1. Come già rilevato in altro scritto, durante la crisi del 1929 l’esimio prof. Pigou (un economista di tutto rispetto, allievo e poi successore di Alfred Marshall alla cattedra di Economia al King’s College di Cambridge) sostenne che il motivo fondamentale delle difficoltà insorte era la non libera contrattazione del “fattore” lavoro (dovuta alla presenza di ormai forti associazioni sindacali) con salari non in linea con la produttività (marginale) del lavoro. Se si fosse seguita la sua impostazione, si sarebbe dovuto ridurre i salari. Il che del resto avvenne “naturalmente” a causa della vasta disoccupazione (tra il 25 e il 33% della forza lavoro nel ’32-’33). Tuttavia, il New Deal rooseveltiano (varato nel ’33) non tenne minimamente in considerazione proposte simili, anzi contravvenne in pieno pure al dogma liberista del pareggio di bilancio e varò una serie di misure di politica economica e di riforme comportanti precisamente un grande aumento della spesa pubblica in deficit poiché, come messo in luce qualche anno dopo nell’opera teorica di Keynes, per meglio combattere la crisi era soprattutto necessario sostenere la domanda complessiva (di beni di consumo e anche di investimento), una volta caduta quella “privata”.
Siamo tornati negli ultimi decenni a prima del ’29-’33, si è di nuovo in adorazione del pareggio di bilancio, delle draconiane misure che, per ridurre il debito pubblico, fanno crollare la capacità d’acquisto e quindi la domanda della collettività, ecc. Per di più, torna in voga la riduzione dei salari per rilanciare la crescita economica. Viene perfino ignorata la parte migliore dell’insegnamento neoclassico relativa alle capacità competitive degli imprenditori innovatori. Nessuna spinta a superarsi in avanti, imprenditori invece abbarbicati al vecchio e al tradizionale, ma che intendono trovare forza lavoro a buon mercato, tanto buono da lasciare in gravissime difficoltà i fornitori di tale merce, soprattutto giovani. Che questi la smettano di accoppiarsi, non facciano figli, si riducano a vivere di “radici”, magari coltivando qualche metro quadro di terreno dietro casa (ma non certo nelle città dove non esiste simile possibilità), non usino l’auto e vadano a fare le famose spese a km. zero, quelle proposte da perfetti sciocchi o forse furfantelli che si fingono critici dell’attuale società, proponendo soluzioni in linea con i desideri di gruppi economici ben scarsi in fatto di imprenditorialità.
Il prof. Pigou almeno si basava su una teoria certo intrisa di ideologia (come pure lo era quella inneggiante alle presunte virtù del libero commercio internazionale, ecc.) e tuttavia creduta con convinzione oltre che basata su un impianto metodologico e concettuale non banale. Oggi siamo alla più totale volgarità e meschinità dei “tecnici”, quelli che un tempo erano definiti “idioti con alto quoziente di intelligenza”; e oggi lo sono semplicemente con arroganza, ottusità e un armamentario fasullo di formulette e frasi fatte, buone comunque per il mezzo televisivo e giornalistico, dov’è impossibile condurre in porto un qualche ragionamento minimamente complesso, ormai non più alla portata di un pubblico di esseri regrediti intellettualmente e culturalmente. Abbiamo saputo, quasi per caso, che uno di questi “tecnici”, il prof. Grilli, se ne è uscito negli Usa con la positività dell’alta disoccupazione oggi esistente perché in questo modo, appunto, le imprese possono acquistare lavoro a basso prezzo o perfino gratis per periodi di “apprendistato” ecc. Sulla sensibilità di quest’individuo è meglio stendere un velo. E’ comunque un uomo che non se ne fa nulla del suo sapere, ammesso che si possa chiamare sapere. Tuttavia, non è un caso isolato; è tutta la classe dirigente, è tutto l’ambaradan dei suoi presunti specialisti ed esperti, a pensare simili “bestialità” dimostrando, oltre all’assenza di senso d’umanità, il totale fallimento di un sistema di insegnamento, in grado di produrre soltanto mostruosità da baraccone.
