Ritratto di signora #22: Lidia Lazzero e le Donne della Resistenza
Creato il 04 luglio 2013 da Mik_94
Ciao
a tutti! Oggi, con qualche giorno di ritardo, vi propongo il nuovo
articolo di Ritratto di Signora,
firmato da Tony, il fidanzato dalla bravissima Miki del blog Miki inthe Pinkland. Un “collega” di sesso maschile che regala, a
lettori e lettrici, il suo punto di vista, in un ritratto che merita
assolutamente di essere letto. Vi segnalo, inoltre, che questa
rubrica è approdata anche su Facebook (qui). Un abbraccio e a
presto, Mik, Monica, Miki, Clara, Fede, Francesca, Tony e Micht.
Quando
la mia fidanzata mi ha proposto di scrivere un articolo per la
rubrica, sono quasi svenuto.
Superato lo shock iniziale, una figura, una sola, chiara ed
inequivocabile, mi si è presentata davanti agli occhi, una figura di
grandissimo valore storico, pari, e non credo di esagerare
affermandolo, al suo corrispettivo maschile, ma di cui si è parlato
troppo poco, a cui raramente sono stati riconosciuti meriti,
innegabili dal mio punto di vista, per il contributo portato alla
lotta per la liberazione del nostro Paese dalla piaga nazifascista.
Le donne partigiane. Queste donne, alcune giovanissime, altre meno,
hanno vinto una guerra senza sparare un colpo di fucile, sempre
presenti negli scontri, pur non affrontando direttamente il nemico.
Silenziose, ma la cui azione fu rumorosa ed efficace quanto quella
dei colpi che partivano dai fucili dei loro compagni e delle loro
compagne (molte, in realtà, erano le donne combattenti), dei loro
mariti, fratelli, figli.
Fondamentali furono le infermiere, così
come le staffette e le informatrici, che fornivano ai combattenti
dettagli fondamentali circa le azioni nemiche, che portavano viveri,
indumenti e munizioni, andando su per i colli, attraverso boschi, con
il costante rischio di essere scoperte e fucilate. Le staffette
costituirono un ingranaggio importante della complessa macchina
dell'esercito partigiano. Senza i collegamenti assicurati dalle
staffette le direttive sarebbero rimaste lettera morta, gli aiuti,
gli ordini, le informazioni non sarebbero arrivati nelle diverse
zone. Delicato e duro, quasi sempre pericoloso era il loro lavoro;
anche quando non attraversavano le linee durante il combattimento,
sotto il fuoco del nemico, dovevano con materiale pericoloso,
talvolta ingombrante, salire per le scoscese pendici dei monti,
attraversare torrenti, percorrere centinaia di chilometri in
bicicletta o in camion, spesso a piedi, non di rado sotto la pioggia
e l'infuriare del vento. Pigiata in un treno, serrata tra le assi
sconnesse di un carro bestiame, la staffetta trascorreva lunghe ore,
costretta sovente a passare a notte ne e stazioni o in aperta
campagna sfidando i pericoli dei bombardamenti e del tedesco in
agguato. Spesso dovevano precedere i fascisti che salivano, per
avvertire in tempo i nostri, e talvolta restavano coinvolte nel
rastrellamento. Dopo i combattimenti non sempre i partigiani in
ritirata potevano trascinarsi dietro i colpiti gravemente. Se c'era
un ferito da nascondere rimaneva la staffetta a vegliarlo, a
prestargli le cure necessarie, a cercargli il medico, a organizzare
il suo ricovero in clinica.
Non
di rado, dopo la battaglia, la staffetta restava sul posto nel paese
occupato, per conoscere le mosse del nemico e far pervenire le
informazioni ai comandi partigiani. Durante le marce di trasferimento
erano all'avanguardia: quando l'unità partigiana arrivava in
prossimità di un centro abitato, la staffetta per prima entrava in
paese per sincerarsi se vi fossero forze nemiche e quante, se fosse
possibile o meno alla colonna partigiana proseguire. Durante le
soste di pernottamento e di riposo le staffette andavano nell'abitato
in cerca di viveri, di medicinali e di quant'altro occorreva.
Infaticabili, sempre in moto notte e giorno per stabilire un
collegamento, ricercare informazioni, portare un ordine, trasmettere
una direttiva; spesso nella piccola busta che la staffetta nascondeva
in seno vi era la salvezza, la vita o la morte di centinaia di
uomini. (“Il Monte Rosa è sceso a Milano, Secchia Moscatelli).
Queste
donne, forti e coraggiose, sono state il vero motore della
Resistenza, che non sarebbe stata possibile senza di loro e che il 25
Aprile del 1945 pose fine all’oppressione del regime fascista. Una
donna in particolare, di cui sono venuto a conoscenza per caso,
leggendo la sua autobiografia, “Da Rivoli verso il mondo”, ha
avuto un ruolo importantissimo nella lotta partigiana del torinese.
Si tratta di Lidia Lazzero, nata nella cittadina alle porte del
capoluogo piemontese, il 22 Gennaio del 1925, anno in cui il Fascismo
subisce una svolta che porterà all'abolizione delle libertà
democratiche e alla realizzazione di una dittatura autoritaria. Lidia
trascorre l’infanzia e la giovinezza segnate dalla profonda
sofferenza di vedere l’amato fratello, Mario, continuamente e
pesantemente punito per il rifiuto di partecipare alle esercitazioni
e al corso premilitare voluti dal duce, che si svolgono il sabato
pomeriggio, il cosiddetto “sabato
fascista”.
