di Olivier Roy
In Tunisia e in Egitto è scesa in piazza una nuova generazione. Che è più istruita, individualista e laica della precedente.
Le rivolte popolari in Nordafrica e in Medio Oriente sono state interpretate dagli europei attraverso uno schema vecchio di trent’anni: la rivoluzione islamica in Iran.
Ci si aspetta che i gruppi islamisti assumano il controllo delle proteste o stiano lì a tramare nell’ombra, pronti a conquistare il potere. La discrezione e il pragmatismo dei Fratelli musulmani egiziani, però, stupisce e preoccupa: che fine hanno fatto gli islamisti?
Osservando meglio i manifestanti, è evidente che abbiamo a che fare con una generazione postislamista. Per le persone coinvolte nelle proteste i grandi movimenti rivoluzionari degli anni settanta e ottanta appartengono a un’altra storia, quella dei loro genitori. La nuova generazione non è interessata all’ideologia: urla slogan pragmatici e concreti (erhal, via subito) ed evita i richiami all’islam, come succedeva invece in Algeria alla fine degli anni ottanta. Rifiuta la dittatura e chiede a gran voce la democrazia.
Questo non significa che i manifestanti siano laici, ma solo che non vedono nell’islam un’ideologia politica in grado di creare un ordine migliore. Lo stesso vale per le altre ideologie: i manifestanti sono nazionalisti (lo testimonia il grande numero di bandiere) ma non esaltano il nazionalismo. E, cosa ancora più stupefacente, hanno abbandonato qualsiasi teoria del complotto: gli Stati Uniti e Israele (o la Francia, per quanto riguarda la Tunisia) non sono più considerati la causa dei mali del mondo arabo. Il panarabismo sembra essere sparito dagli slogan, anche se l’emulazione che ha spinto egiziani e yemeniti in piazza dopo le rivolte in Tunisia mostra che il cosiddetto mondo arabo è una realtà politica.
Generazione X Abbiamo a che fare con una generazione pluralista, anche perché le persone sono più individualiste. Sono più istruite rispetto ai genitori, vivono in famiglie nucleari, hanno meno figli, non trovano lavoro o hanno visto peggiorare le loro condizioni sociali. Sono più informate e spesso hanno accesso a mezzi di comunicazione moderni che permettono loro di entrare in contatto con altri individui senza dover passare attraverso i partiti politici.
I giovani sanno che i regimi islamisti si sono trasformati in dittature e non subiscono il fascino dell’Iran né dell’Arabia Saudita. Quelli che sono scesi in piazza in Egitto sono gli stessi che manifestano in Iran contro Ahmadinejad (per ragioni di propaganda, il regime di Teheran ha detto di sostenere la rivolta egiziana, ma in realtà si è trattato di un regolamento di conti con Hosni Mubarak). Probabilmente sono credenti, ma questo non ha niente a che vedere con le loro rivendicazioni politiche: in questo senso, il loro è un movimento laico, che separa la religione dalla politica.
Manifestano soprattutto in nome della dignità e del “rispetto”, riprendendo uno slogan nato in Algeria alla fine degli anni novanta. Fanno appello a valori universali e chiedono una democrazia che non ha nulla a che vedere con quella promossa dall’amministrazione Bush per giustificare l’invasione dell’Iraq nel 2003. Paradossalmente, sono stati l’indebolimento degli Stati Uniti in Medio Oriente e il pragmatismo dell’amministrazione Obama a favorire la legittima espressione di una domanda di democrazia autoctona.
In ogni caso, una rivolta non basta a fare la rivoluzione. Coerentemente con la sua natura, il movimento popolare non ha leader né struttura né partiti politici, e questo pone il problema dell’istituzionalizzazione della democrazia. È poco probabile che il crollo di una dittatura faccia nascere subito una democrazia liberale, come sperava di fare Washington in Iraq. In molti paesi arabi, se si escludono gli islamisti e i sindacati, il quadro delle forze politiche organizzate è piuttosto povero.
Che fine hanno fatto dunque gli islamisti, quelli che vedono nell’islam un’ideologia in grado di risolvere tutti i problemi della società? Non sono spariti, ma sono cambiati. I più radicali hanno abbandonato i loro paesi per unirsi al jihad internazionale: si trovano nel deserto, nelle fila di Al Qaeda nel Maghreb islamico, in Pakistan o nelle periferie di Londra. Non hanno una base sociale o politica perché il jihad globale non ha alcun collegamento con i movimenti sociali e di lotta nazionale. Al Qaeda recluta soprattutto giovani senza radici, che hanno troncato le loro relazioni familiari e di vicinato. Fedele a una logica che privilegia la “propaganda dei fatti”, non si è mai preoccupata di costruire una struttura politica nei paesi musulmani e il suo impatto nelle società arabe è nullo.
Il mercato religioso È sbagliato, perciò, mettere in relazione il revival islamico degli ultimi trent’anni con un processo di radicalizzazione politica. Se oggi le società arabe sembrano rispettare il Corano più di quanto facevano trent’anni fa, come si spiega l’assenza di slogan islamici nelle manifestazioni di queste settimane? Paradossalmente, la reislamizzazione sociale e culturale (l’uso del velo, il moltiplicarsi delle moschee, la proliferazione dei predicatori, la diffusione delle tv religiose) ha finito per depoliticizzare l’islam. Si è creato una specie di “mercato religioso” di cui nessuno ha il monopolio, in sintonia con la nuova tendenza dei giovani a cercare un percorso religioso individuale.
