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Ritornare a Bartleby. Intervista inedita a Diego Fusaro

Creato il 25 ottobre 2013 da Criticaimpura @CriticaImpura
Diego Fusaro

Diego Fusaro

Di IDOLO HOXHVOGLI

Diego Fusaro è nato nel 1983 a Torino. Ha studiato filosofia nella sua città natale, a Bielefeld e Milano, dove insegna all’Università Vita-Salute San Raffaele. Ha tradotto Marx, Engels, Democrito e Fichte. Le sue prime ricerche si sono concentrate sulla relazione tra il materialismo storico e l’atomismo greco, sugli interpreti di Karl Marx e sulla tensione terapeutica della filosofia epicurea. L’approfondimento della filosofia della prassi marxista ha condotto Fusaro al riutilizzo della critica dell’economia politica, che oggi deve essere definita piuttosto critica dell’economia spoliticizzata. La globalizzazione, l’Europa come eurocrazia e la finanza internazionale – secondo le tesi espresse in Minima mercatalia e Bentornato Marx! – spingono inesorabilmente verso la distruzione dei diritti sociali e delle sovranità nazionali. I nuovi soggetti politici devono combattere il cretinismo economico, restituire alla politica il suo primato e ai cittadini la loro sovranità. Il compito degli uomini è, come nel Bartleby di Melville, dire tutti insieme «no».

Diego Fusaro, Bentornato Marx!, Milano 2009

Diego Fusaro, Bentornato Marx!, Milano 2009

[Idolo Hoxhvogli] Nei tuoi ultimi due lavori – Il «Capitale» di Karl Marx e Idealismo e prassi – hai messo in risalto l’appartenenza dell’opera di Marx alla tradizione della filosofia idealistica: l’ideale marxiano della prassi trasformatrice è la chiave dell’idealismo; l’idealismo, dall’altro lato, non si arrende alle logiche dell’esistente. La prassi ha un carattere idealistico e l’idealismo è antiadattivo: puoi chiarire questa tesi?

[Diego Fusaro] Soprattutto in Idealismo e prassi, ho cercato di proporre un’analisi storico-filosofica volta a inquadrare diversamente tanto Marx attraverso l’idealismo, quanto l’idealismo attraverso Marx. E l’ho fatto individuando nella costellazione orbitante intorno al concetto di praxis il fecondo punto di incontro tra due visioni del mondo che, tradizionalmente, sono state pensate come opposte, perdendo di vista la continuità, gli intrecci e la comune assunzione antidogmatica della realtà non come oggettività inemendabile, ma come esito mai definitivo del fare umano. Il concetto di prassi, del «continuo farsi della realtà», come diceva Gentile, è coessenziale a ogni autentica forma di idealismo. È l’idealismo, e solo l’idealismo, a scorgere nella verità non un dato di fatto da conoscere, rispecchiare e trasmettere, ma il risultato di un fare, di un agire, di un produrre che si dipana nella storia e che pone in relazione simbiotica il soggetto e l’oggetto. Il soggetto non esiste senza l’oggetto, proprio come l’oggetto non esiste senza il soggetto: ciascuno dei due poli si dà solo in quella relazione soggetto-oggettiva con cui il soggetto si pone a sé contrapponendo l’oggetto. La praxis è il medium ineludibile tra i due termini.

[Idolo Hoxhvogli] La tua ricerca mira a esplicitare i nessi che legano i codici culturali alle forme di produzione, le costellazioni concettuali ai regimi socio-politici di esistenza materiale. Sulla scia della lezione metodologica di Reinhart Koselleck, tu insisti sulla funzione pragmatica dei concetti. Il vocabolario della cultura plasma e direziona i conflitti della storia: in che modo? 

