Roberto Roversi, ottantanove anni di cultura italiana

Creato il 28 gennaio 2012 da Pupidizuccaro

Oggi è il compleanno del grande Roberto Roversi. Riporto qui una nota di pochi giorni fa scritta dall’editore Luca Sossella, e l’intervista al poeta bolognese fatta da Michele Smargiassi per la Repubblica lo scorso giugno.

Ho incontrato (la prima volta) Roberto Roversi nel settembre del 1977 a Bologna in via Castiglione, nella sua libreria Palmaverde. Bologna bruciava. In centro. Se uno si prendeva la briga di andare a Osteria Grande, faccio per dire, poteva notare che nessuno si era accorto di nulla. Io avevo vent’anni, Roversi cinquantaquattro. La mia età di oggi. Siamo nati lo stesso giorno, il 28 gennaio. Sabato compirà ottantanove anni. Nel 2008 abbiamo pubblicato una edizione in mille copie di Tre poesie e alcune prose, le “tre poesie” del titolo (da lui voluto con forza, ma c’è qualcosa che Roversi non voglia con forza?) sono i suoi tre libri più importanti di poesia Dopo Campoformio (nella versione 1965), Le descrizioni in atto (1969-85) e i versi riuniti nel Libro Paradiso (1993). Vi sono inoltre due estratti dai romanzi Registrazione di eventi (1964) e I diecimila cavalli (1976), e una mia scelta di suoi scritti (tra 1959 e 2004) dal titolo Materiale ferroso. Sono felice di apprendere oggi, a inventario chiuso, che rimangono solo 226 copie del libro. Il punto di pareggio era a settecento copie, quindi l’edizione ha realizzato un ricavo superiore alle spese. Lo vedete che la buona poesia paga! E’ la cattiva che si fa pagare…

L’anno scorso gli avevo proposto di fare una lettura di suoi testi, non da parte sua, ovvio, ma da parte di coloro che hanno dei debiti nei suoi confronti. Mauro Felicori, all’epoca direttore dell’assessorato cultura, aveva reso possibile la lettura ad alta voce in un luogo che io avevo sognato, la Sala Borsa, spazio molto bello in piazza Maggiore. Non se ne fece nulla, malauguratamente ebbi l’idea di mettere a parte Roberto dell’iniziativa. Le sue armi dissuasive sono più precise del raggio laser. La faremo più avanti. Per il suo centesimo compleanno, nel 2023.

“Troppo bianchi questi muri”. Per 65 anni nessuna parete attorno a Roberto Roversi mostrava l’intonaco: solo dorsi di libri. Ma adesso, dall’appartamentino che condivide con la moglie Elena, collaboratrice d’una vita, al quarto piano di un palazzone assediato dai kebab, i libri sono quasi spariti. Annuisce, malinconico e sorridente, appoggiato al bastone, la candida barba risorgimentale arcuata alle punte come un monumento: “Quattro anni, la nostalgia si sente”. Il poeta libraio oggi ottantasettenne, il severo patriarca bolognese, amico e ospite di una generazione di grandi intellettuali italiani, l’eclettico autore di poemi, di prosa civile, teatro, di dischi pop con Lucio Dalla, ha ceduto nel 2007 la sua tana, la libreria antiquaria Palmaverde, ma da pochi giorni si è privato anche di gran parte della sua biblioteca personale: donata alla libreria Coop Ambasciatori, che l’ha messa all’asta volume per volume, versando il ricavato ai senzatetto. Solo qualche superstite nello studio, “ma li ricordo tutti, i libri della mia vita”.

Quali ha tenuto con sé?
Ma è ovvio, quelli che devo ancora leggere. E anche quelli che voglio rileggere come se fossero nuovi.

È giusto rileggere?
A volte indispensabile. Manzoni letto a vent’anni è intollerabile, a cinquanta comincia già a migliorare, a ottanta è eccellente, lo leggi come guarderesti un paesaggio dall’alto.

