Ritratto di un’epoca

Creato il 10 ottobre 2012 da Postscriptum

Una (forse) nascente stella nel panorama della musica pop-rock? Si chiamano Beatles e vengono da Liverpool. Forse arrivano un po’ in ritardo, probabilmente l’ondata Brit Pop è già passata. Avrebbero potuto anche scegliersi un nome più incisivo, ma quello che conta è la musica. I ragazzi hanno buone idee, credetemi. E allora quali sono i miei dubbi?

Cominciamo dal fatto che il loro produttore George Martin, solo dopo svariati tentativi, è riuscito a tenere coeso il gruppo, in preda ai malumori adolescenziali dei singoli componenti. Gli elementi di disgregazione sono tanti, e dopo una quindicina di albums di discreto successo si fanno sentire. Forse la nuova fidanzatina di Lennon – una certa Yoko Ono, sembra una brava ragazza, – riuscirà a mettere pace. Fatto sta che tutti ‘sti gruppetti inglesi sono sempre troppo rissosi. O forse è solo questione di moda e i Beatles vogliono solo seguire le orme dei loro idoli, gli Oasis?

C’è da aggiungere che questi allegri ragazzi, da qualche tempo sembrano presi da innumerevoli nuove passioni e inclinazioni; Jimi Hendrix o i Pink Floyd, tanto per dire, già nell’album precedente (Sgt. Pepper’s lonely heart club band) avevano fatto capolino tra le influenze del nuovo sound dei Beatles. Ma qui su Abbey Road (il loro ultimo album, di cui mi accingo a parlare), soprattutto nel finale, sembra si voglia riecheggiare in maniera troppo eclatante la conclusione di “The Dark side of the moon”. Del resto chi non è stato influenzato da Hendrix o dai Pink Floyd?

Intanto George Harrison (il chitarrista) si è completamente invaghito della musica indiana, Ringo Starr invece si crede il nuovo Zac Efron ed è indeciso se continuare la carriera da batterista oppure tentare le vie del cinema.

E che dire di John Lennon e Paul McCartney che continuamente litigano a livelli tali da decidere inizialmente di prendere parte al progetto Abbey Road solo a patto che ognuno mettesse i propri brani sui lati opposti del disco:lato A e lato B.

Capite bene che nel grande marasma appena descritto, non è stato facile venire a capo della situazione e sfornare quest’ultimo cd. Tuttavia, come sempre, le cose involute sono le migliori. Abbey Road è un capolavoro e malgrado i suoni vintage rappresenta bene lo scenario sonoro odierno.

Naturalmente i dissapori dovuti proprio alle bizze ormonali (o lisergiche?) dei nostri, ha fatto sì che si adottasse una diversa strategia di registrazione.

Non del tutto originale direi, dato che già i Take That in ambito inglese e i Backstreet Boys in ambito americano l’avevano scelta per poter accontentare le schiere di fans e non deluderne le aspettative.Il metodo consiste nell’incontrarsi e nell’essere presenti contemporaneamente in sala di registrazione soltanto poche volte, giusto per creare le basi ritmiche e, in un secondo momento, sovraincidere le singole tracce che erano state registrate singolarmente.

Tutto sommato, non si svela facilmente l’utilizzo di questo piccolo trucco, quindi nel complesso possiamo definire omogeneo il lavoro finale. E poi almeno non si è rischiata la rissa in studio.

La scelta del titolo e della copertina è un omaggio a “Abbey Road E.P.” dei Red Hot Chili Peppers.I Beatles però hanno preferito vestirsi di tutto punto! Tranne Paul che per essere più cool si è dimenticato volontariamente di indossare le scarpe…Yeah!

Ma andiamo alla musica:

Subito, in “Come together”, con il suo incedere incalzante, si sente l’ispirazione dei ragazzi verso l’hard-rock più blues-based, ma i potenti bassi rinnovano l’atmosfera, avvicinando i nostri a certe melodie dei Kasabian (Paul avrà ascoltato parecchie volte “Days are forgotten”). Così come nelle note delle ballad “Something” e “Oh, darling” troviamo fortemente presente l’impronta di Pizzorno & Co. E’ ancora la scena contemporanea londinese a farla da padrone in “Maxwell’s silver hammer”, grazie all’uso del sintetizzatore (forse esageratamente presente in questi nuovi brani dei Beatles!).

Modernità e Storia, si alternano sempre nel sound dei quattro di Liverpool. Un venticello soffia e si espande perdendosi tra le nuvole di “I want you (She’s so heavy)”, dichiaratamente ispirata all’omonimo e celeberrimo brano dei Travis.

Here comes the sun” è un momento di spensieratezza che già sappiamo avrà un successo radiofonico importante.Tanto che pare che David Guetta ne sia rimasto affascinato e sicuramente ne farà un ottimo remix per il suo prossimo disco che uscirà a breve.

Il sitar alla Iron & Wine, strumento presente in alcuni brani di Abbey Road, ha il compito di rendere più suggestivi e onirici tutti i componimenti.

L’idea, nella seconda parte del cd, di comporre un medley, sembra alquanto azzardata, se si pensa che il gruppo è ancora alle prime armi con questo nuovo stile e quindi non ha la sufficiente esperienza musicale.Fortuna che però – forse with a little help from Noel Gallagher – sono riusciti in quest’impresa!

Il momento, lo dicevamo prima, è assimilabile a qualche cosa dei Pink Floyd, vedi ad esempio Eclipse (e tutto ciò che lo precede nel disco stesso) ma, come già detto, lo sguardo si rivolge anche verso Champagne Supernova dei due terribili fratelli Gallagher.

La perla dell’album è indubbiamente la coldplayana “You never give me your money“, ricercata e raffinata, introdotta dall’altrettanto piacevole “Because” in cui il pianoforte sfuma in un arrangiamento diverso con accenti avant-prog.

Golden Slumbers” (che fa parte del medley) ci fa respirare la grigia aria inglese che si disperde nell’elegante e tipizzante fumo.

A concludere un viaggio attraverso le mille contraddizioni dell’anima, una piccola conchiglia di segreti custoditi preziosamente in questo album, si svela pudicamente in questa frase: “And in the end, the love you take is equal to the love you make…”. In essa, troviamo il reale senso di questo lavoro…


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