[Diego Fusaro] È il progetto che anima il centro di ricerca C.R.I.S.I. (Centro Interdisciplinare di Ricerca Storia delle Idee) dell’Università San Raffaele, diretto da Andrea Tagliapietra, al quale collaboro. In prima approssimazione, il compito di una storia critica delle idee può essere delineato su due fronti, che solo astrattamente e in funzione espositiva possono essere distinti, perché nella pratica concreta della disciplina costituiscono un’unità inscindibile. Per un verso, essa è chiamata a soffermare la sua attenzione, diacronicamente, sulle faglie e sulle discontinuità che si generano nella trasmissione delle forme culturali e simboliche e che vanno immancabilmente a scuotere la continuità narrativa inerziale di una data cultura, intessuta di schemi identitari e di tetragone permanenze. Per un altro verso, la storia critica delle idee deve occuparsi del nesso inscindibile che viene a instaurarsi in ogni momento storico, lungo l’asse della sincronia, tra il pensiero e i codici culturali, da una parte, e le condizioni materiali della produzione e del potere, dall’altra, mostrandone la fitta rete di coimplicazione e assumendo come proprio privilegiato oggetto d’analisi la zona di scambio tra idee e realtà, tra costellazioni concettuali e costellazioni socio-politiche.

Diego Fusaro, Minima Mercatalia, Milano 2012

Diego Fusaro, Minima Mercatalia, Milano 2012

[Idolo Hoxhvogli] L’intelligenza ha il compito di delineare nuove morfologie della realtà, in contrapposizione alle logiche conservative del potere. La classe intellettuale non solo sembra incapace di disegnare un nuovo mondo, ma non ha neppure il coraggio della verità, di dire «no» all’ideologia dominante: il mercato. Più che critici della realtà, molti intellettuali sono servi della realtà. Perché, oggi, all’intelligenza manca spesso il coraggio?

[Diego Fusaro] Purtroppo oggi, per la prima volta nella storia, la cultura è integralmente schierata con il potere. Schiusosi con le scintille di una feroce critica degli intellettuali al potere e con eroiche figure che pagarono con la vita la loro opposizione (da Gobetti a Gramsci, da Edith Stein a Bonhoeffer), il Novecento era destinato a terminare con il riassorbimento del ceto intellettuale nella voragine del potere, in cui l’esser-contro diventa un giro di valzer di ballerini che, secondo il suggerimento di Kundera, piroettano, compiaciuti e incoerenti, da un contrario all’altro, senza mai rischiare nulla e senza mai mettere in discussione l’ordine costituito. Questa conversione dell’eterogeneo panorama intellettuale in un desolato scenario di totale integrazione al monoteismo del mercato produce fisiologicamente – questo il tema al centro del mio lavoro Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo – uno spirito gregario e identitario di appartenenza da parte del clero degli intellettuali. Questi, con il loro muoversi a banchi come i pesci, seguendo le correnti del politically correct, rifiutano ogni innovazione teorica promuovendo in modo compulsivo il rispecchiamento di un mondo che deve essere interpretato ma non trasformato. Questa subordinazione del ceto degli intellettuali si spiega anche alla luce del fatto che essi costituiscono il polo dominato della classe dominante: infatti, in virtù delle loro conoscenze e del loro prestigio sociale, appartengono de facto alla classe dominante, ma, per quel che concerne le risorse economiche, si trovano in una posizione più simile a quella dei dominati. In forza di tale ambivalenza, gli intellettuali sono caratterizzati da una vera e propria schizofrenia sociale, che li porta a essere schierati sempre più spesso con i dominanti, ai quali devono vendere il loro capitale culturale. Quest’ultimo, di conseguenza, non può mai realmente confliggere con l’ordine del mondo.

[Idolo Hoxhvogli] Lo spirito del capitalismo consiste nell’assolutizzazione del mercato. Il capitalismo è dunque una religione, una fede estrema che non ammette di essere contraddetta, pena l’espulsione per mano del vangelo della moneta-usura. Per quale motivo il monoteismo del mercato è una decapitazione delle potenzialità dell’uomo?

