Tre contro dieci. Ovvero, tre femmine contro dieci maschi. Location: la villa del circolo polare artico. Occasione imperdibile: riunione di capoccioni (tutti ammassati contro l’unica stufa a disposizione). Le femmine, tra cui io, ascoltano. La sottoscritta dovrebbe scrivere un comunicato e, mentalmente, chiama a raccolta i santi numi, perché decodificare il verbo dei capoccioni è come fare i cruciverba di Bartezzaghi, più ti accanisci più vai in tilt. Ma se i cruciverba hanno una loro logica e una grande summa di nozioni “de curtura”, dai capoccioni si attinge solo un miserrimo excursus di paroloni che, messi insieme, non vogliono dire proprio NIENTE. Allora, guardi l’orologio cercando di fingere interesse. L’occhio si tramuta in pampina e temi di crollare svenuta da un momento all’altro. Accanto a me la quarta donna, taciuta prima perché teoricamente farebbe parte dei capoccioni, si dimena sulla sedia, bofonchia qualcosa e poi si alza annunciando alla platea che deve fare pipì. Ventisei occhi allibiti la guardano per un attimo, si interrompe il cicaleccio politichese che però, dopo il disorientamento legato alla comunicazione di improcrastinabili esigenze fisiologiche, riprende più forte e confuso di prima. Si alza un tizio con la testa che sembra un uovo di Pasqua, collo taurino strozzato da una cravatta Regimental che nemmeno mio nonno, con tutto il rispetto…Ha l’aria di chi deve dire qualcosa per cui il mondo un giorno lo ringrazierà…cita articoli e commi di legge, s’incappera perché “mannaggia a questo governo” , sforna 2 o 3 qualunquismi mentali e si siede. Ho la pupilla dilatata, queste elucubrazioni hanno in me un effetto ipnotico, va in trance anche il cervello, il mio, che si rifiuta di continuare ad ascoltare. E mentre sto per gettare la spugna della concentrazione, si alza il capoccione-nano. Sigaro che gli pende a metà del labbro (per fortuna spento), le maniche della giacca che coprono le nocche delle dita, in mano un faldone che consulta freneticamente. Mioddio! Se comincia a citare ogni singolo foglio che ha dentro quel coso, saremo costretti a ordinare cornetti e caffè. Legge qualcosa, agitando mani e braccia, tracciando linee contorte nell’aere, ormai mefitico, della stanza (c’è pure una vaga puzza di piedi), sto per mettermi a urlare. Qualcuno mi bussa sulla spalla, mi volto di scatto sperando in un miracoloso annuncio del tipo “bisogna evacuare la villa, sta per atterrare un’astronave”. Poi mi ravvedo…ma va’ gli extraterrestri sono già davanti a me, speranza vana. La mia collega cerca di attirare la mia attenzione, bussa di nuovo sulla mia spalla. La guardo, ha gli occhi liquidi di chi non ha smesso di sbadigliare per un solo secondo. Cerca conforto. Le rispondo grugnendo. Ore 19.45: il mio stomaco brontola sonoramente, ho al mio attivo uno squallido calzone al forno. L’assemblea ormai è un ammasso di voci che si accavallano. Sono tutti in piedi, parlano senza ascoltarsi. Ognuno deve dire la sua e se ne frega del contraddittorio, sono contenti di esprimere una frase di senso compiuto, se gli altri non li filano neanche un po’, va bene lo stesso. Ore 20.30: i faldoni cominciano a chiudersi, i cellulari squillano a più non posso. I capoccioni parlano al telefono in tutta segretezza, mettendosi la mano davanti alla bocca per nascondere il labiale. Tranquilli, già non vi capisco quando parlate ai quattro venti, figuratevi se mi butto nell’impresa di interpretare i sussurri telefonici. Sante mogli!, mentalmente le ringrazio…A molte di loro devo la fine di questo lungo pomeriggio. Avranno già calato la pasta e cazziano i capoccioni che sono sempre in ritardo. La seduta è sciolta. Vista l’ora, il comunicato slitta all’indomani. Spero che la notte mi porti consiglio, perché se dovessi scrivere anche solo una riga di quello che ho sentito, meglio sarebbe rispolverare il codice di Hammurabi.