Robottoni Risorgimentali – Il making of (2: i mecha)

Creato il 03 luglio 2013 da Mcnab75

Tifone

Secondo appuntamento col making of del mio romanzo breve di genere steampunk, I Robot di La Marmora (acquistabile al prezzo di un cappuccino al link che vi ho appena indicato).
Nel primo speciale ho parlato degli alieni Nekton, sbarcati sul pianeta Terra in pieno Risorgimento, sconvolgendo gli equilibri mondiali. Se ve lo siete perso, recuperate il making of in questione. Tranquilli, è gratis.
In questo secondo articolo spendo volentieri qualche parola sui robot citati nel titolo dell’ebook.
Iniziamo con una precisazione, già fatta in occasione della presentazione del romanzo: la parola “robot” è un anacronismo. Essendo stata utilizzata per la prima volta negli anni ’20 del XX secolo, nel Risorgimento era del tutto sconosciuta. Avrei dovuto quindi utilizzare la parola “automi”, ma ho preferito regalarmi una licenza poetica.
Converrete che così il titolo suona meglio.

I mecha in questione sono stati creati dai Nekton appartenenti alla fazione minoritaria della Meccanica Evolutiva. Questi, nettamente inferiori in numero rispetto ai seguaci del Gene Sovrano, hanno deciso di chiedere asilo al giovane Regno d’Italia, tradendo così il loro ammiraglio, alleatosi con l’Impero Austriaco (per conoscere le loro motivazioni vi rimando di nuovo al primo making of).
Proprio per contrastare le armate asburgiche, nelle cui fila sono stati aggregati i “mostri guerrieri” sviluppati dai genetisti Nekton, i disertori fedeli alla filosofia della Meccanica Evolutiva hanno deciso di regalare agli italiani la tecnologia per creare degli esoscheletri da combattimento.

Questi robot sono stati fabbricati in gran parte sfruttando le risorse disponibili in quegli anni (tra il 1864 e il 1866), raccordando e perfezionando il tutto con le superiori conoscenze scientifiche degli alieni.
Ho immaginato dunque una rapida riconversione di alcune fabbriche dell’Italia settentrionale, che a quel tempo erano in fase di lento sviluppo, al fine di creare reparti adibiti al solo assemblaggio dei robot.
Più che all’industria bellica, gli ingegneri del Regno d’Italia si sono appoggiati all’industria ferroviaria, più attiva e ricca rispetto a quella militare.

Sfruttando dunque le risorse delle società ferroviarie appartenenti all’ex Stato Sabaudo, ma anche alle linee romane e piemontesi, i robot sono stati costruiti in tempi relativamente rapidi. Questa scelta ha offerto un ulteriore vantaggio, vale a dire quello di stare lontano dagli occhi indiscreti delle spie austriache (e francesi), la cui attenzione era focalizzata sulle forze armate tricolori.
Con la tecnologia trafugata dalla Nave Madre dai Nekton defezionisti, è stato inoltre possibile assemblare i moduli di comando dei robot, governati da semplici computer e da comandi meccanici.
Nota bene: i robot sono stati pensati e creati per piloti umani, addestrati per il compito, e non per piloti Nekton, assai poco desiderosi di combattere in prima linea la Terza Guerra d’Indipendenza.
Solo uno dei mecha gode di un sistema di pilotaggio molto più avanzato, con interfaccia mentale macchina/pilota. Tale esemplare, su cui non farò spoiler, è al momento unico, in quanto ricicla l’IA (intelligenza artificiale) della navetta utilizzata dai defezionisti per fuggire in Italia.

