetto all’accelerazione rivoluzionaria impressa dagli “slavocomunisti”. Il primo grande errore è quindi l’aver preso per buone le cifre della destra nazionalista e neofascista, le quali sono state ampiamente smentite non solo dalla storiografia “di sinistra”, ma anche da “storici liberali” come Pupo e Spazzali[24].

Tornando al film, sappiamo da una scritta che appare nella scena iniziale che l’ambientazione è l’Istria del 1945: a questo punto appare l’eroe della storia, Ettore, un ex soldato italiano interpretato da Beppe Fiorello), il quale porta una divisa da alpino. Visto che ci troviamo in Istria sotto occupazione nazifascista e non nell’Italia liberata, viene da chiedersi di quale esercito faccia parte Ettore, visto che l’esercito regolare si era sciolto dopo l’8 settembre 1943. Probabilmente Ettore appartiene alla divisione alpini “Monte Rosa” istituita nel gennaio del 1944 dalla Repubblica Sociale Italiana, protagonista tra le altre cose di alcuni casi di stragi di civili in Toscana durante la guerra antipartigiana. Ettore non sarebbe quindi un generico soldato italiano, bensì un soldato fascista.
Seguono poi scene a ripetizione nelle quali i partigiani jugoslavi vengono rappresentati come uomini senza scrupoli: uccidono anche coloro che gli consegnano le armi, vietano ai bambini sloveni di parlare italiano e bruciano i libri italiani nelle stesse scuole. È una costruzione dell’immaginario forzatamente brutale e violento degli “slavocomunisti” come campioni dell’odio etnico nei confronti degli italiani. A tal riguardo mi sembra interessante usare le parole di Raoul Pupo:

«A proposito del comportamento tenuto dall’esercito iugoslavo nella regione vi è però ancora un dato che va sottolineato, e che contrasta nettamente con l’immagine di barbarica ferocia spesso disegnata da certa parte della pubblicistica italiana, secondo un cliché che non consente in realtà di capire fino in fondo il contesto ed il clima nazionale e politico in cui si svolgono i fatti tragici della primavera del 1945. Nei riguardi della popolazione civile della Venezia Giulia le truppe jugoslave non si comportano affatto come un esercito occupante un territorio nemico [...] anzi, la loro disciplina sembra per certi versi superiore anche a quella delle unità angloamericane presenti a Trieste e Gorizia»[25].

Nello svolgersi della storia arriviamo alla scena in cui i genitori di Francesco vengono fucilati e successivamente buttati nella foiba. A tal riguardo si nota come Negrin, nella sua ricostruzione filmica, abbia probabilmente utilizzato, come base bibliografica, la pubblicistica fantasiosa che attribuirebbe alle popolazioni slave la superstizione che per «non fare uscire i morti e a non far entrare i vivi» queste lascino un cane a guardia dei cadaveri. Anche nel film è presente il cane nero che veniva, secondo la mitologia delle foibe, buttato nella cavità assieme alle vittime. In merito Claudia Cernigoi riporta che la leggenda del cane nero venne riportata dal giornalista Granbassi, per poi essere ripresa da Luigi Papo (uno dei più famosi “foibologi”, nonché ex capo squadrista nella cittadina di Montona); superstizione di cui non si ha però traccia né in Slovenia, né in Serbia, né in Croazia[26].
Per quanto riguarda i personaggi che nel film vengono fatti morire nelle foibe, è interessante notare come non si tratti di militari, appartenenti alle forze armate collaborazioniste o di civili in un qualche modo legati al nazifascismo, bensì di medici, insegnanti (come i genitori di Francesco), farmacisti, levatrici e così via. In tal modo si omette il fatto che degli effettivi infoibati la maggior parte erano appartenenti a forze armate o civili collaborazionisti, continuando così a portare avanti la tesi del “uccisi perché italiani”. Le tesi sul “genocidio nazionale” fanno parte della lettura politica della storia del confine orientale, tesi che sono state a più riprese smentite da molti storici tra cui lo stesso Raoul Pupo, il quale riporta in suo articolo un documento dell’archivio di Lubiana relativo ai dispacci inviati da Edvard Kardelj ai capi sloveni e in cui si legge: «È necessario imprigionare tutti gli elementi nemici e consegnarli all’Ozna per processarli. [...] Epurare subito, ma non sulla base della nazionalità, bensì su quella del fascismo»[27]; o ancora l’ordine emesso da Tito allo Stato maggiore sloveno il 14 maggio 1945 in cui si legge:

«Prendere le più energiche misure per impedire ad ogni costo l’assassinio dei prigionieri di guerra e degli arrestati da parte delle unità, degli enti singoli nonché dei singoli. Se tra i prigionieri e gli arrestati si trovassero delle persone che dovrebbero rispondere di crimini di guerra, consegnarli con ricevuta ai tribunali militari per il procedimento ulteriore.» [28]

Leggendo i due testi, risulta infatti chiaro come non si possa sostenere che il Partito comunista jugoslavo e con questo il maresciallo Tito, tenessero comportamenti anti-italiani; oltre a ciò, si evidenzia come non ci sia stata una volontà calata dall’alto che giustifichi l’operato di alcuni, una parte minima del movimento di liberazione jugoslavo, che commisero effettivamente crimini o eccidi. Risulta perciò ancor più forviante e un costrutto politico in tal merito la rappresentazione di tutti i partigiani jugoslavi come feroci assassini senza remore.

