Ritorno a Londra

Creato il 31 marzo 2012 da Albix

CAPITOLO PRIMO-Parte Prima
West End e East End

Le strade di Londra, soprattutto quelle del centro, nelle ore diurne sono dominate dagli Street’s traders.

Gli “street’s traders”, cui la traduzione italiana di venditori ambulanti non rende che parzialmente il senso, costituivano un microcosmo nelle strade di Londra, ove articolavano i loro numerosi ingranaggi.

Erano di tutto e dappertutto: giornalai, lattai, fruttivendoli, autisti, pittori, musicisti, venditori tra i più vari e disparati, specchiai di Carnaby street, barboni, predicatori, mistici e vaneggiatori, uomini-sandwich, artisti, cialtroni, parolieri, imbroglioni e imbonitori, perdigiorno, ruffiani, prostitute, nobili decaduti, adescatori, lavavetri, spazzini, intervistatori, finti e veri spacciatori, pubblicitari, garzoni, punk, fricchettoni e rockettari e chi più ne ha più ne metta.

Tutti potevano incontrarsi in quel microcosmo circolare, senza capo nè coda, dedalo intrecciato di vicoli, viali, strade secondarie e arterie principali, tutte misteriosamente unite come  una rete osmotica di vasi comunicanti dove i fiumi, torrenti e mari, camminano in una duplice direzione, senza fermarsi mai, un corpo vivo il cui cuore pulsante è l’West End. Al suo interno si ritaglia una serie ancor più intricata di vie e viuzze che va sotto il nome di Soho, dove gli adescatori e le prostitute (in regolare e autorizzata veste professionale) hanno il loro regno.

Le prostitute, ad onor del vero, solo indirettamente potevano essere considerate operatrici “della strada”. Nella mentalità inglese, infatti, una “battona” è totalmente inconcepibile. In Inghilterra tutto si può fare purchè, trattandosi di sesso, non si sappia in giro. Un “si fa ma non si dice” compassato e discreto, tollerato ma mai apertamente ammesso, un atteggiamento di ipocrita e paternalistica accondiscendenza di sicuro e genuino retaggio vittoriano che neppure i movimenti di liberazione degli anni sessanta erano riusciti a spazzar via.

Chi opera nella strada è lui: l’adescatore; colui che fa da trait-d’union verso il paradiso del proibito, ben protetto dagli strali dei benpensanti dal pudore facile, nei sexy-shops. Questi negozi dalle vetrine opache, al tempo sconosciuti e vietati nel nostro Paese,  erano ufficialmente autorizzati per la vendita ed il noleggio di video cassette e riviste specializzate “hard-core” ma in realtà, e tutti lo sapevano, erano sede di commercio infame, ricettacolo ideale per guardoni pruriginosi e pervertiti di ogni genere, repressi sado-maso, forniti a piano terra di protesi idonee al piacere e al dispiacere (fruste, vibratori, seni finti, bambole gonfiabili e sexy-paraphernalia varia) ed appartamentini riservati, sale di proiezione, cellette erotiche con spioncino ed altro ancora ai piani superiori.

Ma se la notte Soho è il cuore pulsante della Londra turistica e godereccia, di giorno il quartiere si uniforma al resto del West End: un enorme centro commerciale e di servizi nelle cui vene scorre un fiume infinito di gente, di mezzi motorizzati e di danaro che attinge un continuo ricambio di nuova vita dalle invisibili arterie dell’immensa rete sotterranea del metrò londinese.

La presenza di questa massa di plancton metropolitano aveva consentito,  in quelle strade,  il sorgere di una variegata fauna di venditori,  tra cui i fruttivendoli spiccavano sicuramente  sia per i variopinti colori delle loro merci , sia perchè i loro carretti (o stalls) venivano sistemati nei più affollati crocicchi e per lo più lungo la Oxford Street.
La loro frutta , tanto bella e appariscente da sembrare finta, spiccava più per qualità e forma che per quantità.