D’altronde, vi è stato chi ha criticato simile impostazione – si tratta in genere di personaggi del “centro-destra” – con somma incoerenza poiché nel contempo ha mostrato grande apprezzamento per la riforma pensionistica di un’altra ineffabile “tecnica”, la prof.sa Fornero, che ha di fatto allungato la vita lavorativa con effetti non certamente positivi sulla possibilità di trovare occupazione da parte dei giovani, specialmente in una situazione di crisi depressiva di lunga durata come si prospetta essere l’attuale. Di conseguenza, quanto dice il prof. Grilli è in perfetta linea con tutte le misure prese dal governo testé dimessosi; non ce n’è qualcuna da salvare come vorrebbero i “destri”. Il fatto vero è che ogni spezzone politico – e i sedicenti tecnici, Monti compreso, oscillano tra questo e quello fingendo d’essere super partes – cerca di accattivarsi le simpatie di quote di popolazione con diverse impostazioni lavorative e professionali.
Vi è chi difende la spesa pubblica, ma proprio nei suoi settori di spreco o di minore utilità sociale, per sostenere posizioni di relativo, magari minimo, privilegio ormai solidificatesi e stabilizzatesi in senso anche elettorale. C’è chi si batte contro l’eccessiva pressione fiscale soprattutto per le imprese poiché cerca voti nel bacino del lavoro autonomo e del cosiddetto “artigianato” (piccola imprenditoria). Personalmente, non sono contrario ad un alleggerimento della pressione fiscale e – udite e scandalizzatevi – nemmeno ad una evasione delle imposte; una piccola evasione, quella di chi fa certi lavori in nero per “sbarcare il lunario” (dati i salari e altri emolumenti del tutto grami) o quella di lavoratori autonomi (tipo idraulici, elettricisti, ecc.) che fanno minime riparazioni qua e là. Nemmeno sono del tutto contrario al mantenimento di certe spese pubbliche, magari meglio qualificandole e non effettuandole per puri scopi “clientelari” di fazioni politiche legate a dati gruppi di pressione, ecc.
In una crisi come quella attuale – lo ripeto: di lunga durata e tendenzialmente depressiva con sostanziale galleggiamento lungo una linea di crescita quasi orizzontale (in un tradizionale sistema d’assi cartesiano con il tempo sulle ascisse e la crescita sulle ordinate) – ritengo balorda l’ossessione del debito pubblico. Nemmeno cito lo spread, perché altrimenti mi esce dalla bocca (dalla penna) una sequela di oscenità e di pessimi auguri per coloro che ne hanno fatto, e continuano a farne, motivo di indecente propaganda. Del resto, sarei ancora più duro nei confronti di una popolazione che per gran parte ci è cascata in pieno e se ne è fatta condizionare, credendo ai vertici di questa meschina classe dirigente, ormai succube di poteri stranieri; ma non principalmente tedeschi (altra menzogna dei gazzettieri e politici italiani), bensì statunitensi e soprattutto quelli “democratici”.
2. Nella grande crisi iniziata con il crac del 1929, il New Deal (1933-37) ebbe effetti di momentaneo sollievo; dal ’36-’37 la crisi, nei suoi termini reali, tornò a manifestarsi. Essa si risolse definitivamente con la guerra mondiale. Ho già detto, nello scritto citato all’inizio, che ciò fu interpretato come risultato della forte spesa in armi, “beni” che non affluivano (ingorgando) i mercati nel mentre permettevano una intensa produzione di reddito con conseguente forte aumento della domanda. In realtà, ho sostenuto, la guerra risolse infine il problema della creazione di un centro regolatore nel campo interessato dal sistema produttivo di forma capitalistica; ed è questo centro – che per buona parte dell’800 era stato assicurato dall’Inghilterra – a garantire l’andamento comunque sinusoidale della linea rappresentativa della crescita nel suddetto sistema, senza però il verificarsi di crisi disastrose, non a caso ribattezzate dopo il 1945 recessioni. Le più grandi crisi – e non solo economiche (1907 e 1929-33), ma ancor più quelle belliche – sono frutto della mancanza di detto centro e del progressivo instaurarsi di una condizione di multipolarismo, poi sfociante nell’aperto policentrismo punteggiato da aspri conflitti tra potenze.
