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RITORNIAMO SUL “LUOGO DEL….” (Lo Stato come “oggetto” del conflitto strategico) di GLG

Creato il 29 luglio 2013 da Conflittiestrategie

1. Ritorno su una questione recentissima e tuttavia già passata, quella dell’acquisto degli F35. Ci torno solo come spunto per una serie di considerazioni che a me paiono di un certo interesse. Di quell’operazione intendo soprattutto prendere in considerazione uno degli aspetti che l’hanno caratterizzata; quello di più alto significato, a mio avviso. Andando al sodo della faccenda, senza ricorrere ad ammorbidimenti linguistici di solito usati dalle Autorità, mi riferirò alla proibizione fatta al Parlamento di poter intervenire sulla decisione d’acquisto, considerata d’interesse nazionale primario e da non sottoporre a veto alcuno da parte di chi non avesse un’adeguata conoscenza delle esigenze della “difesa”. Si è sostenuto, senza mezzi termini, che la decisione sulla mossa da compiere spettava soltanto ai militari (“chiusi” nella Nato, di cui sappiamo chi è il dominus); l’intervento cruciale è però stato quello del presdelarep – rieletto per svolgere una serie di funzioni in merito al futuro del nostro paese – in quanto massimo referente delle strategie statunitensi nel territorio di quest’ultimo, soprattutto dopo che sono intervenute alcune difficoltà, appunto strategiche, in merito alle mosse compiute dagli Usa negli ultimi due anni in Nord Africa, Medio Oriente e zone adiacenti.

Innanzitutto sottolineo che l’intervento presidenziale e del Consiglio della Difesa mette termine alla sciocca e perniciosa tesi – di origine no global e “negroide” (nel senso di Toni Negri, chiariamo), seguita per un periodo da militanti “antimperialisti” di varie nazionalità, quelli interessati alle “moltitudini” – circa la fine della funzione degli Stati nazionali. L’Italia è uno Stato interno ad una Comunità (europea), che normalmente delibera sui nostri vincoli di bilancio, economici, commerciali e altro; eppure nemmeno lei può mettere il becco quando si tratti di rapporti bilaterali tra gli Usa e l’Italietta, specialmente in dati settori “particolari”.

In ogni caso, come ho avuto modo di sostenere spesso, non esiste alcuna fine degli Stati. Semplicemente, questi non sono dei “soggetti” a se stanti, come vengono sempre considerati da chi s’interessa della loro struttura in apparati, del diritto in quanto sistema di regolazione tra questi e tra essi e la cosiddetta “società civile”, ecc. Lo Stato è quanto è andato “coagulandosi” nel corso di lunghi secoli di storia di conflitti tra vari gruppi sociali, in cui il peso degli stessi è molto differente; quelli dotati dei più alti poteri decisionali sono sempre una minoranza in grado di acquisire influenza preminente grazie al controllo di vari fattori, qui non discussi, che consentono di esercitare l’egemonia politica, economica, culturale, ecc.

L’azione degli Stati è dunque espressione dei rapporti che, di volta in volta, vengono a stabilirsi tra questi gruppi minoritari con capacità egemoniche. E i gruppi in oggetto sono legati fra loro da rapporti di conflitto (con indispensabili alleanze miranti al conflitto) e/o di subordinazione, che trascendono i confini geografici (e socio-economici) dei vari paesi. Gli Stati non possono affatto abbandonare le loro funzioni, poiché altrimenti la situazione di conflitto e/o subordinazione tra gruppi sociali balzerebbe in primo piano, con totale disvelamento dei loro interessi, dei loro inganni e subdole o violente operazioni per condurre a buon fine il conseguimento della pre o sub-dominanza. Predicare la fine della funzione degli Stati è utile a dati gruppi pre o sub-dominanti proprio per sostenere che ormai nessuno deve più contestare la preminenza da essi assunta in aree geografico-sociali più o meno vaste (a seconda appunto della pre o sub-dominanza). L’azione eventualmente svolta da altri gruppi di questi agenti, intenzionati a scalzare quelli in auge in quella specifica fase o congiuntura, viene spesso ostacolata dalle ciance sulla “rivoluzione delle masse”, che affronterebbero direttamente i “gruppi dominanti” (pur essi indicati nel loro generico complesso) per rovesciarli tutti insieme e con atto rivoluzionario unico e indiviso.

