Rivoluzione arancione e Primavere arabe. Burattinai e marionette di un gioco politico internazionale

Creato il 19 aprile 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Reportage: “Tra le fauci dell’orso. Geopolitica e società di un’Ucraina divisa

L’11 settembre e la nuova interpretazione globale del mondo

Gli attacchi dell’11 settembre 2001 al cuore degli Stati Uniti sono stati la chiave di volta per inaugurare una nuova interpretazione del mondo globalizzato. Nulla sarebbe più stato come prima. Un nemico comune sovranazionale aveva dato prova della propria esistenza, e l’infrastruttura governativa – ritenuta inviolabile fino a quel giorno – ora rischiava il destino di una statua di sale.

Al Qaeda aveva colpito l’America e con essa le certezze e gli ideali su cui si fondava l’Occidente. L’opinione pubblica mondiale era stata scossa profondamente, e confermava ora l’esigenza di tornare protagonista della scena, forse per troppo tempo delegata alle istituzioni.
Il Terzo millennio è stato così inaugurato drammaticamente sotto i colpi inferti dal fondamentalismo islamico: gli attacchi al World Trade Center e al Pentagono, nonché il tentativo sventato alla Casa Bianca. Si è dunque inaugurata – in risposta agli attacchi subiti – una stagione di “guerra al terrorismo”, con una revisione globale degli interessi geopolitici e delle aree su cui rivolgere i riflettori. Il Vicino Oriente con l’invasione dell’Iraq nel marzo 2003, apparentemente conclusa con le dichiarazioni di George W. Bush il 1° maggio dello stesso anno. E poi la Guerra del Libano nel 2006 e la questione mai finita della Striscia di Gaza. L’Afghanistan dei Talebani con il rovesciamento del regime che offriva protezione a Osama Bin Laden. La “guerra al terrorismo” – solo all’Italia e per il solo 2011 – è costata 650 milioni di euro con la presenza al fronte di 4.200 soldati e 750 mezzi di terra.
È l’inizio di una nuova stagione diplomatica, che ricorda in parte l’Afghanistan del 1979 con l’invasione sovietica: i mujaheddin, gli Stati Uniti e il Pakistan da un lato, l’Unione Sovietica alleata del governo di Babrak Karmal dall’altro. La rivoluzione dello scacchiere internazionale – all’indomani dell’11 settembre – si riflette allora in una rivoluzione più estesa, che investe per intero l’opinione pubblica mondiale.

Le Primavere arabe. Il risveglio dei popoli oltre i regimi

E proprio sull’onda di questa profonda rivoluzione di pensiero, si inseriscono le Primavere arabe iniziate col finire del 2010. Fu la Tunisia a offrire la scintilla che di lì a poco avrebbe dato inizio all’incendio.
Era il dicembre 2010, quando il mondo intero conobbe la Rivoluzione dei gelsomini. La disoccupazione, i rincari dei beni alimentari, la corruzione e le cattive condizioni di vita della popolazione furono i detonatori della rivolta tunisina. Quella rivolta che – ben presto – avrebbe invaso e affascinato il Nord Africa, il Vicino Oriente e la penisola arabica. La Primavera araba fu allora un fenomeno geopolitico segnato da un effetto domino.

Istantanea da Tunisi. La Carovana della Liberazione. Photocredits: Rais67/Wiki/ Pubblico dominio

Nel solo 2011 in tre Paesi di quell’area geografica i rispettivi capi di Stato furono costretti dalla folla a rassegnare le dimissioni: la Tunisia di Ben Ali, l’Egitto di Mubarak e la Libia di Gheddafi. Stessa sorte toccò allo Yemen di Ali-Abdullah Saleh nel febbraio dell’anno successivo. Il banco di prova, di quello che sarebbe stato un “Nuovo Risorgimento” per i Paesi arabi, fu rappresentato dalla Repubblica Islamica dell’Iran, dove le proteste di piazza – all’indomani delle elezioni del 2009 – lasciarono presagire l’insorgere di una nuova coscienza di massa.
I fattori comuni affrontati dalla diplomazia internazionale furono sempre gli stessi: i diritti umani, le libertà individuali, le condizioni-limite sotto le quali non negoziare il benessere della popolazione civile. Ma quella che forse, più di ogni altra, ha scosso l’opinione pubblica mondiale, è la crisi siriana.
Quella guerra civile scatenatasi nel marzo 2011 e tuttora in corso. Le rivolte popolari degenerarono spesso in episodi violenti, con l’obiettivo chiaro di indurre all’abdicazione il presidente Assad e inaugurare così un’era di riforme democratiche per il Paese. Il regime di Assad represse nel sangue le manifestazioni di piazza, applicando una legge del 1963, che permetteva al regime di sedare le proteste con ogni mezzo possibile.
Nell’evolversi della Primavera araba, tuttavia, non bisogna dimenticare un articolo del “New York Times” dell’aprile 2011, che così titolava: “Gruppi americani hanno favorito la diffusione della Primavera araba”. Ma chi furono questi gruppi? Quale fu il loro obiettivo politico?
Si ricordano il movimento serbo Otpor, il libico Fronte Nazionale per la Sicurezza della Libia, e ancora Golos in Russia, la ben nota organizzazione islamista Fratellanza Musulmana e la siriana Donne sotto assedio.
Con l’intento di esportare la democrazia in questi Paesi devastati da regimi pluridecennali, gli Stati Uniti hanno finanziato Organizzazioni non governative volte a sostenere leader dissidenti e movimenti di protesta. Il partito egiziano El Ghad è stato finanziato dalle agenzie americane NED, IRI ed NDI, come lo stesso segretario generale del partito, Wael Nawara, ha successivamente ammesso.
Ma la Primavera araba – o per meglio dire al plurale, le Primavere arabe – sono soltanto un’istantanea contestualizzata geograficamente rispetto al più vasto fenomeno delle rivoluzioni colorate: un appellativo attribuito dai mezzi d’informazione alle proteste sviluppatesi principalmente nei territori post-sovietici.