La crisi depressiva del 1873-96 fu appunto il segnale del graduale declino dell’allora potenza centrale inglese e del conseguente crescere del disordine globale. Quella crisi fu accompagnata da profondi rivolgimenti tecnologici e dal lancio di nuove produzioni con nascita di interi nuovi settori produttivi (la seconda “rivoluzione industriale”). Dopo la seconda guerra mondiale, vi fu un periodo abbastanza lungo in cui si pensò che le innovazioni (in specie di prodotto) fossero ormai per l’essenziale esaurite; si sarebbero introdotte soprattutto, e con investimenti di modeste proporzioni, innovazioni di processo in grado di condurre ad un notevole aumento della produttività del lavoro (e del sistema in genere), e semmai una serie di piccole innovazioni in prodotti “maturi” solo atte a migliorarne l’immagine onde favorire il “consumismo”, rendendoli obsoleti anzi tempo mentre erano ancora per l’essenziale adatti ad espletare la loro specifica funzione. Un errore clamoroso che anticipò di ben poco l’inizio di una terza rivoluzione industriale (con i settori dell’elettronica e informatica, delle biotecnologie, dell’aerospaziale, ecc.) e con l’introduzione di miglioramenti non proprio di sola facciata in beni già “maturi” tipo l’auto.
Chi non riusciva a vedere altro che le innovazioni di processo – con il corteggio della “qualità totale”, del “just in time” e del “magazzino zero”, del toyotismo od ohnismo, le cui mirabilie erano credute in specie da pezzi di sinistra ultra-anticapitalista, quella del comando capitalistico esercitato soprattutto dalle transnazionali dominatrici del mondo essendo ormai finita la funzione degli Stati nazionali, comando cui si sarebbero opposte le “masse” esistenti esclusivamente nei loro vuoti cervelli – pensò addirittura, crollati il “socialismo” (presunto) e l’Urss, all’ormai imminente trapasso di dominio mondiale dagli Usa al Giappone, cui portarono una iella maledetta tenuto conto del periodo di stagnazione in cui entrò immediatamente il paese asiatico e che non è stato ancora superato (anche perché si salda ora con la depressione mondiale). Gli stessi scervellati sostituirono allora in fretta e furia il Giappone con la Cina “trionfante”.
I cantori di simili scemenze hanno avuto comunque un merito: aver squalificato del tutto un fenomeno ormai esaurito da decenni, il comunismo, ridotto da robusto slancio rivoluzionario – che interessò soprattutto le grandi masse contadine (dirette da nuclei operativi che sapevano il fatto loro) nei paesi in fase di lotta di liberazione dal vecchio colonialismo – a predicazione di “buona umanità”, tanto più fastidiosa in quanto alcuni fingono di non essere religiosi nel mentre sostituiscono le antiche, e più dignitose, fedi in Dio con quella nell’Uomo, declinato secondo modalità da far prudere le mani e augurarsi le peggiori nequizie da parte dei concreti uomini, che devono battersi fra loro per sopravvivere.
Il crollo del “polo socialista” (con centro nell’Urss, che non ne garantiva ormai alcuno sviluppo, nemmeno attraverso recessioni) ha dato via libera agli Usa, la cui forza è apparsa in piena luce. Il Giappone, come appena rilevato, fu subito tolto dall’orizzonte dei possibili concorrenti, la Russia andò incontro ad un periodo di indebolimento disastroso, alla Cina è stata attribuita fin troppa importanza. Immagino anch’io che alla fine essa sarà uno dei contendenti in campo nel prossimo policentrismo, ma dovranno assai probabilmente passare non meno di un paio di decenni. Credo che nel frattempo si verificheranno rilevanti mutamenti dei suoi apparati politici al fine di renderli più adatti alla “struttura” dei rapporti sociali in via di tumultuosa trasformazione; altrimenti proprio il suo impetuoso sviluppo (attualmente un po’ in rallentamento) la condurrà in un mare fortemente procelloso, in cui il “nocchiere” non reggerà bene la rotta.
Nel decennio ’70 del XIX secolo, pur dopo la guerra di secessione negli Usa e la sconfitta della Francia ad opera della forte Prussia (subito dopo Germania), non si poteva predire immediatamente il declino dell’Inghilterra; fu però evidente la messa in discussione della sua centralità da parte delle potenze in crescita. La lunga crisi anglo-boera (con intervento, molto prudente e malfido, della Germania e vari giochi e giochetti delle diverse potenze) è tutto sommato una buona esemplificazione di quanto sta accadendo in questi anni e di quanto accadrà nel prossimo futuro [Detto per inciso; nelle due guerre anglo-boere (1880-81 e 1899-902), gli inglesi le presero spesso; non riuscirono a farcela solo per via militare, ma sfruttando pure giochi diplomatici (in parte neutralizzando la Germania) e utilizzando popolazioni autoctone in conflitto con i boeri (more solito, è un metodo di lotta sempre attuale). Nel 1901, gli inglesi istituirono campi di concentramento per boeri, con mortalità nettamente superiore a quella dei lager nazisti; nessuno li chiama però “campi di sterminio”, così si scrive la storia].
