Ritorno a Londra

Creato il 15 luglio 2012 da Albix

Capitolo Settimo – The Tube

 

Quel lunedì mi alzai prima del solito. Eravamo tutti convocati dal “Grande Boss”, in ufficio, per una riunione generale, e bisognava presentarsi puntuali.

Appena mi fui lasciato   alle spalle il quartiere di Willesden Green, con le case a due piani circondate da viali alberati e giardini recintati da siepi ben curate,  con le bottiglie del latte e i giornali che aspettavano davanti alle porte di dare il buongiorno a chi ancora non si era levato, ed ebbi imboccato la Kilburn High Rd, lo scenario cambiò di colpo: sulla via, una lunga ed ampia discesa che porta dritta, dritta, dopo chilometri di asfalto, a Marble Arch, ultima porta prima dell’West End per chi proviene dai quartieri residenziali del Nord-Ovest, una colonna sterminata di auto, interrotta solo dai mastodontici bus rossi a due piani (i famosi “double decks” di linea) e da qualche Austin nera adibita a taxi metropolitano,   si snodava interminabile sino all’orizzonte visibile.

Il serpentone di lamiere colorate, emettendo un mefitico odore di gas di scarico, così intenso da rendere l’aria irrespirabile, procede con lentezza esasperante, quasi strisciando sul dorso di gomma nera. Solo le motociclette e i motorini, destreggiandosi in tortuose gimkane, riescono a procedere un poco speditamente verso la Londra che conta: con le sue banche, i suoi uffici, le aule giudiziarie e le sue Corti, le assemblee legislative con gli scranni secolari della più vecchia democrazia del mondo moderno; i parchi, grandi e piccoli, disseminati in tutta l’area, per il riciclaggio dell’aria inquinata; i templi del consumo, dalle vetrine abbaglianti e invitanti, con le arroganze, le miserie e la vanagloria di una società ancora immersa e stordita dall’opulento benessere materiale.

Di fronte alla stazione della metropolitana, le strisce pedonali obbligano le spire del mostro ad aprire un varco per consentire il passaggio di qualche impavido pedone.

Alla biglietteria trovo una fila notevole. La gente, però, ordinata e paziente, paga senza batter ciglio le esorbitanti tariffe che la London Transport ha fissato, grosso modo, nella misura media di dieci pence per ogni stazione dell’Underground, sino ad un massimo di una sterlina e mezza.

 Ma con quella cifra, in un solo giorno, si poteva girare per tutta la rete sotterranea, il che equivale a dire che si poteva girare per tutta Londra, sobborghi compresi.  Infatti, le nove linee ferroviarie sotterranee  all’epoca funzionanti, coprivano la sconfinata  superficie della metropoli londinese dal sud del Tamigi (Richmond, Wimbledon, Morden e Brixton) all’estremo Nord ( Stanmore, Edgware, High Barnet e Cockfosters); e da ovest (Heathrow, Ealing e Uxbridge) ad est (Upminster, Walthamstaw e Ongar), con una rete che al centro si faceva più fitta di stazioni di cambio, snodi e coincidenze, soprattutto nel rettangolo “magico” che aveva i suoi quattro vertici nelle stazioni di Paddington, Earl’s Court, Tower Hill e Moorgate, passando per le fondamentali stazioni di Euston, King’s Cross St Pancreas e Victoria, per un totale di migliaia  di chilometri lineari.

Con cinque sterline poi, si poteva anche acquistare un abbonamento settimanale per coprire una distanza media di una ventina di stazioni al giorno. Tale  somma costituiva all’incirca un ottavo della paga settimanale di un operaio generico.

Considerando l’incredibile frequenza con cui le stazioni principali venivano  servite dai treni e, nel complesso, la buona efficienza del servizio, tali tariffe non erano poi da reputarsi così alte e salate, ma anzi  potevano e dovevano apparire congrue e giustificabili.

Ma a quel tempo, la visione distorta che si aveva della società, induceva a vedere i trasporti (soprattutto quelli pubblici) come parte di un sistema tutto proteso allo sfruttamento dei lavoratori proletari, ed ogni stratagemma per non pagare il biglietto veniva considerato non solo legittimo, ma addirittura doveroso, tanto più che il costo del servizio, se sostenuto realmente, avrebbe inciso considerevolmente nella residua capacità di spesa del cittadino contribuente.

