Roberta Cioni - Incipit Comoedia. Infernum 1. - a cura di Alberto Agazzani

Creato il 09 ottobre 2012 da Roberto Milani
Incipit Comoedia.
Infernum 1.

FONDAZIONE AMLETO BERTONI - Saluzzo

Antiche Scuderie - p.zza Montebello 1, Saluzzo, It 26 ottobre - 11 novembre 2012


Un viaggio al termine del giorno. Dante s'inoltra “in una selva oscura”, ha perduto la “diritta via”, quella conosciuta, e si ritrova avvolto dalle tenebre. Sente attorno a se il mistero panico della Natura, la sua violenza e ferinità ed il terrore estremo di quella solitudine impotente lo attanaglia al punto da fargli esclamare che in confronto, al solo pensiero, “poco è più la morte”. Nonostante ciò sprofonda nel sonno e solo la luce “dè raggi del pianeta” (nel sistema tolemaico il sole era considerato come tale) lo risveglieranno la mattina seguente, allorché “fu paura un poco queta”. Poco dopo l'incontro con le tre fiere e, successivamente, con Virgilio.
Nessun poema più della Commedia dantesca, fatta eccezione (forse) per la Bibbia, ha mai goduto di più attenzione da parte di artisti (ed illustratori), che nelle sue pagine hanno trovato spunti ed ispirazioni per manifestare le proprie espressività. Dalle prime illustrazioni di Pacino da Buonaguida risalenti al primo trentennio del Trecento, fino alle celeberrime tavole di Doré, appartenenti ormai all'immaginario collettivo novecentesco, ed a quelle nostre contemporanee di Roberta Coni, ogni epoca ha saputo trovare nel complesso intreccio teologico-filosofico-storico-letterario del Poema spunti e suggestioni sempre nuove e sempre cocenti. Giotto, Botticelli, Signorelli, Blake, Corot, Delacroix, Rossetti, Böcklin, Doré, Rodin, Martini, Dalì, Nattini sono solo i più celebri, e se non tali più eccellenti come nel caso di quest'ultimo, tra coloro che hanno tradotto in immagini l'intensa drammaturgia dantesca, tuttavia senza mai giungere, comprensibilmente, ad una soluzione esaustiva. E' infatti assai arduo, se non impossibile, illustrare con immagini un testo letterario, soprattutto se poetico, dove, cioè, la parola s'unisce al suono della sua stessa musicalità. Ed è in questa apparente impossibilità, in questa sfida perenne e perennemente aperta che probabilmente risiede la fortuna “visiva” della Commedia, particolarmente dell'Inferno e della sua prima cantica. Senza troppo indugiare sulle ragioni di tale fortuna, basterà riconoscerne le ragioni nella straordinaria spettacolarità visionaria, nell'intenso coinvolgimento autobiografico oltre che per la drammatica, drammaturgica verrebbe da dire, espressione delle umane passioni. Nonostante ciò, di contro, il suo incipit, ossia l'oggetto prescelto da Roberta Coni e significato da questa esposizione, rimane un esempio isolato, destinato ad una felicità più mnemonica che figurativa. Eppure è proprio in quelle poche terzine che è contenuto l'intero universo (simbolico, teologico e narrativo, ma pure letterale ed allegorico) del poema. Ancora e nuovamente non è questa l'occasione né la sede per addentrasi, con Dante, nel complesso universo simbolico e allegorico medioevale, tuttavia sarà necessario farne accenno al fine di meglio comprendere l'intimo viaggio intrapreso da Coni nella sua personalissima (e dunque ideale) “selva oscura”, fino all'altrettanto atteso incontro, qui finale, con le tre fiere.
La solitudine del poeta, nelle tele di Coni, si trasforma decisamente nella solitudine della pittrice. Una solitudine, umana e creativa, personale ed universale, che appartiene ad ogni uomo ed ogni epoca, ma che pare oggi più che mai attuale e disarmante, forse per un nostro eccesso d'immedesimazione dovuto alla diretta e quotidiana inquietudine (è un fenomeno tutt'altro che inatteso il fatto che il senso di solitudine sia proporzionale alla possibilità di comunicazione, fino al paradosso/parossismo di “second life” e “social network” virtuali, fonti inesauribili di patologie ansiogene e depressive: “l'Era dell'ansia” per dirla con Auden). Una solitudine nel buio, non a caso, che per l'appunto ingenera inquietudine, paura, ansia che solo la luce, nella sua doppia valenza simbolica e fisica, può lenire.
Ecco allora manifestarsi la vera protagonista di questo viaggio nel buio dell'inconscio e della poetica di Coni: la luce. La quale per esistere, al pari di Dio e del Bene, necessita fatalmente della sua contrapposizione, quel buio primordiale nel quale germina, prolifica e si realizza Satana ed il Male (Goethe nel suo Faust fa esclamare a Mefistofele: “una parte della tenebra che la luce generò”).
Il raggio di sole che “sveglia” e rincuora il poeta è la speranza generata dalla presa di coscienza della presenza del bene, di Dio, dell'amore incarnato da Beatrice, che già compare come un'ideale da conquistare e raggiungere.