Un'immagine tratta dalla fiction "Il Cuore nel Pozzo", 2004

Torniamo alle scene del film. Scosso dalla morte dei genitori, il piccolo Francesco si rivolge ad Ettore, che come abbiamo capito è un ex soldato della RSI, apostrofandolo come un vigliacco, dicendogli che non avrebbe dovuto buttare il fucile, che quelli come lui li avrebbero dovuti difendere e, arrivando al punto massimo della retorica, dichiara «Tu non sei un soldato, sei solo un vigliacco». Ettore, avvilito, alla fine concorda con il piccolo Francesco. È questo un passaggio centrale del film, che rivela quale tipo d’interpretazione è sottesa all’intero film. Il bambino infatti rappresenta in questo contesto la dissoluzione dell’Italia: rivolgendosi in tal modo all’ex repubblichino, il film dà un pesantissimo giudizio a favore del fascismo della RSI, identificandolo di fatto come l’unico possibile baluardo a difesa dell’“italianità” di quelle terre. Tesi ancor più avvalorata nel momento in cui Francesco muove la stessa accusa anche a Walter, amico dei suoi genitori e rappresentante del CLN locale. Il film vuole chiaramente affermare che al di la delle differenze ideologiche (!) la difesa della “patria” avrebbe dovuto unire tutti gli italiani contro l’avanzata dei terribili “slavocomunisti”.
In questo momento possiamo concludere tre cose: la prima è il giudizio negativo nei confronti del CLN, con il quale vengono esplicitamente fatti rientrare tra i traditori della patria anche i partigiani italiani. Il secondo punto è il chiaro falso storico che viene fatto emergere da alcune frasi del film, che avallano la tesi della storiografia di destra e neofascista del “uccisi perché italiani”; il terzo punto, ancor più grave, è quello di introdurre nella mente dello spettatore un dubbio, ossia la legittimità di aver portato avanti la guerra al fascismo. Che cosa, quindi, avrebbero sbagliato gli italiani in Istria, se non di non aver preso le parti del fascismo nella lotta contro lo “slavocomunismo”?
Nella seconda puntata della fiction, si chiude il cerchio di questo ragionamento. Dopo un’infinita sequenza di fughe ed inseguimenti, arriva la scena clou del film: una formazione titina capeggiata dal terribile Novak riesce a raggiungere il gruppo di fuggitivi. Proprio in questo momento arriva però il provvidenziale intervento dei soldati italiani; in realtà non si tratta di semplici soldati italiani, poiché come già spiegato, al pari dello stesso Ettore, non sono altro che soldati appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana, ovvero fascisti alle dipendenze dell’occupante nazista nella Zona Operazione Litorale Adriatico. Una volta disarmati i partigiani jugoslavi, questi non vengono passati per le armi dai repubblichini, come a voler dimostrare una differente umanità tra i violenti “slavocomunisti” e i fascisti. Il film conclude con Francesco che parla con il suo diario: «Incontrammo un sacco di gente che scappava, alcuni dicono che erano più di 300.000 ma migliaia di persone sono rimaste lì, in fondo al pozzo».