Le dittature (tranne quella tunisina) hanno spesso appoggiato un islam conservatore, molto visibile ma poco politicizzato, ossessionato dal controllo dei costumi. Il conservatorismo di stato ha trovato una corrispondenza perfetta nella corrente salafita, che pone l’accento sulla reislamizzazione degli individui e non sui movimenti sociali. I simboli religiosi sono stati spogliati di ogni valore politico. Tutto è diventato islamico, dal fast food alla moda femminile, e quando tutto è religioso, niente lo è davvero.
La pratica religiosa è diventata soggettiva: ognuno si costruisce la propria fede, seguendo predicatori che parlano della realizzazione di sé, come l’egiziano Amr Khaled. L’utopia dello stato islamico non interessa più a nessuno.
Ma sarebbe un errore anche credere che i dittatori difendano le società laiche dal fanatismo religioso. I regimi autoritari non hanno affatto laicizzato i loro paesi. Anzi, molti hanno permesso una reislamizzazione di tipo neofondamentalista, in cui si predica l’applicazione della sharia senza poi riflettere sulla natura dello stato. In molti paesi le istituzioni islamiche sono state addomesticate dai governi e hanno finito per ripiegare su un austero conservatorismo teologico. Perfino i capi religiosi tradizionali, formatisi all’università Al Azhar, non hanno più nulla da dire sulle questioni politiche o quelle sociali. Non hanno niente da offrire alle nuove generazioni, che chiedono di vivere la fede in modo più aperto.
Questa evoluzione riguarda anche i movimenti politici come i Fratelli musulmani in Egitto e il partito Ennahda in Tunisia. La nuova generazione di militanti ha imparato la lezione: prendere il potere con una rivoluzione può portare solo alla guerra civile o alla dittatura. Inoltre, l’esperienza della repressione ha avvicinato gli islamisti ad altre forze politiche. Anche il modello turco gli ha insegnato qualcosa: Recep Tayyip Erdogan e il suo Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) sono riusciti a conciliare democrazia, vittoria elettorale, sviluppo economico, indipendenza e promozione di valori, magari non strettamente islamici ma comunque percepiti come autentici.
Fatto ancora più importante, i Fratelli musulmani non sono più i sostenitori di un modello economico o sociale alternativo. Sono diventati conservatori in fatto di costumi, ma liberali in economia. Questa è senza dubbio l’evoluzione più evidente: negli anni ottanta gli islamisti, in difesa delle classi oppresse, chiedevano un’economia di tipo statalista e un’adeguata ridistribuzione della ricchezza. Oggi appoggiano la controriforma agricola promossa da Mubarak, grazie alla quale i proprietari terrieri hanno di nuovo il diritto di aumentare gli affitti e mandare via gli affittuari. Di conseguenza, nei movimenti sociali egiziani si può osservare un ritorno della sinistra, in particolare dei sindacati.
L’imborghesimento degli islamisti è un punto a favore della democrazia: questa situazione li predispone alla riconciliazione, al compromesso e all’alleanza con le altre forze politiche. Oggi gli islamisti sono entrati nel gioco democratico. Certo, vogliono avere un ruolo nel controllo dei costumi, ma se non vogliono appoggiarsi a un apparato di repressione come quello iraniano, dovranno adeguarsi a una domanda di libertà che non si limita al diritto di eleggere un parlamento.
Nel gioco democratico I Fratelli musulmani saranno una chiave di volta nel cambiamento anche perché la generazione scesa in piazza non ha una struttura politica. Inoltre le società arabe sono piuttosto conservatrici: le classi medie, cresciute grazie alle liberalizzazioni economiche, vogliono la stabilità politica e protestano soprattutto contro la natura predatoria delle dittature come quella tunisina, che ha sconfinato nella cleptomania. Il paragone tra Tunisia ed Egitto chiarisce molti punti. In Tunisia il clan Ben Ali aveva indebolito tutti i suoi potenziali avversari, rifiutando di condividere non solo il potere ma soprattutto le ricchezze.
In Egitto il regime aveva una base sociale più ampia, l’esercito non si limitava all’esercizio del potere ma partecipava anche alla gestione dell’economia. La richiesta di democrazia dovrà dunque fare i conti con le reti clientelari create dai vari regimi. Le aspirazioni democratiche saranno in grado di superare le complesse reti di alleanze e di appartenenza a gruppi come l’esercito o le tribù? I regimi autoritari riusciranno a mobilitare i loro tradizionali alleati (i beduini in Giordania, le tribù in Yemen)? Questi gruppi riusciranno a fare proprie le aspirazioni democratiche?
Il processo sarà lungo e caotico, ma una cosa è certa: non abbiamo più a che fare con l’eccezionalismo arabo-musulmano. Gli eventi recenti riflettono un cambiamento profondo nelle società arabe, cominciato molto tempo fa. Gli avvenimenti in Tunisia e in Egitto mostrano che i protagonisti hanno imparato le lezioni della loro storia. Questo non significa che abbiamo finito di fare i conti con l’islam o che la democrazia liberale è la “fine della storia”. Ma bisogna ormai pensare l’islam in relazione a una cultura arabomusulmana che, oggi come ieri, non è assolutamente chiusa in se stessa.
18 febbraio 2011