Coni traduce questa profonda e terrificante inquietudine in immagini molteplici, ossessive, cariche di dolore eppure silenziose, prive di retorica e di espressionismo facilmente manierato o manierabile. Moltitudini invisibili, avvolte dalle tenebre; presenze percepibili solo attraverso l'ascolto del silenzio: fruscii di membra larvali bagnate d'umori. Una calca infinita che colma e anima il buio della selva, preludio invisibile ma presente delle atroci sofferenze, generate simbolicamente dalle tre fiere, che Dante e Virgilio incontreranno nel loro viaggio al centro della terra.
Potrà sembrare nuovamente paradossale (ma si tratta di una prerogativa tutta e sola della pittura quella di rappresentare l'invisibile e realizzare l'impossibile), ma le vere protagoniste dell'incipit della prima cantica dantesca sono proprio queste moltitudini invisibili che la luce di Roberta Coni (quindi nostra) rivela, contrapponendosi al buio e svelandone il mistero terrificante, invisibile, panico. La luce che rivela donando conoscenza e conforto; quella stessa luce che squarcia la vista verso le tre presenze bestiali e contro la quale, non a caso, esse stesse si scagliano ferinamente. La luce che risveglia Dante dal suo sonno terrorizzato, ma anche la luce rappresentata e idealmente generata dallo spettatore, dal viaggiatore/Dante, da colui, cioè, che sta al di fuori della tela.
Anche nel merito della simbologia riconducibile alle tre “fere”, la lonza, il leone e la lupa, la letteratura filologica trabocca di interpretazioni sottese fra teologia e filosofia. Coni, lontana da qualunque realismo, le rappresenta attraverso un simbolismo inedito ed originalissimo, filtrato dalla sua personale esperienza espressiva e felicemente riassuntivo di un percorso pittorico dalla coerenza assoluta.
Le tre fiere per la pittrice rappresentano nettamente e senza dubbio alcuno la personificazione dei vizi capitali; quegli stessi vizi, generati dal buio e dall'oscurità, dai quali scaturisce il peccato da espiarsi attraverso il fuoco dell'Inferno, il regno di Satana (“Se non mi fossi riservato il fuoco non mi restava un angolo” confessa il disperato Mefistofele a Faust).
Superbia, Avarizia, Lussuria, Invidia, Gola, Ira e Accidia. Vizi del corpo, sensuali (Lussuria e Gola) e vizi dello spirito, tutti insieme a colpire, avvolgere e trascinare nelle tenebre e nel fuoco l'uomo nella sua dimensione fisica e metafisica.
Le tre bestie dantesche nella visione/rappresentazione di Coni diventano l'incarnazione del vizio e, dunque, del peccato capitale.
La lonza (presumibilmente una lince nella terminologia medioevale) simbolo di lussuria per eccellenza (che Coni sottolinea con attraverso la forma fallica di una pera tentatrice, il frutto proibito nella simbologia mediioevale), qui diventa incarnazione anche (ed evidentemente) di golosità smodata e vanità (seppure lo specchio rivolto allo spettatore ne riveli la viziosa mostruosità intrinseca), ma non solo: lasciando trasparire una mollezza accidiosa di oziosa eppure letale indifferenza (l'accidia, finalmente, appare come l'antivizio per eccellenza: l'accidioso non agendo non pecca, estraneo all'attività, anche del bene e del male, preferendo piuttosto l'omissione, l'ozio anche della coscienza).
Più circoscritto eppure altrettanto spaventevole e pernicioso appare il leone, una leonessa nell'iconografia di Coni, carico sì di superbia, vanitoso nella fulgente bellezza di una penna di pavone e carico di eros animale. Ma pure intriso d'invidia come ogni superbo, che attacca violentemente e senza pietà, distrugge più per ingordigia dell'Ego e dello spirito che del proprio corpo, ma anche per il perverso piacere di togliere agli altri, anche ciò che essa stessa già possiede.
La lupa, nella sua scarna magrezza, qui come nella simbologia trecentesca sottolinea sì avarizia, radix omnium malorum, e cupidigia: i più temibili e terribili fra tutti i vizi. Un'avarizia senza requie, ma anche una cupidigia insaziabile; cupidigia materiale e sensuale, quindi che contiene lussuria e feroce ira, superbia e invidia, perfettamente manifestate nella più terrificante e spietata delle tre rappresentazioni qui raccolte.
Un viaggio al termine della luce, prima d'immergerci nelle tenebre illuminate dal fuoco della dannazione eterna. Ma anche un viaggio nell'intimo della natura umana, sempre uguale a sé stessa e sempre identicamente e variamente manifesta della sua intrinseca dualità, sottesa fra luce divina e tenebra bestiale. Una dualità che oltre ogni linguaggio solo la pittura (e l'arte più in generale), prerogativa tutta e solo umana, può rappresentare, gettando un luminoso sguardo divino oltre il visibile e illuminando quelle tenebre ove alberga, sempre vigile e pronto a colpire, l'animale che è in noi.
Alberto Agazzani
Reggio Emilia, 20 settembre 2012

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