I cialtroni predicatori di simili falsità, oggi per fortuna in ribasso, sono i rimasugli dei deliri del ’68 (in Italia proseguiti negli anni ’70 e oltre) e sono dei vigliacchi reazionari, da indicare al ludibrio di chi sia intenzionato ad analizzare gli andamenti effettivi dell’attuale epoca di incipiente crescita della lotta internazionale tra gruppi dominanti, che sarà sempre condotta tramite questi “falsi soggetti” detti Stati, la cui complessa strutturazione si è formata nel corso della storia proprio per condurre la lotta in questione, mascherando gli interessi di tali gruppi dietro quelli, solo presunti, di intere popolazioni, tuttavia ideologicamente convinte della funzione degli Stati in relazione alla semplice amministrazione degli “affari generali” della società. Affari generali fra cui vi è, in primo piano, la difesa: sia dell’ordine pubblico all’interno sia della salvezza del paese da nemici esterni.

I popoli vengono talmente assuefatti a tale concezione che, quando i propri Stati passano all’attacco di altri, la maggioranza si precipita a morire per la Patria “aggredita”. Il proprio paese è sempre quello aggredito, anche quando invade, massacra, distrugge, a migliaia di kilometri dalle sue frontiere. Come minimo, si fa credere al popolo che il “nemico” vuol mettere a repentaglio la sua cultura, le sue abitudini e tradizioni; in una parola, le sue libertà e i suoi “alti valori”, il suo modo di vivere. E’ dunque massimamente necessario che esso impugni le armi e vada ad uccidere, pagando nel contempo un “conveniente” tributo di sangue.

Lo Stato non è quindi solo l’organo che, come si dice spesso, ha il monopolio del possibile, eventuale, ma ad un certo punto sempre necessario, uso della violenza. Esso è utile in particolare perché nasconde dietro l’interesse generale (l’amministrazione degli affari dell’intera società) quello di particolari gruppi che, mediante l’azione di loro specifiche élites all’uopo organizzate, gestiscono i suoi apparati perfezionatisi e complessificatisi con il tempo. Lo Stato è un campo in cui si svolge la lotta tra tali gruppi; esso tuttavia, per sua costituzione peculiare, sembra porsi al di sopra del conflitto allo scopo di comporlo in una visione d’insieme. Lo scontro viene dunque spostato all’esterno; di conseguenza, le guerre tra paesi non possono che essere, in ultima analisi, guerre tra Stati. Se non si riesce in questo fine, se ad un certo punto si acutizza il confronto all’interno e si giunge alla cosiddetta guerra civile, nessuna conclusione della stessa si avrà fino a quando un qualche gruppo non conquista il potere di disporre degli apparati statali.

Ci fu l’illusione della fine degli Stati (non dall’oggi al domani, come pensato dagli anarchici, ma progressivamente, per via di esaurimento ed estinzione, come creduto dai comunisti) a causa del venir meno degli “antagonismi di classe” dopo la presunta rivoluzione proletaria; non mi diffondo in questo scritto su tale problema (da me trattato più volte), ma comunque quell’illusione è ormai tramontata. E’ bene considerarla quale importante argomento di “storia”, ma senza più praticare un’idea al presente del tutto peregrina, falsa e sviante, ancora propagandata soltanto da piccoli gruppi di miserabili interessati a perpetuare una stanca “lotta di classe”, assai utile al perdurare della loro burocratica (e perniciosa) sopravvivenza negli Stati che si pretendono “democratici” e garanti delle “libertà fondamentali”. La principale delle quali consiste nel continuare ad ingannare i subordinati e non decisori illudendoli che il potere dello Stato emana da loro, dal loro voto e dalle loro lotte per migliori condizioni di vita. Lotte da approvare senza riserve, sia chiaro, soltanto mettendo in luce la nefandezza dei costruttori di credenze circa il “potere delle masse”; per alcuni ideologi limitato al diritto di votare, per altri, molto “radicali”, esteso a quello di lottare.