Non mancavano certamente i controlli ed i controllori. Oh non di certo! Innanzitutto l’ingresso alle stazioni era consentito solo con i biglietti o gli abbonamenti ufficiali che, dotati di una banda magnetica, infilati in apposite guide, facevano scattare automaticamente le barriere girevoli di ingresso, permettendo così l’accesso ai treni,  a tutti i passeggeri che ne fossero stati provvisti.

Inoltre, all’uscita, bisognava esibire lo stesso valido documento di viaggio al personale di controllo.

Appresi dai miei maestri (italiani, inglesi e portoghesi in genere) che qualsiasi biglietto (anche quello da 10 pence) era abilitato ad azionare le barriere di ingresso della metropolitana, non una, ma infinite volte. Quindi il problema ingresso era facilmente risolto. Più delicato era quello dell’uscita. Poiché, chiosavano ancora i sullodati maestri, un uomo, ogni uomo, sino a prova contraria dice il vero, e dato che eccezionalmente i guardiani all’uscita sono  autorizzati ad accettare l’importo in contanti della corsa da parte dei passeggeri che, a causa di un legittimo impedimento non siano  in grado di esibire un regolare documento di viaggio, tu all’uscita  puoi  consegnare  10 pence in contanti e dichiarare  che provieni dalla stazione metropolitana immediatamente precedente e vedrai che tutto filerà liscio.

Mentire sapendo di mentire, si sa, è un’arte di pochi. Ma se chi  accerta la verità è complice del testimone, allora è tutto più facile! D’altro canto chi può negare di fronte agli uomini che esistono verità totali e verità parziali? E chi può affermare che una verità parziale sia  una bugia? E se tu, venendo dal lontano capolinea affermi di essere passato (e quindi di provenire) dalla stazione immediatamente precedente, stai forse mentendo veramente del tutto?

Tuttavia i miei patemi d’animo iniziali, col tempo, furono superati; mi confortò, insieme all’abitudine, la rapacità con cui le mani sudaticcie dei controllori si serravano avidamente sulle monete, pegno di un immaginario e veloce viaggio, nonché prova provata della marcescenza e della corruttela che dilagava nei gangli vitali del sistema. E si viaggiava gratis (o quasi). Mi piacque tanto questo metodo che quando i guardiani di periferia pretesero (unilateralmente) di aumentare la tangente, decisi di sfruttare la posizione favorevole della mia abitazione, unitamente al fatto che la banda magnetica di ogni  singolo biglietto ti consentiva in effetti più di un passaggio attraverso le barriere di ingresso.

Vivendo così in una casa che stava quasi a metà strada tra due stazioni metropolitane,  Willesden Green e Kilburn Road, escogitai un trucco elementare ma sicuro.  Al mattino facevo un biglietto da dieci  pence alla stazione sud, che raggiungevo a piedi da casa mia.

All’uscita di West End mi inventavo ogni giorno qualcosa: ma lì, era più facile passare per  uno dei tanti  turisti imbranati,  che essendosi persi nei meandri di quella intricata ragnatela che è la London Underground, potevano  cavarsela con una mancia di  massimo due monete da dieci pence.

Alla sera, poi, proveniente dall’West End, scendevo a quella nord, consegnando ai controllori il biglietto regolarmente acquistato al mattino.

E considerando che il mio posto di lavoro distava ben sette stazioni da casa, alla fine di ogni giornata avevo risparmiato, con questo stratagemma, più di una sterlina.

A lungo andare, però, questi metodi mi causarono un certo disagio. E ancor oggi, non so sia stata la paura di venir preso senza biglietto, o il rimorso inconscio di ciò che facevo, o infine il reale, claustrofobico terrore di trovarmi racchiuso nelle viscere della terra, il fatto sta che sono rimasto lontano dalle metropolitane sotterranee di tutto il mondo per alcuni decenni.

All’ingresso la piattaforma è piena zeppa di gente in attesa del prossimo treno: per lo più si tratta di impiegatucci, cuochi, autisti, cameriere, segretarie, operai e quant’altro si riversa nell’West End quotidianamente in cerca di pane o di gloria. Inglesi, irlandesi, scozzesi, indiani, pakistani, birmani, jamaicani, greci, italiani, portoghesi, spagnoli, polacchi, tutti sulla stessa grande piattaforma, aspettando un treno che come una gigantesca esplosione li avrebbe distribuiti nei punti più diversi dell’immensa città, pronti ad iniziare un’altra settimana di noia, da detrarre al tempo della vita; un’altra settimana senza spiegazioni, senza fede, senza pace: sballottati nell’oceano della propaganda, abbagliati dalle luci, dalla televisione, confusi dalle tante verità, tristi, rassegnati come adesso, aspettando un treno troppo carico, troppo pieno.

