13 giugno 2013
a sessant’anni dalla morte
1. O mio cuore antico
Rocco Scotellaro è morto sessant’anni fa, a Portici, il 15 dicembre 1953, di notte, con un turbine negli occhi, un temporale sulla fronte e uno schianto terribile nel cuore, un rantolo breve e definitivo su un letto non suo di camera in subaffitto, ha reclinato il capo come un toro mortalmente trafitto dall’ultima estocada con la spada piantata fino all’elsa e le banderillas all’infuori. Se ne è andato a soli trent’anni, presagendo la sua fine (“O mio cuore antico, / topo solenne che non esci fuori/ sei giunto alla fine del tuo cammino”). Era nato novanta anni fa, nel 1923, a Tricarico, piccolo centro della Lucania, terra nera di precipizi con un torrente che delira nel ventre. Era un poeta, un poeta vero pieno di scintille. E il suo cuore gli ardeva nel petto come dentro un cratere, e nei suoi occhi neri c’era un’ alba viva. Ma era anche fragile come un giglio,un fanciullo che non conobbe mai l’amore di una donna vera. Scrive Fortini che visse di forti contraddizioni sentimentali. E sociali. Infanzia-maturità, figlio-genitori, partenza-ritorno, sottomissione-rivolta, paese-nazione, piccolo mondo contadino-grande mondo moderno. Percorse i giorni come nubi perdute, gli navigava nel petto un’onda da giaguaro e una solitudine infinita. Contrassegnò tutta una lunga stagione di fuochi e di speranze. Sindaco a vent’anni, occupò le terre coi suoi contadini nel ’49 e l’anno dopo fu arrestato e incarcerato, per false accuse. Poi fu liberato. Ma per lui fu uno straccio e un coltello, il cuore cominciò a sanguinare. La vergogna, l’umiliazione lo segnarono per sempre. E infatti morì poco dopo col cuore crepato. Nel suo sogno di vento e lotta al buio, di boscaglia verde e bianca, era entrata l’aria fetida della calunnia, la pietra viscida dell’ingiuria, la serpe dell’invidia e della gelosia gli si era annodata alla gola. E l’uccisero. Fu uno dei tanti poeti – spesso oscuri – che viene impiccato ad un albero del nulla ogni giorno da tutti gli immondi governi del mondo. E il suo cuore antico scoppiò come un palloncino. Ne rimasero solo i lembi.
2. Chi era Rocco Scotellaro?
Ho chiesto in giro, come sospeso in una gabbia, sospeso in un’immagine, in una pausa di me stesso, senza sapere più chi ero, stella errante, senza un’orbita: Chi era Rocco Scotellaro? E mi rispondeva un’eco distorta con gli stessi nomi, gli stessi volti, le stesse facce tristi e vacue, malate dei contadini di Levi, lo stesso destino mascherato da libertà, lo stesso gioco, le stesse regole in cui nessuno vince in quel vorticoso delirio di un dio speculativo, di un uomo divenuto dio balbettante. La storia è un infinito andirivieni senza inizio e senza fine, il solito immondezzaio. Là le parole sono senza suono e non fanno ombra, non lasciano scie. Ho chiesto ai pescatori, agli infermieri, agli impiegati, ai commercianti, agli edicolanti, ai militari, ai professionisti, e infine ai professori e agli allievi dei licei e delle scuole medie, ho gridato come un ossesso: c’è qualcuno di voi che conosce Rocco Scotellaro, il poeta!
Il risultato è stato incredibilmente sconfortante. Non lo conosce quasi nessuno. Eppure è forse l’ultimo vero autentico poeta meridionale, un poeta impegnato nel civile, che rappresenta un modello culturale che va al di là di ogni retorica o di ogni forma di discussione accademica, di natura anche storica. C’è infatti in lui un intreccio di significati che non sono soltanto etici e letterari, quali la visione antropologica, la Lucania, il folklore, gli usi, costumi e tradizioni, il Mediterraneo immenso patrimonio di tutti i poeti meridionali. C’è la storia che diventa tempo e il sentimento del tempo che cuce la memoria dei giorni. E c’è, naturalmente, il dramma dei cafoni, materia prima, combustibile ideologico e politico fatto di fatiche sudori attese e speranze, che Rocco riesce a trasformare, trasfigurare, in una nuova epica del lavoro e delle tribolazioni dei poveri, e lo fa con strumenti essenzialmente poveri, immagini naturalistiche efficaci e dirette, rime facili e lessico contadino….