E poi?
Qualche classico del Novecento e quelli dei miei vecchi amici: Vittorini, Bassani, Calvino, Volponi… Mi sono necessari per leggere tutto il resto, sono come un machete nella foresta tropicale.

Quanti libri le sono passati per le mani?
Lo so per certo: trecentomila. Come Palmaverde abbiamo pubblicato 225 cataloghi da oltre mille titoli ciascuno, più i miei personali e quelli che tenevo per i clienti speciali.

I suoi amici scrittori?
Oh no, loro non compravano. Quando riunivo in libreria la redazione di Officina, con Pasolini, Sciascia, Scalia, Leonetti, erano battaglie senza sangue tra cervelli aguzzi che io ascoltavo con ammirazione: ma non capitava mai che qualcuno di loro buttasse un occhio agli scaffali che ci circondavano, silenziosi, gremiti e attenti come palchi di un teatro. E se per caso qualcuno manifestava una certa attenzione per un volume poggiato sul tavolo, era solo perché glielo regalassi… Così preferivo anch’io che non li guardassero troppo, i libri.

E Lucio Dalla li guardava i libri?
Un uomo colto, ma in libreria non avevo un giradischi, così per parlare delle nostre cose musicate mi veniva spesso a prendere in macchina e giravamo sui colli ascoltandole con l’autoradio. Diceva che avrebbe musicato anche l’elenco del telefono, se lo avessi scritto io. Poi giustamente s’accorse che le cose che scriveva da solo vendevano cento volte di più delle nostre.

Insomma tanti intellettuali, nessun cliente?
Sciascia era interessato solo alle stampe. Fortini una volta mi chiese di procurargli uno studio sul Tasso, poi però lo trovò troppo caro e non lo comprò. Ma non è colpa loro, capisce. I grandi intellettuali, i libri sono abituati a riceverli in regalo. Non li cercano più, sono i libri che cercano loro.

Chi sono stati allora i clienti migliori?
Quelli inimmaginabili. Come il parroco Sales, che dall’Aspromonte mi ordinò una prima edizione del Wittgenstein. Per il libro non c’è mai destino avverso, ognuno prima o poi trova il suo lettore. Anche se verrà superato dalla giusta aggressione delle tecnologie, il libro non morirà mai.

Il suo primo acquisto?
Mio padre era un radiologo, andavo da lui in corsia tutti i lunedì per vedere i giocatori del Bologna infortunati. Voleva che facessi il medico come lui, mi teneva controllato. E io, ora posso confessarlo, gli rubavo cinque lire dal portafogli per andare a comprare di nascosto la Storia del teatro di D’Amico, che usciva a dispense. Un furto agreste, per necessità… Poi non smisi più di comprare. Quando sposai Elena, il nostro letto nuziale praticamente si reggeva sui libri.

Quali preferiva comprare?
I libri-cane. I più umili, bastardi, stazzonati, mogi, randagi, me li portavo a casa e dopo una cura di coccoina e cartone tornavano allegri a scodinzolare.

Si affezionavano, ma lei li rivendeva ad altri padroni…
Vendere i libri, mi creda, è la parte più dolorosa del mestiere di libraio. Tra i miei libri di casa e quelli di libreria non c’è mai stato un confine vero. Ogni libro che partiva era una perdita inesorabile. E quante volte, venduto un titolo, mi sono messo subito a cercarne uno identico per riempire il vuoto.

La sua è sempre stata una libreria senza vetrina.
Tranne un breve periodo in via Caduti di Cefalonia, ma quelli che mettevamo in vetrina non si vendevano mai… Io mi sono sempre occupato personalmente delle spedizioni, facevo pacchi robustissimi. Un cliente giapponese mi scrisse estasiato per come gli avevo imballato una Treccani, un volume per volta con carte di colori diversi, volevo rivaleggiare con l’armonia del Sol Levante. Dai libri che partivano per l’estero, che dovevano affrontare un viaggio lungo e periglioso, mi congedavo con un rito speciale: scrivevo una piccola poesia per loro e la infilavo fra le pagine.

