Rifletto sul problema grazie a uno scritto di Claudio Giunta, italianista all’Università di Trento, che lui stesso sta facendo girare in rete dopo essere intervenuto sull’argomento in molteplici sedi. Riporto qui sotto il suo documentatissimo testo, per tutte le informazioni e i riferimenti del caso. Giunta ha “scoperto” l’inghippo quando è stato informato dal responsabile degli acquisti della biblioteca di ateneo, ma il problema non è nuovissimo: è iniziato una quindicina di anni fa, come lui stesso rileva. Ricordo che allora lavoravo presso un editore che pubblica libri scientifici piuttosto cari e, dopo l’ennesimo aumento, le biblioteche anglosassoni non si sono fatte scrupoli a disdire l’abbonamento a riviste e collane. La politica di quell’editore non è cambiata radicalmente, ma ha comunque dovuto ripensare molte cose. Questo però non è bastato: l’arroganza di molti editori scientifici è diventata insostenibile visto che, tra l’altro, ricevono testi a titolo totalmente gratuito. E la vendita a caro prezzo si è trasferita anche nel mondo online, dove tra l’altro i costi sono pure inferiori a quelli di stampa e distribuzione. Gli studiosi anglosassoni, ovviamente, si stanno organizzando: c’è una protesta online contro la dittatura dell’editore Elsevier per le riviste in rete e, a quanto dice Giunta, le biblioteche continuano a rifiutarsi di acquistare riviste troppo care. La Society for the Promotion of Roman Studies dell’Università di Londra, non solo non acquista ma mette in guardia anche le altre biblioteche dall’acquistare riviste dell’editore italiano Fabrizio Serra, il monopolista italico del settore.
Effe
Ancora sul costo esorbitante di alcune riviste accademiche
Mi scrive il responsabile degli acquisti della biblioteca del mio ateneo, Trento:
Mi sono imbattuto in questo periodico [si tratta di Quaderni urbinati di cultura classica], è appena arrivata fattura 2012) e ho visto che:
2004 = 220 euro
2006 = 387 euro
2008 = 534 euro
2010 = 735 euro
2012 = 834 euro
Che facciamo? I docenti mi dicono che questi Quaderni sono imprescindibili… Ma a che prezzo, e che aumenti!
Al responsabile degli acquisti della mia biblioteca non so bene che cosa rispondere, perché è tutto giusto: Quaderni urbinati di cultura classica è una rivista importante, e i docenti che vogliono averla nella nostra biblioteca hanno ragione; ma è anche vero che il suo prezzo è proibitivo, e che questi aumenti lasciano allibiti. Per fare un confronto, una rivista di studi classici ancora più prestigiosa come Gnomon costa poco più di venti euro a fascicolo. Che fare, dunque? Prima di provare a rispondere, riepilogo la situazione anche a beneficio di chi non sa niente del problema.
Si chiamano ‘riviste accademiche’ quelle riviste che non si trovano né in edicola né in libreria ma soltanto nelle biblioteche delle università, riviste in cui i docenti universitari e i loro allievi pubblicano saggi intorno agli argomenti dei quali si occupano professionalmente. Saggi con titoli come Croce interprete della politica della ragion di stato o Due poesie probabilmente duecentesche nel codice Mezzabarba. Quello che vale per il versante umanistico vale anche per quello scientifico, solo che di solito i saggi accademici di matematica, fisica, biologia sono scritti in inglese.
Questi saggi sono il frutto della famosa (e necessarissima) ‘ricerca scientifica’, e non vengono pagati. La rivista «Medioevo Romanzo», su cui ho pubblicato Due poesie probabilmente duecentesche nel codice Mezzabarba, non mi ha dato una lira – ma quel saggio corrisponde a un ‘titolo’, che potrò presentare ai concorsi che decidono gli avanzamenti di carriera. Non guadagno niente io ma non guadagna niente nemmeno l’editore della rivista, o guadagna poco. Di solito si tratta di pubblicazioni finanziate da fondazioni, università, accademie, oppure da editori universitari che stampano riviste accademiche più per ragioni di prestigio che per un reale guadagno: non credo proprio che Olschki faccia molti soldi coi 10 euro a fascicolo dell’ottimo «Belfagor», o che al Mulino si arricchiscano coi 26 euro a fascicolo dell’ottima «Lingua e stile».