Qualcuno riesce a infilarsi, sgomitando istericamente, ma i più aspettano il prossimo arrivo. A quest’ora i treni viaggiano in successione. Eccone infatti subito un altro. Lo riempiamo sino a scoppiare e qualcuno, ancora, resta fuori. In quella situazione, tutti costipati, uno addosso all’altro, il solo pensiero  di correre il rischio che il treno si arresti in mezzo alla galleria (succede spesso, a Londra, come nel resto del mondo ferroviario sotterraneo)  ti può generare  un attacco di panico. E se l’aria finisse, mentre siamo qua sotto? E se non vedessimo mai più la luce del sole?

Sarei rimasto a terra anch’io se non ci fosse l’adunata generale voluta dal Grande Capo, e per una volta Terry ci ha chiesto di arrivare puntuali.

Subito il treno si infila nella galleria: un cunicolo stretto dove lo sferragliare sui binari è reso più sordo dalla pressione che avverti forte sui timpani.

La gente ha gli occhi puntati sulla pubblicità, lungo le pareti superiori, all’altezza degli assi e delle impugnature per reggersi; oppure legge, fa i cruciverba, dorme. Qualcuno si guarda in giro, distrattamente, per non pensare.

In tanti anni, non ricordo di avere mai visto due persone conversare nell’Underground.

Alla stazione successiva un nuovo carico umano, pur distribuito nelle numerose carrozze del convoglio,  riduce ancora di più gli spazi per i passeggeri. Mi ritrovo alle spalle di una ragazza dalla inconfondibile testa lanosa: coi capelli nerissimi, splendenti, avvolti per boccoli colorati e che visti da così vicino sono davvero belli; emanano un odore piacevole e, cosa più sorprendente, sembrano lana, proprio come quella che usano le nostre donne per fare la maglia, come mi ha sottolineato una volta Argeel, un amico giamaicano conosciuto ai gelati; un altro interprete fantasioso della strada: un aspirante regista che in attesa di cose più serie, cerca di cogliere con la sua cinepresa gli aspetti più interessanti della vita all’aria aperta e inquinata della metropoli e di fermarla nella sua pellicola.

La ragazza ha una borsa elegante a tracolla;   nella calca e nell’assestamento che consegue al precedente imbarco, un portafoglio di pelle marrone scura si ritrova a sporgere pericolosamente dalla mia parte. Attiro la sua attenzione: mi sorride e mi ringrazia, ricacciandolo non senza difficoltà all’interno della borsa. A mo’ di commento aggiunge, con un sorriso ancor più affascinante, che comunque il lunedì è sempre vuoto. A causa delle contorsioni che è stata costretta a fare, ora ci ritroviamo vis à vis;  la sua capigliatura sembra un casco modellato sul viso splendido, che si erge su un collo maestoso:una Madonna nera di un improbabile Modigliani in salsa giamaicana.

Ci guardiamo negli occhi, favoriti e costretti dalla posizione, che fermata dopo fermata, abbiamo consolidato.

Vorrei  dirle qualcosa ma non ci riesco. Mi blocca l’incanto di quel magico momento o forse il ricordo di ciò che mi disse Argeel, a titolo di scuse e di spiegazione per il contegno ostile che mi riservarono a casa sua alcuni suoi connazionali, giamaicani e razzisti.

