Ritorno a Gallipoli

Creato il 14 novembre 2014 da Cultura Salentina

14 novembre 2014 di Augusto Benemeglio

Carissimo Maurizio,

senza polvere e senza peso mi ritrovo in questo ottobre balordo, ora che il cielo sembra grigio stabile. Svegliandomi ho sentito la pioggia nelle ossa, e ho subito pensato ai tuoi tanti ombrelli di scorta di quel giorno freddo e piovoso di fine ottobre a Gallipoli, in quel nostro perdersi tra i vicoli che ricordano la casbah araba, in quell’aprire le serrature del silenzio che fa apparire la mappa siderale, e ci si inginocchia per quello spazio, quelle edicole lungo le strade strette e tortuose fiancheggiate da sorprendenti facciate barocche di palazzi patrizi abbandonate ; ho pensato che nessun ombrello ci avrebbe potuto riparare in quei nostri segreti passaggi, in cui il viandante ignaro – certamente non noi, pellegrini della nostalgia – può fingere di essersi smarrito fino a quando non si ritrova nella corte brulicante dei pescatori intenti a riammagliare le reti da pesca, o a contare l’orlo dei cominciamento quando le spine dorsali dei pesci stanno tutte stese, oppure in una bottega di barbiere un po’ ciarliero che sente su di sé – da buon gallipolino – tutto il peso della storia della sua città, pur non conoscendo nulla di monumenti, sarcofaghi, marmi, e neppure un solo nome dei suoi avi o eroi, nessun fatto, neppure un solo avvenimento di cui è scritto sulle pietre e si parla tanto nei libri.

Qui tutto è inaspettato come una volta, come mille anni fa, e l’impianto urbano sembra il risultato di un calcolo matematico dettato dagli spiriti del cielo (gli arabi furono grande maestri), dove, però, – alla resa dei conti – non si può dire nulla di certo, perché le proporzioni, i rapporti, le dimensioni non quadrano, non sono affatto perfetti. Anzi, non a caso ci si ritrova sempre in un labirinto in cui soffiano lunghe canne d’oro di vento e subito il mare è lì dietro, basta allungare la mano per acchiapparlo come in un quadro di Agesilao Flora. Fa da cornice all’Isola della Luce, – “Io non sono capace, amore, di farti un canto./Tu sei tutto di spine e di fuoco/ e mi tieni lontana dal tuo cuore pericoloso”/ S io non so bastarti alla gioia / ed è così poco l’incanto che riesco a donarti; allora ecco tu non mi vedrai mai più, se non nel vento, nell’urto e nello sperdimento. Io sarò luna riflessa, tu cielo e spada, tu tutto l’amore umano, io il velo leggero dell’aria che tenta e ritenta d’amarti per bene, nel mio grembo di splendore.

Nessuna Cordoba, con le sue strade nitide e piccolette, né i suoi patii, né il suono delle sue chitarre assomiglia a Gallipoli, che è di per sé non luogo reale, ma solo mito, leggenda, spunto poetico, categoria dello spirito, anche se nella folkloristica, nella cultura del popolo, nel suo contesto commerciale, nella sua sostanza, realtà geostorica che rimanda a espugnazioni incursioni assedi conquiste morti, essa sembra una città reale. Ma non è così. La sua natura è fatta di voci incatenate dentro, per ospiti del mattino che son disposti a fare di ogni giorni una festa e questo l’aveva capito Gabriele D’Annunzio, tanti anni fa, quando volle vedere – in primis – il Malladrone, orrida figura che ritroviamo perfino in Aspettando Godot, o almeno nella mia blasfema versione. Ed io, grazie a te, amico mio fedele e puro, che entri e esci dalla gola di un amo, sempre intatto e lindo, ho ritrovato tutto ciò nell’intreccio metafisico del centro storico delle nostre antiche passeggiate, e quando siamo ripartiti, ho risentito lo sciabordio dell’acqua sotto le ruote dell’auto, e quel silenzio silenzioso dei circuiti del sangue che scrive versi nella corsa delle vene, quel silenzio stellato, che ha il guizzo del delfino festante,ma che non urla, non geme, ma se ne sta quatto quatto come un cane astuto sul sedile posteriore della tua auto, predatore terribile in attesa del saccheggio completo della tua anima, e lo fa senza ritegno. Anche i gabbiani ormai sembrano prigionieri di una camicia di cielo che li stringe, che li rende sempre più simili a noi, rifiuti in questa massa di pack che assedia le periferie del mondo, nei prodotti nuovi che cacciano i vecchi dal mercato e il vecchio che non invecchia, regge il colpo, tiene saldo e non molla. Anche loro – poeti del cielo, senza più avventure, senza più fantasie, senza più il senso vero del volo-   sono chiusi in traiettorie grigie di consumatori rapidi tipo hot dog, vanno lungo i muraglioni dove turiste ignare, da luna park, vanno in giro con il secchio dei pesci avanzati.