Quello che ho appena descritto era però il mondo di ieri. Quello di oggi è in parte cambiato. Nel mondo di oggi (diciamo da una quindicina di anni a questa parte) le riviste sono diventate, per alcuni editori, un ottimo affare, perché in tutto il mondo è cresciuto enormemente il numero delle persone interessate all’editoria accademica, soprattutto nelle discipline scientifiche: ci sono molti più studiosi che leggono, e molti più studiosi che scrivono. E dato che tutti i biologi del mondo, dall’India alla Papuasia, devono, per esempio, aggiornarsi su Nature, così come tutti i matematici del mondo devono aggiornarsi su Inventiones Mathematicae, i loro dipartimenti non possono non abbonarsi a quelle riviste. Ciò dà agli editori di riviste un potere contrattuale soverchiante: se il prezzo di Nature raddoppia dall’oggi al domani, non c’è scelta se non pagare, sperando che non quadruplichi dopodomani.
Qualche anno fa ci s’illuse che le cose sarebbero cambiate con le riviste online. La possibilità di disfarsi della carta, di pubblicare in formato elettronico, avrebbe dovuto – così si sperava – abbattere i costi. È successo esattamente il contrario. È successo che due o tre grandi editori oligopolisti hanno raggruppato le centinaia di riviste di cui posseggono il marchio in pacchetti online non spacchettabili (ci si può, sì, abbonare a una o a dieci riviste del pacchetto: ma il costo finisce per essere superiore a quello dell’intero pacchetto) e hanno deciso, decidono ogni anno di alzare i prezzi in percentuali molto, molto superiori a quella dell’inflazione. Di questo sconcio si è occupato recentemente (29 agosto) George Monbiot sul Guardian con un articolo dal titolo eloquente: Gli editori accademici fanno sembrare Murdoch un socialista. Occhiello: Gli editori accademici fanno pagare prezzi altissimi per accedere a ricerche pagate da noi. Basta con il racket dei monopoli del sapere: (www.guardian.co.uk/commentisfree/2011/aug/29/academic-publishers-murdoch-socialist
Ora, grazie all’impulso del matematico Tim Gowers, il sito www.thecostofknowledge.com sta raccogliendo firme tra gli scienziati di tutto il mondo per protestare contro uno di questi editori monopolisti, Elsevier.
E in Italia? In Italia non esistono grandi editori accademici come Springer o Elsevier o Blackwell, editori che pubblichino riviste che hanno diffusione mondiale come Nature o Science: la scienza non parla italiano. Invece le discipline umanistiche parlano (anche) italiano, e qui si osservano cose strane. Ci sono riviste di studi classici come «Maia», che costano 65 euro (tre numeri annui). E c’è, come si è visto, una rivista come «Quaderni urbinati di cultura classica» che ne costa 834 (tre numeri annui). C’è una rivista come «Quaderni di storia» che costa 30 euro (due numeri annui). E c’è una rivista come «Storiografia» che costa 595 euro. Di questa sproporzione (tra riviste che hanno, devo precisarlo, grosso modo pari dignità scientifica) ho dovuto accorgermi un paio d’anni fa, come responsabile della biblioteca della mia facoltà. Da un successivo controllo ho potuto constatare che le riviste accademiche più costose sono quelle pubblicate dall’editore Fabrizio Serra, e che più costose significa che le riviste di Serra hanno prezzi anche dieci volte più alti di quelli delle altre riviste di settore, e che alcune di esse sono aumentate, nell’ultimo decennio, anche del 1000 per cento. Per fare un esempio, il prezzo per le biblioteche della rivista «Studi novecenteschi» è passato dai già esorbitanti 495 euro del 2008 a 595 euro (2009), a 745 euro (2010), a 795 euro (2011). Dato che si tratta di una rivista semestrale, ciò equivale a un prezzo di 397.5 euro per volume, cioè a circa 765 mila delle vecchie lire per circa 300 pagine scritte larghe: due euro e mezzo a pagina.