2. Chiariti, per pochi cenni provvisori, alcuni problemi relativi al tanto misconosciuto od osannato Stato, è da rilevare che in linea di principio non è sbagliato ritenere alcuni ambiti dell’attività politica non suscettibili d’essere discussi dagli eletti dal “popolo”, secondo la mistica della presunta democrazia rappresentativa. Se dati gruppi hanno prevalso in quella fase del conflitto e controllano lo Stato nelle sue funzioni – non solo di esercizio di violenza e di regolazione dell’ordine, ma di rappresentanza degli interessi “generali”, sia pure secondo la concezione che di questi ultimi hanno i suddetti gruppi di maggior peso nelle decisioni – mi sembra ovvia la conclusione di una particolare attenzione prestata ai rapporti con altri Stati (alleati o conflittuali) con riguardo ad una serie di compiti specialmente riferiti alla nazione (al paese di quello Stato) del tipo appunto della difesa, e altri.

E’ ora di capire qualcosa della politica. Vi sono problemi che non possono essere affidati alle cure di quaquaraqua eletti al Parlamento, la cui unica occupazione è quella di piacere e compiacere i propri elettori. Anche i Servizi, ad esempio, devono essere sottratti alla morbosa curiosità di incompetenti e pasticcioni, che portano un paese al disastro. Per cui quando ho sentito protestare circa la decisione del Consiglio di Difesa (e di Napolitano) di non lasciare l’ultima parola sugli F35 al Parlamento, cioè ad una discussione tra questi incompetenti – proteste basate sulla lesione della democrazia, della trasparenza o, peggio ancora, per l’eccessivo costo di quegli aerei e la conseguente “spesa pazza” (per aerei che i chiacchieroni su internet, 24 ore su 24, giudicano tecnicamente inefficienti) – ho cordialmente mandato al diavolo simili fasulli. Vi sono questioni effettivamente tecniche che vanno sottratte, nella loro valutazione appunto tecnica, al giudizio di emeriti fanfaroni, sempre pronti ad immischiarsi di problemi di cui non capiscono gran che.

Diverso è affrontare la stessa questione dal punto di vista politico, con un minimo di cognizione di causa. Penso che sia meglio perdere un po’ di tempo con un caso di alcuni anni fa, durante la guerriglia sunnita in Irak contro le truppe statunitensi (fase oggi superata). Non conosco affatto quello che accadde veramente in quell’occasione, semplicemente credo si possano avanzare alcune supposizioni quanto meno realistiche. In quel periodo ricordo che si produsse pure il molto oscuro “incidente” in cui perse la vita un nostro agente dei Servizi, incidente che alcuni sciocchi vollero vedere come mirato all’uccisione (non riuscita) di una mediocre giornalista dell’ormai superfluo giornalino “Il Manifesto”. Pochissimi mesi prima, gli americani avevano scoperto alcuni depositi d’armi dei guerriglieri irakeni e sequestrato, fra l’altro, circa ventimila beretta senza numero di matricola; non cancellato, sia chiaro, poiché le pistole erano proprio state fabbricate senza questo numero ed erano quindi evidentemente dedicate a commerci di un “certo tipo”.

Si può credere che le beretta servissero molto contro le armi usate dagli Usa? Qualcuno dirà che hanno qualche utilità per attentati individuali (magari contro personaggi dotati di autorità, più probabilmente in distretti locali), ma la guerriglia sunnita non mi sembra che si dedicasse molto a tale tipo di operazioni. Allora, si pensa semplicemente che l’impresa Beretta si sia dedicata a “commerci illeciti” per sete di profitti? La nostra magistratura sarebbe senz’altro capace di pensarlo e mi meraviglia che all’epoca non sia intervenuta per mettere in galera un po’ di gente secondo le inveterate abitudini di queste torme di cavallette. In realtà, tramite mosse del genere si acquista una qualche influenza presso determinate forze, che magari un giorno possono tornare in auge – ed oggi, guarda un po’, il governo irakeno è in mano ai sunniti e sono gli sciiti passati in posizione maggiormente critica nei confronti degli Usa – cosicché si creano occasioni per l’apertura di spazi collaborativi; e non semplicemente di carattere strettamente economico.

Forse l’Italia (determinati ambiti politici italiani) ritenevano di poter un giorno sostituire gli americani, mettendosi in posizione di competizione con essi? Sarebbe da matti il sol pensarlo. Come vi sono imprese che si conquistano “posizioni di nicchia” nel bel mezzo della complessiva predominanza delle grandi imprese (oligopolistiche), così pure accade tra Stati (nel caso di paesi “minori”, cioè dei gruppi in quel momento preminenti in essi). L’Italia (non “tutta intera”, alcuni settori) pensava alla “nicchia”, non a confliggere con gli Stati Uniti. Non è, tuttavia, da escludere che, all’epoca del sequestro delle suddette pistole, alcuni ambienti americani si siano irritati (magari per motivi collaterali di impossibile conoscenza da parte nostra); con quel che a volte segue in casi del genere.