Anche oggi, sarebbe errato predire subito il declino della potenza Usa. Tuttavia, è indubbio che, con l’inizio del secolo, tale paese abbia incontrato crescenti difficoltà nello svolgere la funzione di “centro” dell’evoluzione mondiale. Tra il 1991 (fine dell’Urss e disfacimento della Russia, poi per fortuna arrestato) e il 2001, gli Usa poterono pensare a simile possibilità, anzi quasi ineluttabilità. Qualche minima velleità della Germania, espansasi verso i paesi dell’est europeo e i Balcani, fu frustrata nel 1999 con l’aggressione statunitense alla Serbia (Jugoslavia), giustificata dall’inesistente genocidio dei kosovari (accettato, fra l’altro, dal 95% degli intellettuali europei, soprattutto da quelli già ultrarivoluzionari e sessantottardi; ricordo ancora ciò che mi scrisse uno dei principali allievi di Althusser a commento del mio critico pamphlet sull’evento).
3. Oggi tuttavia, pur dando rilievo all’estrema, quasi eccessiva, prudenza di Russia e Cina in molte crisi internazionali degli ultimi tempi, direi che ci si è avviati, con lentezza e in tempi per null’affatto brevi, verso la situazione di multipolarismo in quanto fase transitoria al policentrismo (che nell’epoca precedente fu denominato imperialismo). Non è detto che si debba assistere all’inesorabile declino degli Stati Uniti; semplicemente essi dovranno rigiocarsi la partita che sembrava già vinta e archiviata nel 1991 (con il solo fastidio cinese). Negli ultimi due anni soprattutto, la potenza statunitense è apparsa in fase di rialzo, non però in grado di assicurare alcuna centralità coordinatrice; ha anzi accentuato il disordine globale impiegando ampiamente la strategia del caos.
Da tale gioco interattivo di alcuni principali paesi sono sorte le presenti difficoltà, di cui i sedicenti esperti hanno colto soprattutto il lato finanziario; solo di recente una parte d’essi ha iniziato a balbettare intorno agli aspetti reali della crisi. Intendiamoci bene: le connotazioni economiche di quest’ultima non sono certamente banali epifenomeni. Nell’immediato futuro andrà verificandosi un lungo seguito di eventi duri e penosi per le popolazioni del mondo, ivi comprese quelle al momento abitanti in paesi ad ancora intensa crescita (che hanno comunque un tenore di vita medio sociale decisamente inferiore a quello sussistente nei paesi capitalistici avanzati, però in arretramento). In un sistema capitalistico la sfera economica (produttiva e finanziaria) è investita da quel conflitto per la supremazia, che nelle formazioni sociali precedenti riguardava pressoché esclusivamente le sfere politico-bellica e ideologico-culturale. E’ precisamente detto conflitto a generare, di volta in volta, epoche di mono o invece policentrismo (con transizione rappresentata dal multipolarismo); epoche caratterizzate da un certo equilibrio – con relativo coordinamento dei vari paesi in una determinata vasta area geografico-sociale, equilibrio non esente comunque da oscillazioni minori – o invece da squilibri sempre più ravvicinati, intensi e riguardanti le diverse suddivisioni sociali dell’area in questione, sia pure non secondo una linearità di continua acutizzazione.
Da qui nasce il ri-presentarsi di una lunga onda di stagnazione economica, che è appunto la caratteristica della prima fase di scoordinamento e di squilibrio. L’economia (e la finanza) sono strumenti del conflitto, condotto politicamente mediante l’uso di sequenze di mosse strategiche. Un paese (gli Usa) è ancora nettamente più forte, magari ottiene successi in determinati periodi dell’epoca in considerazione; tuttavia, esso non ha più la forza necessaria a mantenere sotto controllo le diverse tensioni centrifughe. Queste si manifestano sul piano degli apparati politici e delle operazioni da essi svolte, ma anche nei modi e nell’ordine di vita delle popolazioni. I vari quadri sociali si vanno sbrecciando. L’impatto che prende inizialmente il davanti della scena è quello economico; è questo a colpire per primo la vita materiale delle persone con forti riflessi sulle loro stesse psicologie. Tutti quindi si gettano sui problemi economici, si disperano per la crescente difficoltà di mantenere i vecchi livelli di reddito e di spesa, cominciano ad aver paura dei progressi già fatti, li vivono quasi con senso di colpa (il “peccato di consumismo”), pensano che “tornare indietro” riassesterebbe i loro problemi, riporterebbe verso l’equilibrio.
