del significato delle immagini
Marco Scotti. La Street Art, qualunque definizione tra le tante che sono apparse nel recente dibattito critico si voglia accettare, è un linguaggio effimero; effimero ad esempio per quanto riguarda la conservazione e la trasmissione delle immagini, che passa necessariamente spesso solo da una documentazione che coinvolge altri linguaggi, su tutti cinema e fotografia. Il supporto del muro non può necessariamente garantire una durata che non è d’altra parte in alcun modo connessa alle culture a cui la Street Art fa riferimento. Metodi di conservazione improvvisati, quali la lastra di plexiglass che copre un pezzo di Banksy a Londra, in fondo non sono altro che tentativi, piuttosto fuori contesto, di rallentare processi inevitabili. Considerando inoltre come il carattere performativo delle tecniche sia ancora più difficile da documentare rispetto a un lavoro in atelier, ma almeno altrettanto fondamentale, ritengo che piuttosto che a forme di restauro o conservazione – spesso rese ancora più ardue dall’illegalità connaturata nel genere stesso – sia importante guardare alla lettura e documentazione portata avanti da progetti video e fotografici. Non a caso ritroviamo come alcune tra le testimonianze più importanti del la grande stagione dei Graffiti a New York due progetti fotografici[1] che rivestono per questa scena il ruolo di grande racconto come di vero e proprio archivio storico.
Per parlare dell’artista belga Roa abbiamo scelto allora di riprendere il breve documentario che Mouarf, membro del collettivo PhotoGraff, ha realizzato seguendo l’artista in un ospedale abbandonato in Francia: in pochi minuti l’immagine salta dall’attenzione al dettaglio e alla tecnica a rapide carrellate per seguire la manualità dell’artista nell’uso della bomboletta, la cinepresa mette in scena il confronto diretto con il muro che viene, grattato e inciso si confronta con un segno sottile, in una visuale sempre più ravvicinata, per fermarsi sulle superfici bianche preparate a rullo. Disegni alla mano Roa si muove negli spazi: gli stessi spazi abbandonati dei quali capiamo l’importanza guardando il ritratto dell’artista, sempre dello stesso autore, che racconta alcune delle prime location scelte attorno alla città natale di Ghent, in Belgio. Allo stesso modo, il lavoro fotografico del collettivo, rappresenta una risorsa unica sull’artista: la conservazione digitale delle opere, pur senza nessuna garanzia di archiviazione e reversibilità dei formati, è un valore che si va a sovrapporre a un discorso chiaramente consapevole del ruolo della fotografia e dell’immagine come racconto, come scrittura.
La libertà di occupare gli spazi corrisponde ad una messa in scena del suo repertorio stilistico, anche attraverso porte e finestre, grandi accessi, o superfici impreviste: esemplare la composizione del pezzo realizzato nel 2010 a Ghent sulle superfici di un silos, in cui il corpo di un uccello viene rappresentato disteso lungo le pareti curve. Mentre spesso le rappresentazioni legate alla morte sono l’occasione per commentare il contesto attraverso allegorie e simboli, come nel lavoro per Salton Sea Beach, nel cui lago i pesci Tilapia rappresentati ormai decomposti dall’artista sono l’unica specie ancora in grado di sopravvivere all’altissimo livello di salinità.
I luoghi deserti, marginali, sono spesso per Roa lo spazio dove poter lavorare in tranquillità, ma entrano inevitabilmente: un caso emblematico è la città di Doel, in Belgio, abbandonata da molti dei suoi abitanti a causa del rischio di demolizione in diverse sue parti a causa dell’espansione del porto di Anversa, per Roa – e molti altri artisti – diventa “just a cool playground” dove sperimentare. Il racconto dettagliato dell’esperienza è così possibile ricostruirlo attraverso risorse quali il confronto con l’artista stesso e l’intervista. E mi riferisco in particolare a quella realizzata da Vincent Morgan per il portale FatCap – storico archivio di immagini già dal 1998 – in cui al ruolo documentario delle fotografie si affianca la testimonianza di Roa che in un grande racconto spazia tra riferimenti e modelli, culture e sottoculture condivise. Dai Graffiti raccontati nello storico film Wild Style all’Origine della Specie di Darwin inserito tra i libri preferiti, possiamo raccogliere diversi elementi che ci portano alla dichiarazione di “una personale ossessione per gli animali come modo di rappresentazione del mondo”[3].
[1] Mi riferisco in particolare a N. Mailer, J. Naar The faith of graffiti, Praeger, New York, 1974 e M. Cooper, H. Chalfant, Subway art, Thames and Hudson, London, 1984.
[2] Roa, An introduction to animal representation, Mammal press, London, 2011.
[3] V. Morgan, interview Roa, “FatCap”, http://www.fatcap.com/article/roa.html, pubblicato il 27.09.2010, consultato il 15.09.2012.