Porfirione

Per la propulsione dei mecha, i Nekton hanno optato per dei motori a idrocarburi. Il che, per essere precisi, ci spinge più verso il dieselpunk che non verso lo steampunk. Ammesso che ci importi qualcosa delle rigide classificazioni.
In periodo risorgimentale il motore a combustione interna era però solo un brevetto, un’invenzione fatta dagli italiani Eugenio Barsanti e Felice Matteucci nel 1853. I primi motori di questo tipo vennero commercializzati solo dal 1899 in poi.
Tuttavia, nell’universo ucronico del mio romanzo, gli alieni hanno semplicemente ripescato le conoscenze di una tecnologia per loro primitiva, ma adatta alla situazione storico/scientifica/economica dell’epoca.
Per dirla in altro modo: hanno condiviso con gli ingegneri umani le specifiche tecniche per costruire i motori dei robot, consigliando poi al governo italiano e alla corte del Re di stipulare una serie di accordi commerciali con gli Stati Uniti, per l’acquisto di petrolio da raffinare in benzina.

Qui cito un riferimento storico interessante: L’industria petrolifera nacque negli anni 1850 negli Stati Uniti (nei pressi di Titusville, Pennsylvania), per l’iniziativa di Edwin Drake. Il 27 agosto 1859 venne aperto il primo pozzo petrolifero redditizio del mondo. Ci sarebbero voluti altri quarant’anni per far diventare questa industria di rilevanza nazionale ma, nella mia realtà alternativa, ho accorciato i tempi, tutto grazie ai Nekton e al Progetto Giganti.

Sì, questo è il nome dell’operazione militare che ha portato alla creazione dei mecha: Progetto Giganti.
Facile capire che esso fa riferimento alla mitologia classica, greca e romana.
Non a caso tutti i nomi dei mecha citati nel romanzo sono presi in prestito da queste antiche e nobili fonti. Nello specifico:

  • Anteo (dal nome del Re della Libia, gigante figlio di Poseidone e Gea);
  • Tifone (figlio minore di Gea e Tartaro, di mostruose fattezze);
  • Damiso (considerato il gigante più veloce, noto perché dalle sue ossa venne “trapiantato” il leggendario piede veloce di Achille);
  • Porfirione (figlio di Urano e Gea, fratello di Tifone, considerato uno dei giganti più feroci della gigantonomachia).

Damiso

Ci sono altri due Mecha, citati solo di sfuggita, che sicuramente ricompariranno nel seguito de I Robot di La Marmora. Essi sono:

  • Anatto (figlio di Urano e Gea, Re della Caria);
  • Toante (uno dei combattenti della gigantonomachia, ucciso dalle Moire).

Per il momento esistono tre plotoni di Giganti, ciascuno costituito da quattro unità combattenti: il Primo Plotone, comandato dal capitano Valenti, il Secondo Plotone (protagonista del romanzo), comandato dal capitano Gambara, e il Terzo Plotone, comandato dal capitano ex garibaldino Bonetti.
Col passare del tempo e con l’inasprirsi dei rapporti coi vicini (austriaci, ma forse anche francesi e prussiani), sarà forse necessario costruire altri mecha, ancora più grandi.

Già, perché attualmente la dimensione dei robot è tutto sommato limitata: si va dai quattro metri e mezzo di Damiso ai sette metri di Porfirione.
Questo li classifica più come esoscheletri che non come veri e proprio robot giganti.
Il loro armamento è un mix di armi terrestri adattate per l’occasione, come la mitragliatrice Gatling innestata sul braccio di Anteo, e altre futuristiche/aliene, “cannibalizzate” dalla navetta dei Nekton schieratisi con l’Italia. Di questa seconda categoria fanno per esempio parte i missili aria-superficie di cui ho dotato Tifone.
Completano l’equipaggiamento una serie di armi bianche (spade, seghe rotanti, lame da polso), di chiara ispirazione vintage, pensate sia per il combattimento corpo a corpo, sia come omaggio ai robottoni della nostra infanzia.

Un’ultima nota, che ho già fatto più volte, ma che ci tengo a ripetere: il graphic design dei robot che ho postato in questo articolo è stato generato con l’app gratuita Jaeger Designer della Warner Bros, sviluppato per promuovere il già citato film Pacific Rim.

Tutto il resto? Lo scoprirete leggendo il mio ebook e i sequel che arriveranno nei prossimi mesi.

I Robot di La Marmora.
In versione Mobi (Kindle Store) ed ePub (Lulu Store).

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I Robot di La Marmora (presentazione dell’eBook)

Alex Girola – follow me on Twitter


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