Inizia con il profilo di Jennifer Connelly una serie di ritratti ragionati su personaggi cinematografici che hanno in qualche modo colpito l'immaginario di chi nella redazione de icinemaniaci si cimenterà nella trattazione di questi excursus. Come al solito da queste parti non esistono regole a parte la necessità di una passione oltre la norma. Questo comporterà non solo scritti diversificati sul piano dello stile e del contenuto, ma anche scelte che potrebbero far discutere come appunto quella della bella e brava protagonista di "A beautiful Mind" e "La casa di ombre e nebbia", un attrice abituata a far parlare di sè più per la qualità del suo lavoro che per gli atteggiamenti da primadonna. Buon divertimento dunque e chi più ne ha più ne metta, non parlo solo di chi scrive ma anche di chi avrà la vogiia di dire la sua.
Il cinema americano regala di continuo - al pari di tutte le cinematografie - attori/attrici eccellenti, capaci e mediocri ma a differenza di tutte le culture che si esprimono anche attraverso la settima arte, detta e ridefinisce senza posa pressoché da solo l'essenza dei canoni che influenzano platee immense di persone, mutuando e ibridando (nei fatti, consacrandoli) in una sorta di centrifuga dell'immaginario quelli che sono i "miti" fondativi della sua società: la libertà individuale, la giovinezza, la bellezza, il denaro, il successo, il talento, il glamour. Così, accanto ai volti celebri che tutti gli appassionati non si stancano mai di rivedere e apprezzare, esiste una schiera enorme di interpreti che la critica, molto pragmaticamente, definisce "caratteristi" ma che qui, rubando dal gergo dei polizieschi vecchia maniera, ci piace chiamare "tipi affidabili" , i quali, spesso e volentieri, incarnano più e meglio quei "miti" di quanto siamo disposti a riconoscere o di quanto una subalterna visibilità preclude ad una obiettiva valutazione. Ebbene, Jennifer Connelly, la ragazza dai capelli neri e gli occhi grigi da Catskill, stato di New York, e' una di questi "tipi". Sarà in tal modo più facile ora - in riferimento alla limitata analisi della sua carriera cinematografica che andiamo a svolgere - uscire dalle anguste stanze del "mi piace"/"non mi piace", "e' più bella di"/"non e' bella come" e provare a capire se e' possibile tracciare una linea continua che circoscriva l'immagine e l'apparenza di un'attrice - in particolare l'impatto che su esse ha lo star system hollywoodiano, inesausto manipolatore in primis di corpi - con lo spessore delle caratterizzazioni, la pasta drammaturgia o la semplice presenza scenica che un artista ha (dovrebbe avere), se, insomma, rimanendo in clima "noir", sotto la panna montata c'e anche il gelato.
Sin dall'esordio sul grande schermo appena adolescente nel travagliatissimo
canto del cigno di Sergio Leone "C'era una volta in America" (1984), si possono
rintracciare - al netto di tutti i limiti che un esordio comporta - segni
indicativi, giocoforza soprattutto fisici, di molti dei ruoli futuri della
Connelly: occhi grigio- verdi (vedi origini irlandesi-norvegesi da parte di
padre) assediati da una massa di capelli neri che potrebbe ricordare ai più
fissati "La dama di Shalott" (1886-1905) del preraffaellita William Holman
Hunt; sguardo spesso o bliquo, un lieve sorriso mai apertamente malizioso mai
del tutto esente da un sospetto di perfidia, di scherno trattenuto, magari di
prematuro disincanto, armamentario carnale-spirituale che viene messo al lavoro
per la prima volta con l'intento di sbriciolare le velleità voyeuristico-
sentimentali di un altrettanto impubere Noodles (Scott Tyler) e generare in noi
una non del tutto innocente curiosità che film dopo film sarà in grado di
trasformarsi in interesse critico.
La Connelly, in altra parole, prende da subito a caratterizzarsi per un certo
non comune fascino irrisolto, irrequieto ( qui esaltato dall'età) ma lo stesso
come poco interessato o preventivamente deluso dal proprio stesso potenziale di
seduzione, centinaia di chilometri lontano - per dire - dalle schiere di sagaci
e baldanzose quanto telefonate "California girls" che da tempo immemore
rimbalzano da uno schermo all'altro. A conferma di questo - che e' e rimane un
assunto, sia chiaro, la cui eccessiva razionalizzazione pero, oltre a risultare
pedante, rischia, a conti fatti, di essere anche poco esaustiva - seguono
alcuni film di genere: "Phenomena" del 1984 di Dario Argento, per esempio, e
"Labyrinth" di Jim Henson, del 1986, dove le peculiarità sopra elencate si
attagliano alla perfezione alle storie, al "clima" di quelle pellicole, in
bilico tra la favola nera, il soprannaturale e l'horror, sebbene in una cornice
di pura e semplice funzionalità.
(1 parte)
di TheFisherKing