Questi episodi fanno nascere in lei, come racconta
nel libro, “una coscienza e un senso di ribellione alle cose
ingiuste”, sentimenti che si fanno sempre più forti con il passare
degli anni, a causa delle insopportabili condizioni portate dal
regime. Il 10 Giugno del 1940, dopo la dichiarazione di guerra alla
Francia pronunciata da Mussolini, Lidia viene umiliata e
schiaffeggiata di fronte alla piazza perché si rifiuta di
applaudire. Nel ’43, a seguito dell’arresto del duce, assieme ad
altri antifascisti, si reca alla Casa del Fascio, ancora occupata dai
fedelissimi di Mussolini, con la ferma volontà di restituire
l’edificio ai cittadini rivolesi. Sopravvive per miracolo
all’enorme mole di fuoco proveniente dalle armi dei tedeschi
asserragliati nella casa, che colpiscono a morte i suoi compagni
prima di fuggire dal retro dell’abitazione. Viene anche arrestata
con l’accusa di aver insultato due donne fasciste. È dopo il
rilascio che comincia la sua vera e propria lotta contro il regime,
entrando a far parte della 15° brigata delle Squadre di Azione
Partigiana, a comando del Comitato di Liberazione Nazionale Alta
Italia. I primi periodi di lotta si svolgono in clandestinità, nella
fabbrica in cui è impiegata, in cui si producono accessori
aeronautici. A seguito di una protesta degli operai, che lamentano
turni ed orari proibitivi e scarso cibo, per via del razionamento dei
generi alimentari, i nazisti, per calmarli e garantirsi la presenza
di qualche operaio nelle fabbriche, decidono di consegnare alcune
derrate alimentari, che Lidia, d’accordo con altri partigiani,
anch’essi operai nella stessa fabbrica, decide di rubare e
consegnare ai combattenti che patiscono il freddo e la fame, braccati
dai nazisti sulle montagne. È così che ha inizio la sua attività
di staffetta,
che continua nonostante il licenziamento a seguito della denuncia di
alcune spie presenti tra gli operai. Solo per la città di Rivoli, la
lotta partigiana è costata la vita di moltissime donne: 99
combattenti e 38 civili uccise dai nazisti, 185 deportate nei campi
di sterminio.
A soli 18 anni, la partigiana Lidia ha il coraggio e la
forza di affrontare il nemico nei campi, in città, sui monti.
Attraverso i boschi avviene gran parte dei suoi rischiosi trasporti
di viveri, munizioni ed indumenti per i compagni partigiani. E poi
ancora, instancabile, in giro per ospedali a cercare, assistere e
sostenere i combattenti feriti. È proprio lei a ritrovare la salma
del fratello di una sua cara amica, morto a seguito di un
rastrellamento nelle valli di Lanzo. E sempre a lei tocca il doloroso
compito di riportarla a casa e dare la tragica notizia alla famiglia.
Il 2 Maggio del 1945, l’occupazione della Germania da parte delle
truppe sovietiche restituisce la libertà, ponendo fine ad un incubo
durato oltre vent’anni. Tra il 1943 e il 1945 il nostro Paese ha
lottato contro la dittatura instaurata da Benito Mussolini e
fondamentale è stato l’apporto delle donne italiane, al fianco dei
loro padri, fratelli, mariti e figli, spesso fino alla morte. Dopo la
fine del conflitto, Lidia dedica la sua attività all’Associazione
Nazionale Partigiani d’Italia, occupandosi della compilazione delle
pratiche per il riconoscimento della partecipazione alla Lotta di
Resistenza. Negli anni successivi le vengono riconosciuti particolari
meriti tanto da essere insignita col Diploma d’Onore di Combattente
per la Libertà, premio che le viene conferito dalla Presidenza della
Repubblica. Tante e importanti sono le mansioni che Lidia svolge dopo
il conflitto: la Camera del lavoro di Torino, la militanza
all’interno del Partito Comunista Italiano, con il quale è eletta
dal ’51 al ’56 nel Consiglio Comunale di Rivoli. Più volte
arrestata durante manifestazioni per i diritti dei lavoratori, viene
poi trasferita alla segreteria generale della C.G.I.L. a Roma e
successivamente a Sofia, in Bulgaria, alla Federazione Sindacale
Mondiale. Dopo ben sessant’anni di lavoro, in patria e all’estero,
sempre al fianco dei lavoratori, Lidia torna a Rivoli, dove entra a
far parte del direttivo del Sindacato Pensionati Italiani e
dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, con cui
organizza una serie di incontri rivolti ai ragazzi delle scuole medie
di Torino e provincia, durante i quali affronta il tema della guerra
e racconta come è nata la Resistenza e come ha dedicato la sua vita
a ideali come la libertà, la giustizia e il lavoro. Non nascondo
che, mentre quest’articolo prendeva vita, mi era venuta
l’idea di intervistarla, ma purtroppo Lidia Lazzero ci ha lasciati
il 19 Maggio del 2010, a 85 anni. Per concludere vi lascio un
pensiero tratto dal suo libro, in cui mi ritrovo moltissimo:“Ai
giovani desidero ancora spiegare perché sono riuscita a fare tutto
quanto ho vissuto durante i miei ottantatre anni. Io sono riuscita
grazie alla mia forza di volontà e al mio forte ideale, perché –
ricordate tutti sempre – giovani e meno giovani – che sia nel
bene che nel male – e purtroppo può esserci più male che bene –
io sono stata sorretta dai miei ideali di pace, libertà, giustizia,
lavoro, studio, politica. E non tanto per me, ma rivolti a tutti e al
bene dell’umanità. Ogni giorno mi ripetevo: nonostante tutto la
vita è bella finché son viva, è bella in ogni suo momento, nella
gioia e nel dolore. Basta saperla vivere e, soprattutto, mai cercare
di voler l’impossibile.”
Tony.
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