Si tratta di un modo di pensare scusabile nella gente comune, ma non in chi governa e nei suoi “tirapiedi”; qui siamo ai confini di una criminale sottovalutazione dei processi – nella loro gravità e nella loro presumibile durata – attuata da cricche di “potenti” nel tentativo di mantenersi al vertice e di continuare a sfruttare la dabbenaggine delle maggioranze, la loro paura, cui consegue la sopportazione di taglieggiamenti senza fine che trasferiscono ricchezza dal 90% delle varie popolazioni ad una ristretta cerchia di parassiti e sanguisughe.
Va detto senza mezzi termini, e con questo concludo provvisoriamente, che la crisi iniziata nel 2008 presenta una serie di somiglianze con quella di fine secolo XIX. Questa fu contraddistinta da una deflazione di prezzi, la cui causa fu attribuita ai consistenti avanzamenti della seconda rivoluzione industriale con forte aumento della produttività. Pure oggi siamo in pieno “progresso tecnologico”: in dati settori, però, che restano appannaggio delle potenze in incipiente competizione (multipolare), mentre nei paesi resi subordinati a queste (tipo il nostro agli Usa) i “reparti strategici” sono in via di liquidazione o messi sotto il controllo dei più forti. Nel contempo, gruppi di avvoltoi – situati ai posti di comando in branche industriali mature (e non innovative) e in organismi finanziari dediti al mero prelievo predatorio – stanno devastando i paesi subordinati (vedi il “bell’esempio” dell’Italia) tramite apposite cosche politiche in putrefazione assistite da bande di sedicenti intellettuali, “pensatori a gettone”. Quanto alla deflazione, tempo al tempo; attendiamo ancora qualche altro anno di quest’andazzo apparentemente irresponsabile, in realtà teso appunto a favorire i predominanti (soprattutto quelli statunitensi), trattenendosi le opportune “mance”.
Continuiamo dunque a pensare ed analizzare la situazione con la consapevolezza della permanenza dentro una crisi di lunga durata, che presenta in piena evidenza i suoi aspetti economici, ma non dipende puramente (né essenzialmente) da questi, essendo il risultato dello scoordinamento in atto nel sistema mondiale con messa in moto di intensi processi squilibranti. E non si commetta ancora una volta l’errore di pensare che questi ultimi investano semplicemente il mercato globale a causa di “improprie” manovre finanziarie e della competizione fra imprese transnazionali. Stiamo più propriamente andando verso il multipolarismo, fase di transizione ad eventi particolarmente drammatici, che vedranno alcune potenze in decisa lotta per la primazia. Le prime “scaramucce” stanno già portando allo scombussolamento economico attraverso manovre tutt’altro che “improprie” come vogliono farci credere, blaterando circa possibili cooperazioni internazionali per mettere al bando i “cattivi finanzieri”. Nessun bando, solo uso intanto delle batterie economiche che sbriciolano le compagini sociali e rendono poco probabile l’eventualità di aggregazioni di “massa” tali da essere dirette da gruppi intenzionati a radicali cambiamenti delle attuali strutture di rapporti, lasciando così al governo e al potere chi semplicemente conduce la lotta per la preminenza d’uno dei vecchi gruppi di comando, responsabili dello sfacelo in progressione esponenziale.
Siamo circondati dall’inganno, perpetrato pagando gazzettieri, conduttori mediatici, “famosi pensatori”, tutti insieme appassionatamente impegnati a nasconderci le trame di centri strategici in conflitto. Dal loro duro e multiplo confronto (avvolto spesso nelle “mosse felpate” delle varie diplomazie) andrà emergendo, in un periodo di tempo di notevole lunghezza, un risultato finale che non sarà, come sempre accade, quello voluto da qualcuno di questi centri, bensì soltanto il “vettore di composizione” delle loro forze divergenti. La nostra analisi dovrà dunque vertere principalmente sui conflitti tra potenze e gruppi (pre e sub) dominanti; lasciamo ai banaloni, ai superficiali, la chiacchiera inconcludente sulla crisi esclusivamente economica (e soprattutto finanziaria). Cerchiamo invece di capire, come già fecero un tempo Lenin e compagni, le mosse di questi banditi che tengono in pugno le sorti dei popoli in una situazione mondiale che ormai esige il passaggio all’aspro scontro.