I “fruit’stallers” in effetti vendevano ai passanti, fossero essi abitudinari del“lunch-time” volante,  oppure occasionali turisti,   una mela rossa della California, una “Granny Smith” verdognola del Sudafrica o ancora un cartoccio d’uva siciliana , una banana  o,  magari, ai più esigenti e sofisticati, un avogadro tagliato a metà, fornito con sale e cucchiaino “usa e getta”. Mentre le  poche massaie o ai ristoratori della zona,   trovavano nel vicino mercato di Berwick street prezzi e scelta decisamente più ampi e convenienti.

La “London Fruits Sellers Company” (da cui dipendevano questi venditori di frutta affatto particolari) era  certamente una società con tutte le carte  in regola: autorizzazioni comunali di vendita; licenza di occupazione di suolo pubblico; tesserino di idoneità sanitaria e fors’anche regolari e sostanziosi pagamenti al Grande  Socio Statale:  il vorace Fisco della Corona.

Il vertice societario era quasi interamente formato da Ebrei, eterni e abili finanzieri, sempre  alla ricerca di investimenti e profitti, mentre quello organizzativo, sul campo, per così dire, era in mano agli Inglesi.

In particolare i venditori, che nelle ore di punta erano due per postazione, venivano dal quartiere denominato “East London”, città nella città, sola, vera, ultima Londra per chi si sentiva legittimamente e autenticamente londinese.

La concentrazione ad est del Tamigi dei discendenti degli antichi abitanti di Londinium era proceduta di pari passo alla espansione della capitale inglese ed aveva assunto il senso  e le dimensioni di una vera e propria ritirata strategica nei primi lustri della seconda metà del secolo ventesimo, quando il boom turistico di massa finì per consacrare Londra come Capitale d’Europa.
Il grosso sviluppo commerciale del centro storico aveva fatto lievitare i prezzi delle case e le poche aree edificabili che si rendevano disponibili venivano acquistate da vecchi e nuovi ricchi, tutti smaniosi di investire in un’area che il loro infallibile fiuto giudicava sempre più prossima a divenire un “El Dorado”grazie soprattutto al turismo, come poi sarebbe effettivamente successo.

E i figli e i nipoti di coloro che caparbiamente si erano attaccati alle magioni avite, da un lato allettati dalle profferte di acquisto sempre maggiori  e dall’altro intimoriti e spaventati dalla progressiva invasione dell’elemento straniero e dalla conseguente impennata subita dai prezzi di tutti i generi di consumo e di prima necessità, finirono per mollare la loro modesta casa, i loro laboratori, le botteghe e i piccoli commerci.

E mentre al loro posto sorgevano gli Harrod’s, i Selfridges, i Marks and Spencer e le sedi delle più grandi banche londinesi, essi trovavano rifugio sempre più ad est del Tamigi, nello East End, per l’appunto, dove i responsabili dell’edilizia popolare, sempre solerti ed attenti a simili movimenti migratori interni, gli assegnarono, a seconda del carico di famiglia, degli appartamenti fatti in serie dentro a quartieri tutti uguali dove, se non altro, i londinesi recuperavano un senso di comune appartenenza allo stesso gruppo razziale,  lontano dal caos poliglotta e inquinato della Nuova Frontiera.

E quando superavano quell’invisibile cortina che li proteggeva ad est, entravano nel cosiddetto West End, o nella “town”, o chissà dove,  ma Londra era già alle spalle.

Se c’è un simbolo dell’identità di questo popolo, che ancora resiste, questo è il Cokney. Si tratta di un vero e proprio dialetto, che funge da elemento linguistico di identificazione del gruppo, parlato con una caratteristica cadenza tronca e infarcito di frasi idiomatiche che il resto degli Inglesi trova molto simpatico, se non proprio buffo, un po’ come succede da noi con il romanesco colorito di certi comici di grido, da Petrolini in poi. Ma per i londinesi costituisce il loro linguaggio emotivamente primario, una vera e propria lingua madre.

…continua…


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