Vuol dire che in Canada o a Singapore ci sono bibliofili che possiedono autografi inediti di Roversi e magari non lo sanno?
Io ne ho copia, guardi qui [sfoglia un'agenda del '95 piena di poesie scritte a mano e di foto di biblioteche. ndr.], sono poesie che non ha mai letto nessuno tranne me e il destinatario. Erano viatici. I libri sono individui, parlano, cantano, profumano, si muovono secondo il vento e le stagioni. Quel che rimpiango di più è non aver abbastanza forza nelle gambe per andare in una libreria, aspirarne l’odore come quando si entra in un bosco, scaffali come alberi e libri come foglie, perché i libri non sono corpi morti…

Lei ricorda Kien, il bibliomane di Autodafé di Canetti, che ascoltava i libri parlare fra loro di notte…
E cosa vuole che facciano i libri di notte? Immagini la biblioteca dell’Archiginnasio, in inverno, gelo e neve fuori, buio dentro, i libri disposti in ordine bizzarro, per altezza e dimensione, magari si trovano fianco a fianco due volumi incompatibili, si parlano, litigano, si sfidano a duello… Poi, la mattina, quando torna il bibliotecario, tutto è di nuovo in ordine.

Ne ha mai sorpreso qualcuno in flagrante?
Sicuro. Non bisogna mai fidarsi di loro. C’era quel Battaglini, lazzarone d’un libro, un in-quarto di argomento religioso, malconcia rilegatura di pergamena, io non avevo tempo per ripararlo, ma lui era impaziente, anche un po’ arrogante, allora lo sistemai per punizione in uno scaffale molto alto. E la carogna si vendicò: un bel giorno si buttò da lassù mentre passavo, mi colpì sulla spalla, per fortuna, se mi avesse preso in testa non sarei qui a raccontarlo. Lo vendetti subito, a poco prezzo, così com’era. Il nostro rapporto si era spezzato irrimediabilmente.

Sanno essere perfidi, i libri.
Ma anche provvidenziali. Al fronte, nel ’44, dopo il mio battesimo del fuoco, ero perso, disperato, sul punto di scappare, la sera sotto un covone di paglia mi tastai la giubba e trovai due libriccini che non ricordavo di avere preso, scelti perché stavano in tasca. Uno era Goethe, lo aprii a caso e lessi due versi: “Se l’inverno viene, può la primavera essere lontana?”. Quel libro mi salvò dalla fucilazione per diserzione.

E i suoi libri? Quelli scritti da lei?
Non so che sorte avranno… Forse la pattumiera della storia. Si sente odore di fumo nell’aria, la carta è riciclabile.

Posso definirla un poeta civile?
Ho cercato di essere il poeta che spiega a se stesso le ragioni che condizionano le scelte del tempo, e così le rende visibili agli altri. Scrivere delle mie rogne private non mi interessa.

Continua a scrivere?
[Risponde Elena]: Come un matto. Dovresti fare almeno un giretto in corridoio ogni tanto. [Lui] Scrivo finché ho fiato in bocca. Sa cosa disse Sklovskij, la mia bibbia? “Il socialismo non c’era ancora, bisognava scrivere molto”. Tenga, questo è l’ultimo, L’Italia sepolta sotto la neve, parla di questi nostri anni di deserto freddo. Sono cinquecento pagine da schiudere col tagliacarte: le serviranno dodici minuti in più ma sono minuti preziosi per il pensiero. L’ho stampato in trentadue copie, non lo vendo.

Come tutti i suoi periodici-samiszdat degli ultimi decenni…
Certo, il “Foglio degli eremiti”, “Fischia il vento”, “Gioco d’azzardo”… Non distribuiti ma liberamente mandati. Preferisco così, oggi che anche l’opposizione politica ha delegato ai comici l’obbligo di parlare della realtà. Non li legge nessuno, questi miei versi? Pazienza, io li scrivo, perché tacere è morire.


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