Una trasvolata sui colori delle rivoluzioni mondiali

Un bel giorno l’opinione pubblica del mondo si è trovata a fare i conti con questa nuova espressione “Rivoluzioni colorate”, che ben presto è entrata a far parte del gergo comune. Ma da cosa nascono i colori? Per quale motivo si è voluto dipingerle con una tinta? Se così l’arcobaleno è un fenomeno ottico che produce uno spettro di colori, è pur vero che ogni colore ha una storia a sé e un destino spesso privato. Potrebbe allora non stridere troppo la locuzione latina “Dividi et impera”, attribuita a Filippo Il Macedone.

Alle spalle di queste rivoluzioni colorate vi sarebbe una metodologia piuttosto serrata. Le manifestazioni di piazza sarebbero dunque fomentate da Organizzazioni non governative, interessate a sostenere i pretesti delle rivolte popolari. Supportando le proteste e guidando i successivi interventi militari, chi sta alle spalle delle rivoluzioni colorate produce un basamento attraverso il quale estirpare i regimi. Il risultato di queste rivoluzioni è spesso un’apertura verso l’Occidente, sotto l’egida di un ideale di democratizzazione delle istituzioni di Stato. Si intravede allora – in tutto questo – un ulteriore riavvicinamento fra le economie ex sovietiche e il capitalismo dell’Ovest europeo, con una rilettura complessiva dell’assetto geopolitico del Vecchio continente.
L’esempio che, forse più di ogni altro, può rendere giustizia di questo movimento di apertura e di contemporaneo riavvicinamento politico-economico di due contesti differenti, è la Rivoluzione delle Rose scoppiata in Georgia nel 2003.
Guidata dai politici Mikheil Saak’ashvili e Nino Burjanadze, questa rivoluzione di matrice filo-occidentale è nata all’indomani delle elezioni parlamentari del novembre 2003. I risultati, che davano per vincente il presidente Eduard Shevardnadze, furono ampiamente contestati dall’opposizione con dimostrazioni pacifiche per le vie di Tbilisi. Il clamore delle proteste costrinse il governo alle dimissioni, e la Georgia conobbe Nino Burjanadze come presidente ad interim. Nel gennaio dell’anno successivo andò alla guida del Paese Mikheil Saak’ashvili, sostenuto dal 96% dei voti.

I retroscena e le verità della Rivoluzione arancione

Ci si è domandati più volte il perché di questo colore, da cosa nasca e la ragione che l’ha innalzato a simbolo di una protesta popolare. È questa la rivoluzione che ha infuocato l’Ucraina nel novembre 2004, all’indomani delle elezioni presidenziali. I primi risultati delle votazioni registrarono il vantaggio di Viktor Janukovich, il braccio destro dell’ex presidente Leonid Kucma. Ma lo sfidante, Viktor Juscenko, esortò la popolazione civile a rimanere in piazza pacificamente, finché non fosse stata ripetuta la consultazione. Juscenko, infatti, denunciò l’esistenza di brogli elettorali nel corso delle elezioni. La protesta fu tale che la Corte suprema invalidò i risultati e dispose il ritorno alle urne per il 26 dicembre. La seconda votazione decretò vincitore Viktor Juscenko col 52% dei voti, contro il 44% di Janukovich.
Ma è l’arancione che diviene presto simbolo delle agitazioni del popolo ucraino. L’intenzione di attribuire un colore alla contestazione popolare, nasce dal bisogno di fornire un’identità concreta ai malesseri di una popolazione. È la voce di milioni di persone che vogliono tornare protagoniste della scena politica nazionale. È così l’occasione per delineare un riferimento storico con altre precedenti rivoluzioni dell’Est europeo: dalla Rivoluzione cantata del 1987-1991 con il grido d’indipendenza delle repubbliche baltiche, alla Rivoluzione di Velluto del 1989 in Cecoslovacchia con il rovesciamento del regime comunista, alla Rivoluzione delle Rose nella Georgia del 2003.
L’arancione fu scelto dai sostenitori di Viktor Juscenko, immaginando che le elezioni presidenziali si sarebbero svolte e definite nel mese di ottobre, quando la Chrescatyk – la via principale di Kiev – è solita tingersi di quella tinta autunnale per le foglie degli alberi che vi sorgono ai lati. Ma l’arancione ha superato di gran lunga gli eventi del 2004, e il popolo ucraino ha proseguito pacificamente la sua lotta per un’identità stabile e un futuro concreto. E le manifestazioni di Euromaidan sono l’emblema di questa sete di giustizia che continua ancor oggi.

Tags:arabia,donbass. rivoluzione,juscenko,kiev,primaveraraba,putin,Tymoshenko,ucraina Next post

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