Conclusioni

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Il film di Negrin continua una campagna politica, che molti storici con una disarmante superficialità d’indagine hanno foraggiato, volta ad equiparare in modo aberrante vittime del fascismo a quelle della Resistenza. Campagna funzionale solamente a riabilitare l’immagine della RSI e quindi del fascismo davanti all’opinione pubblica odierna, per poter così procedere nel tentativo di riconciliazione che di fatto annulla la differenza tra vittime e carnefici. In questo contesto, va inquadrato non solo la fiction Il Cuore nel pozzo, ma anche altri prodotti televisivi e cinematografici, volti a ripulire l’immagine del fascismo a danno di quei gruppi che lottarono e morirono per la creazione di una società più giusta. Per quanto riguarda il riferimento alle foibe, la fiction contribuisce a creare quell’immagine, purtroppo consolidatasi all’interno di certi settori della società e della cultura italiana, delle popolazioni slave come portatrici di odio e violenza in un paese, l’Italia, in cui di fatto vive della brava gente. Emerge all’occhio infatti la morbosa rappresentazione dei titini come dei violenti, che stuprano le donne italiane presi dai fumi dell’alcol. Il fatto che la fiction sia stata fortemente appoggiata dall’allora partito di governo Alleanza Nazionale e dall’allora ministro alle telecomunicazioni Maurizio Gasparri, non può non far pensare a secondi fini politici, che di fatto hanno mandato la verità storica “nel baratro di una foiba”. Dal punto di vista storico e storiografico, ci si imbatte in un terreno molto delicato, in cui per troppo tempo non si è voluto fare chiarezza. Le “colpe” sono molteplici perché, se da un lato non ha giovato la ricostruzione propagandistica della destra revisionista, dall’altro lato l’atteggiamento lascivo della storiografia di sinistra che ha preferito non parlare di certi argomenti, ha lasciato spazio alle fantasiose ricostruzioni che hanno creato degli idealtipi penetrati anche nell’approccio storico di personalità accademiche di rilievo. Dimostrando come il vuoto storiografico non giovi di fatto alla verità storica che si trova come in questo caso intrisa di false ricostruzioni e vera e propria mitologia.

Paradossalmente la mia critica più forte non va infatti a quegli ambienti che per interessi politici calcano la mano sulle cifre volte a dimostrare il fantomatico “genocidio nazionale”, quanto a quelle realtà e personalità accademiche, che negli ultimi anni di dibattito storico hanno definito “negazionisti” coloro i quali, con rigore scientifico e metodologia di analisi storica (basata sulle fonti reali, non su i continui rimandi a testi che citano a loro volta altri testi), hanno cercato di ridimensionare il “fenomeno foibe”, non certo negandolo ma spiegandolo. Concludo riportando le tesi di Claudia Cernigoi e Sandi Volk, che ritengo a mio personalissimo parere più che condivisibili: non si può parlare delle foibe come un unico episodio, ma bisogna distinguere tra quelle del 1943 e quelle del dopoguerra; bisognerebbe inoltre analizzare ogni singolo caso ed indagare sulle biografie degli effettivi infoibati per aver una chiave di lettura più scientifica. In riferimento alle foibe del ’43 si devono ridimensionare le cifre tenendo a mente quelle che emergono dalle fonti. Non ci furono nel maggio ’45, a Trieste e a Gorizia, eccidi indiscriminati, poiché la maggior parte dei morti si ebbe nei campi di concentramento jugoslavi, ma si deve tener conto che le condizioni igenico sanitarie erano gravissime in tutta la Slovenia, in quanto a causa della guerra non esistevano più impianti sanitari né acquedotti.
Non vanno pertanto accettate le letture semplicistiche di Pupo e Spazzali che mettono tutte le vittime dei partigiani di Tito all’interno dello stesso calderone: se vi furono vendette personali non bisogna responsabilizzare l’intero movimento titino, di cui le fonti dimostrano l’estraneità, e non si trattò certamente di un progetto politico come invece fece il fascismo nelle sue colonie con la “bonifica nazionale”[29]. Per quanto riguarda la questione degli esuli istriano-dalmati, questa va indagata al di fuori delle sole letture politiche, e totalmente staccata dalla “questione foibe”, prendendo ad esempio in considerazione i fattori economici e culturali e soprattutto inquadrarla nell’ambito dei fenomeni di migrazione ed esodo che hanno coinvolto a livello generale l’Europa del dopoguerra (di cui risulta, numericamente parlando, un fenomeno marginale).

[Bibliografia]