3. Rocco il Messia
E poi c’è l’insegnamento di Carlo Levi, il suo mentore, il suo grande amico del nord, che spronava i meridionali a tirar fuori orgoglio, la grinta, l’amor proprio, non piangersi addosso, rimboccarsi le maniche, darsi da fare, con entusiasmo, passione, costanza, in un mistico affratellamento. Lottare, insomma, per rivendicare una nuova qualità di vita, anche esagerando ,magari, quando tutto sembra coalizzarsi contro i poveri: il potere sociale politico economico e religioso, e lo stesso Stato che anziché un padre, sembra un bieco oppressore dei deboli e dei poveri:” Io sono italiano, ma l’Italia è mansionata da infami, ladri e barbari; gli enti e gli uffici mi hanno riempito di dolori e io ho affrontato la sorte menandomi all’avventura in quest’aperta campagna pure essendo grande invalido con un infortunio subito per difendere la mia Patria…La Patria!…Andai dal prefetto, non mi volevano ricevere allora mi buttai a terra e mi coprii della bandiera tricolore e rotolandomi nel corridoio gridavo : – Mamma mia che puzza!, che marciume!, non si resiste … Rifacciamo la costituente, ricostituiamoci in piena regola da italiani, da estirpare i vari ceppi e farne carbone…. Il Maresciallo mi disse: “Così vai in galera” ed io risposi: – Chi se ne frega ,più scuro della mezzanotte non può essere quando io sto lottando l’oscurità dell’una e un quarto … Ora siamo nel secolo dei nobili ignoranti, pieni di beni e di vaste comodità usurpate ad un popolo balocco e scemo, ed io mi voglio distinguere innalzando la mia bandiera a lutto, essendo la bella Italia ricaduta nuovamente sotto il regime burocratico…Viva l’Italia! …Basta rubare, sarebbe ora di marciare sulla via dell’onore. “.
Questo brano è tratto dall’ultimo libro-inchiesta di Rocco Scotellaro, “Contadini del Sud, che lo scrittore non riuscì a completare per la morte improvvisa a cui non doveva essere estranea l’amara traumatica esperienza del carcere, dove era stato tradotto con l’accusa di concussione e appropriazione indebita.Carlo Levi si era battuto come un leone ottenendo che in soli quarantacinque giorni si facesse il processo che scagionò Rocco da ogni accusa per non aver commesso il fatto.Era stato un complotto, una lunga persecuzione, architettata e fondata su lettere anonime e indizi inconsistenti. Era la prova inequivocabile che politici e giudici erano d’accordo, con chi allora deteneva il potere esecutivo, di “farlo fuori”.In lui avevano individuato il pericoloso leader dei contadini, da anni in lotta per la terra (erano i tempi delle occupazioni delle terre, ondata che attraversò tutto il Mezzogiorno) e Rocco era un pericoloso avversario da bloccare ad ogni costo. E il carcere ci riuscì, lo segnò, lo marchiò in maniera indelebile e fatale. Rinunziò al suo reintegrato incarico di Sindaco e smise di fare politica. ” M’avevate ridotto un tabernacolo/Le battaglie si facevano più dure e il capitano era sempre più solo…/Ora basta, è tutto finito”
Ma Levi non capì, non volle mai sapere nulla dello Scotellaro fragile, sofferto, dolente, drammatico, sempre sull’orlo del baratro per gravi problemi irrisolti anche a livello esistenziale, non volle sapere nulla della sua solitudine e delle difficoltà ad avere un rapporto sentimentale con le donne, paesane o “forestiere” che fossero, nulla della sua impossibilità ad essere felice, (una sorta di autopunizione, o espiazione, per il suo disimpegno politico, o tradimento nei confronti della sua gente). Lo volle comunque e sempre “contadino-poeta”, personaggio emblematico con i suoi simboli e la sua mitologia. Della poesia di Scotellaro lo scrittore torinese fece un quinto vangelo ad uso dei contadini, e di Rocco naturalmente il nuovo Messia del Sud. Organizzò personalmente il corteo funebre, con il grande antico lamento funebre delle donne lucane, che accompagnarono al cimitero del Basento il feretro di Rocco Scotellaro. Sembrava fosse la morte di un eroe greco, di Ettorre domator di cavalli, il più grande e nobile difensore di Troia, e disse: questo fanciullo dai capelli rossi, questo piccolo uomo del sud, ha fatto in pochi anni uno sforzo intenso e gigantesco, ha fatto quello che non era stato fatto per secoli e secoli. Per questo il suo fragile cuore di poeta contadino ha ceduto. E lui lo sapeva, lo presagiva. Ma subito dopo la sua morte, Mario Alicata e tutti i suoi nipotini comunisti negarono che Rocco fosse il Messia dei contadini, negarono che la sua poesia avesse quel crisma popolare, smantellarono tutto quel che aveva detto e scritto Carlo Levi. E a quel tempo (ma forse anche oggi) tutto quel che contava, culturalmente, era l’area marxista, erano loro i vincitori della “Battaglia delle idee”.
Ma Rocco era veramente un poeta contadino? Montale dice di sì: “Egli fu come Sergio Esenin o Attila Joszef, due dei più raffinati artisti della moderna poesia europea.Rocco ha potuto lasciarci un centinaio di liriche che rimangono certo tra le più significative del nostro tempo.La voce di Scotellaro è una delle ultime illusioni di poesia funzionale, civile e consolatoria”.