Siamo entrati nella cattedrale di Sant’Agata dall’insolito carparo brunato, ma versatile come la pietra leccese, abbiamo ammirato le teste d’angelo dello Zimbalo, di profilo, col ciuffo perennemente stagliato verso il cielo, abbiamo danzato – leggeri – nel tempio del barocco salentino-gallipolino, – nella sua vasta e ricca luminosità rinascimentale, in quella vera e propria pinacoteca in cui Coppola Catalano e i Malinconico costruivano,con le dita legate alla tastiera dei pennelli, una sinfonia di colori, un paesaggio di vibrazioni sonore e colorate stando seduti sull’orlo dell’abisso, sotto la coltre degli scoppi e gli urti dell’onda, dei gridi, del sangue, nell’insidia nera che c’è sempre stata nel doppio fondo dell’anima, delle navi, o nel doppio petto delle persone. Erano artisti appassionati e lampeggianti, pieni di energia sonora e colorata, e pieni di illusioni, – come noi, in fondo – che ci caricano di un’attesa infinita, e raccontano di gridi e torture di santi e di martiri, gridi così umanamente veri, segni incancellabili di un poema immortale, di una promessa che è eterna.

Era il mattino del 25 ottobre 2014, e tutte le chiese del lungomare – dalla Purità col trittico maiolicato sulla facciata, a quella del Malladrone, quella del Rosario e del Crocifisso erano chiuse, e ci rivelavano il male oscuro di questa nostra società, di questa nostra civiltà, di questa nostra epoca che corre avanti senza senso, quando non ce ne sarebbe alcun bisogno, e dimentica, lascia per sempre quei mondi perduti della bellezza, quei mondi che – tra non molto – forse già ora, non saranno più compresi.

Io credo ancora nel segreto che sta dentro una foglia di fico (il vero albero del Bene e del Male) o nel frutto carnoso, che si apre come una fanciulla schiude il suo sesso intatto, vergine. Da ragazzi, con mio fratello dalla faccia furba e spettinata giocavamo a tutto, perfino a quale figura ci sarebbe stata nel nocciolo di una pesca o di un’albicocca, di solito era una bandiera bianca con l’asta rovesciata, e chi vinceva aveva diritto di mangiarlo. E’ per avventurarmi nella memoria – anche oggi che è lunedì a Malafede e tutte le sale e i negozi sono chiusi, e sembra così lungo il tempo delle signore, così abbandonate le creature del mondo, così invisibili le cose di tutti i giorni, che chiedo l’impossibile, che mi batto col vento e con la notte, che sbando di continuo e mi affanno senza senso, e ripenso a lui, al nostro gioco sempre battagliero, dalle biglie ( vedrone) alla lippa ( nizza), o alla trottola (il picchio) e ai buchi di luce tra gli interstizi; penso a tutto ciò che si nascondeva dietro il cielo, tra le inferriate della loggetta e le stelle, e capisco che abbiamo buttato via tutto il miele della vita, già allora, ci siamo messi un sasso dentro la voce e via, lontano, senza parlarci per anni, volati con la zaino nero sulle navi, tu da una parte, io dall’altra, a dormire sulle cuccette di lamiera e ruggine ; era uno sfacelo per i timpani, e anche per le ossa, questo va detto, per amore della verità; ed era tutto rotto, la nave la casa, la faccia, la mano tesa, e anche il buio era ammaccato, ti si infilava nelle ossa, come capita ai giocatori che ritornano a casa quand’è alba sempre perdenti, disfatti e pieni di sonno. Ormai è un anno che è morto mio fratello, amico mio, e io sento l’intoppo del pensiero da tutte le parti, da tutte quelle sponde arginanti che formano lo schema. Vorrei stare ancora un poco con te, nelle tue torri di carta, tra le ossa dei fantasmi delle parole, tra i tarli e gli scricchiolii che formano quei labirinti della tua casa. Mi sento tutta la polvere dentro la bocca, tutta la terra che ficcarono nelle mani trafitte di Gesù Cristo, la sua guancia bucata, la sua offesa dell’ora spenta, la scena della croce che si ripete ogni giorno e si fa preghiera. Mai avrei creduto che una morte fosse così, un secco grumo sputato, una tolda increpata, un’acqua tutta stagnante, una bestia zoppa, una pietà dentro la camera del fiato col sonno rovesciato sul cuscino con gocce tossiche, mai avrei pensato che dentro il suo petto senza più respiro si stendesse un cielo fitto di dolore, quella sua mano livida, il tempo duro del mondo, il tempo scaduto del ritorno dentro una nascita che non sappiamo, che non ricordiamo, che non vogliamo. Ora qualcosa chiede alla mia inutile esistenza, alla mia anima ingombra di tante chincaglierie, una sforbiciata di ricordi che non sono altro che abbai di voci che tempestano il mio cranio fatto di piccoli ossi dell’interiore e materia grigia della discordia. Questo è il mio due novembre: come mai potrò dimenticarlo?


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