-“ Ce l’hanno con i bianchi inglesi perché sono venuti a casa nostra a portare non si sa bene quale civiltà; e senza che nessuno li avesse chiamati, in effetti. Sono sbarcati a imporci le loro idee, con le loro armi; poi siamo dovuti venir qui, perché molti di noi si sono fatti illudere, o magari per sfuggire a quella realtà che con il loro arrivo era divenuta opprimente: con tutte quelle differenze tra ricchi e poveri, e tutte quelle diavolerie e invenzioni che fanno dell’uomo uno schiavo e lo fanno ammattire davvero. Ma noi, anche se siamo nati qui, siamo giamaicani, nonostante la cittadinanza sul passaporto. Noi non crediamo nel Dio degli Inglesi, che non esiste; quel Dio che loro usano come schermo di potere ma non è Gesù; noi non crediamo alla televisione e neanche in un governo fatto di uomini che non vedi mai; con i quali non parli mai e che neanche ti conoscono. Vaffanculo a loro! Ci hanno soggiogati prima, poi ci hanno chiamati qui a lavorare, senza accettare mai niente della nostra cultura e della nostra civiltà! Lo sai che tanti fratelli vengono arrestati soltanto perché fumano la marijuana?  Merda! La fumano come l’ha sempre fumata la nostra gente, capisci? Per noi è o.k., fa parte di noi,  capisci? E questi maiali ci arrestano, ci sfottono, ci picchiano continuando a considerarci ciò che ci hanno sempre considerato, sin da quando sono sbarcati la prima volta nella nostra isola: dei selvaggi! Ma noi continueremo a lottare, e ti dirò questo: stiamo crescendo e maturando di giorno in giorno la nostra via alla riscossa per la libertà. Un giorno non troppo lontano, il nostro spirito di guerrieri risorgerà e ci guiderà alla vittoria!”

E io sono pressocché incollato a questa principessa nera che discende da un popolo di guerrieri, ma ho quasi paura che le nostre rispettive civiltà costituiscano tra noi  una barriera  di incomunicabilità. Eppure a pensarci bene, io non sono mica un inglese! Peccato non averci pensato prima! Ormai ho solo il tempo di dirle che  la mia fermata è la prossima.

-“ Anch’io scendo alla seguente!” – mi fa lei sorridendo ancora su una dentatura resa ancor più bianca e splendente dal colore della sua pelle.

-“Splendido!” – rispondo io tutto contento; non so resistere all’impulso di stringerle la mano quando il treno comincia la sua frenata. Lei contraccambia la stretta, sbilanciata verso di me dal possente attrito. Il contatto con la sua pelle dura ma odorosa e calda non è meno piacevole del contatto con la più soave delle pelli chiare, segno confortante che siamo di certo parti di un unico tutto.

Finiamo in una “CAF” affollata e chiassosa dove a quell’ora gli odori predominanti sono quelli delle classiche uova fritte con la pancetta, patate fritte (le famose “chips”), fagioli in umido, salsicciotti arrosto, pane carrè tostato e imburrato,  con l’aggiunta di montagne di “marmalade” (marmellata all’arancia) e fiumi di thè, latte e caffè.

Sediamo in fondo e consumiamo la nostra ricca colazione. Si chiama “Joy”, e mai nome di battesimo fu così azzeccato. Nonostante il suo aspetto da “vamp” è una ragazza dall’animo semplice. Il tono della sua voce, dolce e calmo, mi fa pensare al suono del mare; quel mareggiare costante e tranquillo delle giornate d’estate che sembra di rivedere negli occhi di certe persone dal carattere pacato e che come il mare hanno pronto però anche l’impeto della burrasca, quando il vento della vita chiama all’impennata dell’anima.

Parla e sorride in modo naturale ed io la guardo incantato, con ammirazione, come si guarda una regina al cinema, mentre mi racconta dei suoi studi alla Scuola di Danza, Recitazione e Canto; del suo amore e della sua voglia di divertire i bambini; dei suoi lavoretti estivi e vacanzieri, uguali a quelli di tutti gli studenti londinesi, come portalettere, cameriera, assistente, segretaria; del suo appuntamento di questo lunedì mattina in un’agenzia per un lavoro, forse in teatro o chissà!

Splendida, meravigliosa, irresistibile Joy, nella tua camicia colorata e nei tuoi calzoni di pelle; pura, ingenua, fantastica fata nera delle mie più antiche fiabe: come puoi esistere in questo mondo? Quale segreto è racchiuso nella tua testa principesca?

Osservo questo foglietto sul tavolo come se potesse dare una risposta ai miei perché: un numero di telefono, solo un numero di telefono per saperne di più sull’amore, sulla delusione, sulla vita.

Amore, spontaneo amore, naturale, libero amore, davvero difficile incontrarti dove la violenza e la paura si rincorrono feroci come due belve impazzite; dove  i nostri cuori tacciono, dominati da spietate  e severe regole; dove sadismo e masochismo sono il nostro credo, la nostra religione, la nostra vita e dove la nostra felicità è barattata con il benessere; le nostre angosce solo appena sommerse sotto questa cenere di fatua sicurezza che al primo vento ci lascerà smarriti e piangenti, di nuovo, come il giorno che siamo nati.

Ma un numero di telefono è molto di più di tutto questo, quando odora di Joy.


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