Potrei risalire a molti decenni prima, alla seconda metà degli anni ’60. Alcuni settori democristiani, in definitiva Moro, trattarono con l’allora presidente cileno Frei per impiantare una agenzia stampa che si diffuse sostanzialmente anche negli altri paesi sudamericani e poi, negli anni successivi, in tutto il terzo mondo e poi ancora in tutto il mondo, per cui non credo che quella origine abbia ancora peso (e perfino il ricordo sarà stato opportunamente obnubilato). Poiché in Cile non era in piedi alcuna guerriglia, né lotta armata di alcun genere, il metodo di penetrazione scelto – e sempre ricordando quando detto sui “prodotti di nicchia”, non certo su finalità di tipo più “invasivo” addirittura nel “giardino di casa” degli Stati Uniti – fu differente da quello impiegato in Iraq. Tuttavia, lo scopo non era diverso e nemmeno si poteva ridurre soltanto all’aiuto fornito ad una espansione degli affari italiani in quella zona; è ovvio che anche l’economia viene interessata da simili operazioni, ma non è la sola sfera implicata.

3. Ho voluto accennare ai due eventi appena riferiti affinché si capisca che non si possono sempre discutere in Parlamento, cioè in definitiva “davanti alla pubblica opinione”, alcuni fatti di non secondaria importanza con tutte le loro implicazioni, di cui molte restano sconosciute ai più. Sarebbe come se un giocatore di scacchi (indico un gioco, ma ne andrebbe bene un qualsiasi altro, ad es. il poker) si mettesse a disquisire a voce alta, con coloro che assistono alla partita (allo scontro, al conflitto), sulle “intelligenti” mosse da lui pensate per arrivare al buon esito (per lui) della stessa. La strategia usata in politica, come pure in una campagna militare, ecc., è un “gioco”; non si devono far sapere tutte le mosse che s’intende compiere per ricercare la vittoria, anzi molto spesso si “bluffa”, si induce l’avversario in errore in modo subdolo, con mistificazioni molteplici, e via dicendo.

La “democrazia” va bene quando è possibile procedere nella trasparenza e nell’aperta dichiarazione dei propri intenti. Tale comportamento è tuttavia consentito, e solo parzialmente, quando non esiste conflitto, quando un gruppo preminente di decisori non è insidiato da nessun altro e si rivolge perciò all’intera popolazione senza preoccupazione, fingendo di perseguire anche i suoi interessi, gli interessi presunti generali dell’intera collettività. In ogni caso, non si discute né si agisce del tutto apertamente, bensì sempre con le opportune coperture, altrimenti si chiarisce alla fin fine che l’interesse non è proprio generale, quello di “tutti”, come dichiarato ufficialmente. E perfino se qualche appartenente ai gruppi in netto predominio è convinto (ideologicamente) di servire tale interesse comune, non svelerà mai completamente le sue mosse, poiché è del tutto ovvio che una preminenza, per quanto completa, non elimina la presenza di oppositori, di gruppi in conflitto per quanto latente o “dormiente” in quella data fase. Figuriamoci quindi cosa avviene quando detto conflitto si “risveglia”, riesplode, quando per motivi vari si vanno formando gruppi che aspirano a sostituire quelli al potere e al governo della sedicente “cosa pubblica”.

E allora verso dove deve rivolgersi la critica a decisioni del tipo di quella dell’acquisto degli F35? Per quali motivi appare inaccettabile che qualcuno si arroghi il diritto di non voler discutere con più ampia pubblicità questa decisione? E se per caso la discussione parlamentare fosse stata consentita e si fosse arrivati, con l’avallo degli “eletti dal popolo”, alla stessa decisione, si sarebbe avuta la garanzia che quest’ultima era allora rispondente agli interessi del paese, della collettività nazionale che l’abita? E’ evidente che no. Il problema di fondo da discutere è il rapporto tra i centri, cui è demandata la decisione circa scelte riguardanti la politica di un dato paese, e altri centri situati in paesi diversi e da cui dipende la politica (in quanto lotta strategica) sul piano mondiale. E’ su questo punto che “casca l’asino”, per così dire, della decisione circa gli F35.

