Rivediamoli: il minestrone (1981)

Creato il 14 gennaio 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Il Maestro, Francesco e Giovannino

Il terzo episodio di tale rubrica, nel suo narrare la “memoria dei vinti”, vuol richiamare una parabola, una di quelle storielle che tranquillamente potrebbero essere inserite nei testi di un improbabile Vangelo, un Vangelo dettato dettato dal profeta Pier Paolo Pasolini a tutti i suoi apostoli, i quali hanno provveduto poi a dar forma ad una sostanza consolidata già da tempo. Sono otto anni circa che è venuto a mancare il loro Profeta e Sergio Citti, suo fratello Franco Citti e Ninetto D’Avoli ritengono forse opportuno disseppellire l’anima del loro amico e maestro con un’opera che sovverte tutto il campo semantico che fino al 1981 avrebbe potuto ruotare attorno alla parola Colossale. Il Minestrone è un film Colossale, per la durata 170’, per la qualità del cast (comprensivo anche di un giovane Roberto Benigni), per la sceneggiatura (ad opera di Citti e Cerami) e per i continui rimandi ad un modo di svolgersi degli eventi degno di un’Odissea o perlomeno di un Orlando Furioso. Tuttavia poco più su ho parlato di “ribaltamento”, non a caso, poiché i personaggi di questa ‘opera epica’ non hanno assolutamente nulla di colossale, ne sono la negazione, il rifiuto, il nichilismo, sono dei perfetti antieroi privi di qualsiasi alta dote morale ed eroismo. Francesco (Franco Citti) e Giovannino (Ninetto D’Avoli) sono infatti due accattoni, due disperati, due figure in netto contrasto con l’universo italiano dei primissimi anni ’80, la cui vita ormai totalmente annichilita ha un solo ed unico scopo, il mangiare. Nella loro epopea però i due, che si sappia, mangeranno poco e male. Non basta infatti l’incontro con un fantomatico “Maestro” (Roberto Benigni), accattone anche lui, ma in questo caso specializzato nel gustare sontuosi pranzi nei ristoranti per poi “fare il vento” e darsi alla macchia. Assieme al Maestro infatti Giovannino e Francesco faranno una sola cena degna di questo nome, in un ristorante della periferia di Roma dal quale eseguiranno una rocambolesca quanto esilarante fuga. Già da questi primissimi elementi si può sentire l’aleggiare in scena del fantasma, dello spirito di Pasolini, affezionato alle periferie romane ed alle situazioni grottesche di cui, di volta in volta, ne sono teatro. La grande (ed unica) cena del film, sono però soltanto un incipit, un prologo che introduce nel circolo di idee della vicenda. Difatti a seguito della fuga dal ristorante, i tre (anti)eroi, decidendo di fermarsi a dormire nel vagone di un treno in sosta, si troveranno il mattino seguente in una “nuova terra”, seppure non meno crudele ed ingenerosa della prima, la Toscana ‘terra di carne alla brace’.

Tutti gli “affamati”

Da questo “allunaggio” avranno davvero inizio le peripezie dei tre ed inizierà a materializzarsi nella mente e nel corpo il vero protagonista dell’opera, la Fame. Inutili saranno i tentativi di esorcizzare tale bisogno, che con una visione più attenta e riflessiva diventa archetipo di tutti i bisogni dell’uomo, primo tra i quali la ricerca di uno scopo nella vita. Tale ricerca allora si capirà che è essenzialmente infruttuosa ed anzi dannosa, alimenta il tedio e diverse qualità di noia. Come una moderna Armata Brancaleone, il trio incontra altri personaggi grotteschi quanto disperati, che talora si uniranno alla loro “causa”, sotto un ipotetico “mal comune mezzo gaudio”, nel vagare per la campagna toscana. Come detto prima, anche questa terra si rivelerà parte integrante del lungometraggio, seppure in una veste piuttosto estranea all’immaginario comune, è una terra brulla, arida, infame, che non risparmia di certo disavventure ai suoi malcapitati solcatori. Intanto la Fame, continua ad aumentare,assieme alla disperazione del Maestro e dei suoi due compagni di sventure, a cui si è aggiunto un ottimo Fabio Traversa, che quando si tratta di esprimere tutto il disagio e la frustrazione esistenziale fa sempre da portabandiera. La Fame raggiunge vette mai conosciute, con essa sale la disperazione, un medico viene salvato dal suicidio e con la sua famiglia, il suo maggiordomo, l’autista e la cuoca si aggiunge a quella che ormai è diventata qualcosa di simile ad una Crociata dei Pezzenti. Nella Toscana, arida come la vita, non esitano a tentar di mangiare la terra o di immaginare un pranzo sontuoso all’interno di una tavola calda abbandonata sul mare. Anche il mare, in altre storie simbolo di letizia e perlomeno momentaneo appagamento è, ora, soltanto un’altra beffa del destino, è il forziere di un tesoro inutile, dei resti di una nave  militare e perfino mangiare quei resti diventa ulteriore motivo di frustrazione per i malcapitati. Si sveglieranno di lì a poco ricoverati, ammassati, in un ospedale per un’intossicazione alimentare, altra beffa, altro motivo per svuotare lo stomaco (stavolta con una sondina da lavanda gastrica. Dopo deliri, allucinazioni e disperazioni si presenta sotto forma di un santone (Giorgio Gaber), anch’egli ricoverato in ospedale, la possibilità di redenzione, di raggiungere una terra promessa, l’Estero! Dove il mangiare sarà per tutti ed in abbondanza, dove la sofferenza sarà placata. Parte così una nuova processione, uno stuolo di altri disperati si aggiunge alla lunga fila formatasi dietro il santone in vestaglia da notte, che guida i suoi discepoli dietro il suo pastorale di stampella porta flebo fino alla salvezza, che si rivelerà essere invece un nuovo buco nell’acqua, accompagnato da tanto di orchestra alpina che suona il leitmotiv conclusivo del film e da un’espressione di Gaber, che ingloba in sé tutto il senso spirituale del film. Non c’è salvezza, non c’è redenzione, non c’è pseudobenessere, non c’è consumismo, nella società degli anni ’80 non c’è niente di niente, neanche più la Fame. Così Citti descrive il mondo del Vangelo secondo Pasolini, un mondo che si approssima alla fine più totale. Ma il regista in fondo non è un Dio severo, egli guarda le sue creature con sguardo caritatevole, a tratti affettuoso, non gli offre la remissione dei peccati, la salvezza di un’anima, ma gli dà un po’ di comprensione paterna e li eleva a emblema dell’umanità negli spazi sconfinati ed intangibili in cui si muovono, nei dialoghi tragicomici seppur solenni ed esistenziali, nel loro essere destinati al peccato e perciò solo vittime innocenti di un andazzo generale ingeneroso ed oramai del tutto compromesso.

Pier Paolo Corsi



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