[Diego Fusaro] In Minima mercatalia, ho provato a mostrare come il cosmo capitalistico segni, hegelianamente, l’uscita-da-sé del genere umano, l’alienazione rispetto alla propria essenza comunitaria: esso costituisce la negazione delle potenzialità ontologiche dell’uomo, la sua alienazione, poiché lo riduce – marcusianamente – all’unidimensionalità dello scambio e della produzione di merci, trasformando l’uomo stesso in una merce liberamente circolante sul mercato e coartandolo a pensare il proprio presente e a progettare il proprio futuro nella sola dimensione limitativa e alienante della produzione e dello scambio delle merci eretto a orizzonte unico e intrascendibile. In balia di una reificazione universale, il fanatismo dell’economia proprio del capitalismo si fonda sull’esistenza di una merce particolare (la forza-lavoro umana, comprata e venduta) che non solo produce un valore maggiore rispetto a quello che incorpora in consumo di merci e servizi di sussistenza e di riproduzione, ma che è scandalo e follia in senso filosofico, poiché non sarebbe conforme alla natura umana l’essere mercificata e scambiata sul mercato.

Diego Fusaro, Essere senza tempo, Milano 2010

Diego Fusaro, Essere senza tempo, Milano 2010

[Idolo Hoxhvogli] La rivoluzione francese e la rivoluzione industriale hanno prodotto un’accelerazione della storia. La globalizzazione ha aumentato la velocità degli eventi: nonostante le tesi di Fukuyama, la storia non è finita e non siamo di fronte all’ultimo rassegnato modello di umanità. La storia corre e l’uomo vive in una fretta permanente. Dove vanno?

[Diego Fusaro] Sul piano della temporalità, il paradosso del nostro tempo è che tutto scorre sempre più in fretta (in coerenza con la fretta della produzione del consumo) e, insieme, viene meno la dimensione progettuale del futuro. È il regime dell’eterno presente e della desertificazione dell’avvenire. La condanna del presente è il presente come condanna. Per la prima volta nella storia, si è impadronita della coscienza sociale la totale irrappresentabilità della trasformazione. In ogni epoca, il mutamento, sia pure in forme differenziate, era sempre stato pensato, nei termini vuoi del perseguimento di un’alternativa all’esistente, vuoi della liberazione dall’oppressione del nemico. Oggi, invece, domina su tutta la linea il greve fatalismo – la «pigrizia fatalistica», avrebbe detto Gramsci – di chi accetta supinamente il presente perché non è in grado di immaginare un’alternativa. La disgregazione del senso storico e dell’avvenire virtualmente diverso produce fisiologicamente l’abbandono dell’azione trasformativa come superamento delle contraddizioni di cui il presente è gravido. Per questo, sono convinto che il compito primario della filosofia consista nel tornare a pensare il presente come storia.

[Idolo Hoxhvogli] Dio è morto, ma Marx sembra vivo. Gli ideologi del mercatismo, con la loro fiducia ossessiva e assoluta nelle logiche liberiste, intonano da decenni un canto funebre sopra la bara del filosofo di Treviri. Come assillati da un demone, gli ultras mercatisti tentano di soffocare la riflessione marxista. Che utilità ha il pensiero di Marx nella diagnosi e nella cura di una crisi finanziaria che è diventata crisi dell’economia reale e dei debiti nazionali?

[Diego Fusaro] Marx è, per l’egemonia del pensiero unico neoliberale, l’equivalente delle mani insanguinate di Lady Macbeth, un’ossessione che non può mai essere congedata in via definitiva. Catalizzando il senso generale secondo cui, anche nell’epoca della fine della storia, qualcosa continua a mancare, la figura di Marx – la cui presenza si dà oggi per absentiam – si eleva a sineddoche delle due determinazioni irrinunciabili del rifiuto incondizionato del presente come destino e della ricerca di un riscatto per le offese non redente che si sono accumulate nella storia e che oggi sembrano aver raggiunto il loro grado massimo. Ripartire da Marx, oggi, significa riattivare il binomio esplosivo di critica e azione, ossia reimpadronirsi di un sapere vocazionalmente antiadattivo che sappia intrecciare fecondamente i due momenti interconnessi e solidali della critica glaciale dell’esistente (mostrandone la non-eternità e, dunque, la non-naturalezza) e del perseguimento di un’ulteriorità nobilitante rispetto alla miseria presente.


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