Non può sorprendere, allora, il fatto che le riviste dell’editore Serra siano ormai decine e decine, e che quasi ogni settimana ne nasca una nuova: «Il viaggio e la scrittura», «Letteratura e dialetti», «Letteratura e Letterature», «Pirandelliana», «Psicanalisi corporea», «Studi pasoliniani», «Tipofilologia», e via dicendo. A fronte di costi piuttosto contenuti (i saggi che finiscono sulle riviste accademiche, ripeto, non vengono pagati), ogni nuova rivista – dato che molte biblioteche, nel mondo, comprano ‘in automatico’ – può garantire un eccellente guadagno, specie se i prezzi sono quelli, a dir poco sconcertanti, visti sopra.
Ho documentato tutto questo sulla «Rivista dei Libri» e poi nel sito www.menodizero.eu: http://www.larivistadeilibri.it/2010/02/giunta.html;
http://www.menodizero.eu/insegnarericercare-analisi/104-quanto-ci-costa-leditoria-accademica-sei-mesi-dopo.htmlAlcune biblioteche universitarie, messe sull’avviso, hanno sospeso gli abbonamenti. Indipendentemente da me, i bibliotecari del Warburg Institute e quelli della Society for the Promotion of Roman Studies dell’Università di Londra sono giunti alla stessa conclusione, rinunciando alle riviste di antichistica dell’editore Serra (il quale frattanto, come Elsevier e Springer, ha varato suoi propri ‘pacchetti online’): «This year it was necessary to discontinue three titles – Musiva & Sectilia, Orizzonti, and Workshop di Archeologia Classica – purely by reason of huge price increases which put them beyond our reach. All three issues from the same publisher, Fabrizio Serra, with whom other libraries, the Warburg, have experienced the same difficulty» (Annual Report 2009 della Society for the Promotion of Roman Studies, p. 7).
Torniamo così alla domanda da cui siamo partiti. Che fare di fronte ad aumenti del genere? L’editore fa molto bene il suo mestiere, che consiste nel vendere un prodotto cercando di guadagnare la maggiore quantità di denaro possibile. Resta però il fatto che prezzi simili mettono in grave difficoltà le biblioteche universitarie, che devono rinunciare all’acquisto di libri e di altre riviste, e gli atenei, che potrebbero spendere gli 834 euro dei Quaderni urbinati di cultura classica diversamente, per esempio dandoli ai giovani studiosi che consegnano, gratuitamente, il frutto del loro lavoro ai Quaderni urbinati di cultura classica. Battute a parte (ma non è una battuta), bisognerebbe trovare, insieme, una via d’uscita. Molti tra i direttori di queste riviste si sono ritrovati in questa situazione senza nemmeno accorgersene, la loro buona fede non è in discussione: è chiaro che uno studioso pensa al contenuto, e lascia all’editore il compito di pensare al resto. Molti – aggiungo a scanso di equivoci – sono studiosi eccellenti, che curano e dirigono ottime riviste, che sarebbe un vero peccato vedere chiudere. Gli scalzacani, che si commuovono all’idea di farsi chiamare Direttore o Direttrice, sono una minoranza (anche se, temo, una minoranza che si appresta a diventare maggioranza, data la moltiplicazione dei titoli). Detto questo, però, mi pare che la situazione sia oramai insostenibile, e che tocchi soprattutto a loro, ai direttori e alle direttrici, trovare una soluzione.
[Già pubblicato, in una versione più breve e un po’ diversa, sul supplemento domenicale del Sole 24 ore, 15 aprile 2012]