Se lo Stato non è semplicemente un “soggetto” compatto e unitario, cui viene demandata l’amministrazione di dati affari generali della società collocata in un dato ambito territoriale, bensì soprattutto un “oggetto” il cui controllo (e uso dei suoi apparati) dipende da una complessa rete di rapporti conflittuali, è ovvio che bisogna indagare la formazione e costituzione di questa rete, i gruppi (pre)dominanti in essa, dunque l’indirizzo seguito nell’uso degli apparati di un determinato Stato, ad es. quello italiano. Nella decisione relativa agli F35, il sintomo – nulla più che un sintomo – rivelatore della costituzione della rete in questione è il possibile controllo a distanza di tali aerei, il cui impiego deve quindi avvenire nella direzione decisa e voluta dal controllore e non da quello che appare, e soltanto appare, quale decisore finale di detto impiego. Il controllo risiede in apparati tecnici degli Usa, che possono neutralizzare l’impiego degli aerei se quest’ultimo non è in linea con le decisioni dei comandi militari di tale paese, sia pure magari prese sotto l’egida del “patto collettivo”, la Nato, pura emanazione e prolungamento di tali comandi e dunque della politica svolta dai (pre)dominanti statunitensi.

L’acquisto degli F35, dunque, non è funzionale alle scelte autonomamente compiute dallo Stato italiano, in quanto sia stata affidata a quest’ultimo la gestione della politica di difesa della società nazionale. I centri decisionali situati nel nostro paese sono, nella fase storica attuale, predominanti al suo interno – grazie ad un gioco conflittuale, in cui è coinvolta la popolazione (i suoi strati sociali), che di fatto è oggi convogliato verso la complicità comune dei “giocatori” in lotta (antiberlusconiani e berlusconiani, per andare al sodo) – ma nettamente subordinati agli interessi del “campo occidentale”, che è tuttora, come all’epoca del mondo bipolare, una rete di rapporti interstatali (perché intersocietari) al cui centro stanno i gruppi predominanti statunitensi. Questi ultimi – in definitiva, il complesso gioco conflittuale in svolgimento al loro interno, da cui promana poi di volta in volta la preminenza assunta in ogni data fase storica da uno o più di essi – sono all’origine della strategia generale di detto “campo”, in quanto area emanante determinati flussi d’influenza che si diramano in sede mondiale. Strategia generale appunto in mutamento a seconda dei gruppi predominanti al comando negli Usa in ogni data congiuntura.

Con questo è allora chiarito – senza tanti discorsi sulla trasparenza democratica o meno di date scelte a seconda che vengano assunte da un Parlamento o da gruppi più ristretti di decisori politici (con i loro prolungamenti militari) – come quell’acquisto sia dimostrazione della subordinazione italiana agli Stati Uniti. Capisco che è più facile buttarsi sul fatto che è stata violata la “democrazia” – e magari la “meravigliosa” Carta che da noi la garantirebbe – oppure dedicarsi a discussioni circa l’efficienza o meno di quegli aerei e dunque della congruità della spesa effettuata; e per di più mentre siamo tanto “in crisi”. Se uno capisse che cos’è in realtà questa crisi – politica (e di politica mondiale) molto più che economica – capirebbe anche che certe spese (dello Stato come qui inteso!) non sono (economicamente) eccessive; sono, molto più semplicemente, parte di una politica estera di subordinazione a centri dominanti stranieri (con vertice in quelli Usa) e non invece una scelta di “difesa nazionale” così come questa viene presentata al “poppolo”.

Coloro che però fanno scivolare la discussione verso la trasparenza democratica o l’eccesso di spese, mentre “siamo in crisi” (e per di più per acquisto di aerei inefficienti tecnicamente) sono di fatto conniventi con quelli che conducono – del tutto accortamente, dal loro punto di vista – una politica di subordinazione agli Usa, fra l’altro comportante alcuni vantaggi d’appartenenza d’area. Non sono nostri alleati; per certi versi, li considererei più perniciosi di quelli che portano avanti la politica estera da subdominanti in Italia. Non so se simili falsi critici siano in buona fede, e allora molto “crudi” in politica, oppure sottilmente farabutti. Non è l’essenziale. O si comincia a capire la politica, e a diffonderne i rudimenti, o altrimenti stiamo dalla parte degli attuali subdominanti; almeno ci guadagneremo qualcosa!


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