Note   (↵ returns to text)
  1. Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza editore, Vicenza, 2005, p.235, corsivo mio.↵
  2. Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, op. cit., p. 236.↵
  3. Alessandra Kersevan, I campi di concentramento italiani per civili jugoslavi, in Foibe, revisionismo di stato e amnesie della repubblica, atti del convegno Foibe: La verità. Contro il revisionismo storico, Kappa Vu, Udine, 2008, pp. 49-53. Oltre al suddetto intervento si consiglia: Alessandra Keservan, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi, 1941-1943, Nutrimenti, Roma, 2008.↵
  4. Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, op.cit., p. 243.↵
  5. Sandi Volk, Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale, Kappa Vu editore, Udine, 2004, p. 13.↵
  6. Santo Peli, La Resistenza in Italia storia e critica, Einaudi, Torino, 2004, pp. 141-143
    L’eccidio di Porzûs è tutt’ora molto dibattuto a causa della sua complessità di analisi; ci basti inquadrare il fatto all’interno di una cornice, quella della resistenza nel confine orientale, in cui forti sono le spinte anticomuniste e antislave all’interno delle brigate Osoppo(di matrice liberale, socialista e cattolica) da una parte e quelle di stretta collaborazione con le armate jugoslave, da parte delle brigate comuniste della “Garibaldi Natisone”.↵
  7. Claudia Cernigoi, Operazione “Foibe” tra storia e mito, Kappa Vu, Udine, 2005, pp. 50-63.↵
  8. Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, 2003, p. 2.↵
  9. Parliamo dei testi: Luigi Papo, Marco Pirina, Padre Flaminio Rocchi, Giorgio Rustia, Ugo Fabbri, Augusto Sinagra alcuni dei quali militarono con la Repubblica sociale, altri vicini ad ambienti del neofascismo italiano e ai tentativi di golpe antidemocratico come il caso del golpe Borghese.↵
  10. Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Foibe, op.cit, pp. 126-128.↵
  11. Claudia Cernigoi, Operazione “Foibe” tra storia e mito, op.cit, pp. 65-67.↵
  12. Claudia Cernigoi, Operazione “Foibe” tra storia e mito, op.cit, pp. 210-219.↵
  13. Raoul Pupo, Le Foibe Giuliane 1943-1945, in l’«Impegno», anno XVI n.1, aprile 1996. consultabile online all’indirizzo http://www.storia900bivc.it/pagine/editoria/pupo196.html (visionato l’11/12/2011).
    Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Foibe, op.cit, p. 2.↵
  14. Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, op.cit., p. 234.↵
  15. Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, op.cit., pp. 244-246.↵
  16. Gaetano Collotti era un vice commissario di polizia, in servizio presso l’Ispettorato di Pubblica Sicurezza di Trieste, aderisce alla Repubblica Sociale Italiana, e crea all’interno dell’ispettorato la cosiddetta “banda Collotti” con funzioni antipartigiane, operativa all’interno della “villa Triste” famosa per svariati casi di torture ad ebrei ed antifascisti.
    A riguardo si veda anche: http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2011/08/21/news/la_regina_di_villa_triste_lebrea_triestina_che_super_le_torture-20710886/ (visionato il 10/12/2011).
    Claudia Cernigoi, Operazione “Foibe” tra storia e mito, op.cit, p. 166.↵
  17. Claudia Cernigoi, Operazione “Foibe” tra storia e mito, op.cit, pp. 167-170.↵
  18. Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Foibe, op.cit, pp. 71-77.↵
  19. Claudia Cernigoi, Operazione “Foibe” tra storia e mito, op.cit, p. 174.↵
  20. Per la scheda del film consultare la pagina http://www.ilcuorenelpozzo.rai.it/ (visionata in data 11/12/2011).↵
  21. In merito si veda il testo di legge alla pagina http://www.parlamento.it/parlam/leggi/04092l.htm (visionato l’11/12/2011).↵
  22. Sandi Volk, Esuli a Trieste, op.cit, p. 45.↵
  23. Sandi Volk, Esuli a Trieste, op.cit, p. 62.↵
  24. Raoul Pupo, Le Foibe Giuliane 1943-1945, op.cit. http://www.storia900bivc.it/pagine/editoria/pupo196.html (visionato l’11/12/2011).↵
  25. Raoul Pupo, Le Foibe Giuliane 1943-1945, op.cit. http://www.storia900bivc.it/pagine/editoria/pupo196.html (visionato l’11/12/2011).↵
  26. Claudia Cernigoi, Operazione “Foibe” tra storia e mito, op.cit, pp. 136-137.↵
  27. Raoul Pupo, Le Foibe Giuliane 1943-1945, op.cit. http://www.storia900bivc.it/pagine/editoria/pupo196.html (visionato l’11/12/2011).↵
  28. Luka Bogdanić, Il movimento partigiano jugoslavo, la questione nazionale e della nazionalità, in Foibe, revisionismo di stato e amnesie della repubblica, atti del convegno Foibe: La verità. Contro il revisionismo storico, op.cit., p. 65.↵
  29. Claudia Cernigoi, Operazione “Foibe” tra storia e mito, op.cit, pp. 266-267.↵
  30. AA.VV. Foibe, revisionismo di stato e amnesie della repubblica, atti del convegno Foibe: La verità. Contro il revisionismo storico, Kappa Vu, Udine, 2008.

    Cernigoi C., Operazione “Foibe” tra storia e mito, Kappa Vu, Udine, 2005.

    Del Boca A., Italiani, brava gente?, Neri Pozza editore, Vicenza, 2005.

    Peli S., La Resistenza in Italia storia e critica, Einaudi, Torino, 2004.

    Pupo R., Le Foibe Giuliane 1943-1945, in l’«Impegno», anno XVI n.1, aprile 1996.

    Pupo R, Spazzali R., Foibe, Bruno Mondadori, 2003.

    Volk S., Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale, Kappa Vu editore, Udine, 2004

    Link:

    http://www.ilcuorenelpozzo.rai.it/

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