4. Qualcosa stava per accadere.
Certo, rimane a tutt’oggi poeta “emarginato” dai circoli culturali ufficiali e quasi sconosciuto dalle grandi editorie del nord, tirato via come un neorealista dell’ultima ora. Ma anche Levi che l’amava e tentò di farne un mito, un trascinatore di folle contadine, un messia, non riuscì, in vita, a fargli pubblicare nulla. All’Einaudi aveva contro un Pavese anti-terroni e la Ginzburg che, pur non avendo certi pregiudizi, non credette in Rocco. (Avevi, Natalia, nome gonfio/ una veletta triste sul tuo viso/. Eri un mondo diverso, già cresciuto”)Se mai è accaduto l’esatto contrario. Sono stati la Lucania e, in parte, Rocco Scotellaro a dare fama e celebrità a Levi fornendogli il materiale e il lievito per scoprire la sua vera vocazione. E così Carlo Levi, torinese purissimo, viene spesso inserito fra i meridionalisti per il suo “Cristo s’è fermato a Eboli”, sicuramente uno dei romanzi fondamentali della letteratura italiana e non solo per la riscoperta del Sud.
Ma qualcosa stava per accadere, anzi, qualcosa era già accaduto con Rocco Scotellaro: lui era la vibrazione che si dispiega in trasparenza, la parola che si faceva abbraccio, il sangue che si faceva fiume, il seme che era diventato albero, era deciso, preciso e disperato con l’unica camicia bianca immacolata che possedeva, e usava la penna come uno scalpello, incideva le parole sulle porte delle case, sui lecci e sugli ulivi, e con chiara grafia scriveva le sue oscure verità. Ma ad un certo punto s’arrestò tutto. Bastò che uno dei vecchi stalinisti con la laurea in lettere e la parola “compagno” in tasca dicesse che le sue parole facevano scoppiare le immagini, che non c’era nesso logico, che non c’era spazio rivoluzionario, che non c’era alcuna certezza di proposizione ideologica, non c’era allineamento e armonia coi dogmi del partito, non c’era nessuna prospettiva per l’avvenire. Non era lui il poeta del domani, aveva cadenza crepuscolari, decadenti e qualche suggestione ermetica. E poi troppa rabbia e violenza incontrollata, troppi ahi scorticati, troppa angoscia, e asini e suoni di campane, troppi ponti incendiati a caso. Compagni, nella sua poesia, c’è sì un clima infuocato da viva Zapata, ma roba di roncole e vanghe di un anelito e di un’anima geografica, quel forte e risentito accento aggressivo si appanna, si smorza, si attenua alla prima difficoltà (leggi carcere). E poi tutta quella lagna, quel dolore, quella pena, quelle lacrime, i braccianti, gli scialli neri e la morte, roba già vista, roba da Garcia Lorca in sedicesimo. (Il mio è un paese che soffre/. Qui senti la pena che ti cresce attorno/ qui il dolore è antico e viene da lontano…/Ogni lacrima è nostra / ogni angoscia che viene è antica. /La nostra pena è il tempo.I segni della pena di vivere sono sparsi dappertutto /in questo paese della malasorte: /negli scialli neri delle donne/ che vanno dietro ai morti / nell’abbaiare notturno del cane/ che porta nel grido il segno / della morte vicina, /nel dolore dei singoli abitanti / nei braccianti spersi nelle strade) Ma, Signori, io vi domando: che cosa ci dovrebbe essere ancora nella sua poesia civile e “ politica”, oltre il cuculo disperato, la mandria che turbina nell’acqua morta, la novena di giugno, il primo sciopero, i topi condannati, i suoni del mattutino, le maledizioni e la pozzanghera nera del diciotto aprile? Certo non lo zucchero e il miele per tutto quello che non solo lo Stato, ma anche gli stessi comunisti, santi protettori del popolo, non hanno mai fatto per i cafoni del sud. Egli fa una rappresentazione epica del suo paese, un paese sperduto di appena ottomila abitanti che non stava neppure sulla carta geografica, a cui hanno “gridata la croce addosso” i padroni e la stessa natura, per secoli e secoli, e sono rimasti sempre inerti, immobili rassegnati. Eppure lui, il sindaco più giovane d’Italia, riuscì a farci costruire un Ospedale, quando non ce l’avevano neppure città di cinquantamila abitanti. Nessuno prima di lui s’era immerso così profondamente dentro l’animo della gente contadina, sembra un Enzo Majorca negli abissi del mare contadino, un palombaro dello spirito che raccoglie tutto, sentimenti frustrazioni aspirazioni fatica rabbia stenti, marciume e zavorra; e si mette al timone, marcia in prima persona, davanti a tutti, trasporta i contadini, i braccianti, i piccoli, artigiani, i poveri d’ogni categoria, gli ultimi della sua terra, verso quel mondo della libertà che stava davvero nascendo, grazie a lui, che ne era capo indiscusso e guida profetica, e aveva un cuore davvero smisurato…
6. Vide la catastrofe
Rocco possedeva la sapienza arcaica della profezia e vide la catastrofe imminente, vide la fine del suo mondo contadino, ma aveva anche un suo speciale linguaggio, una sorta corpo-lingua, con cui sapeva far fronte a tutto, alle piaghe, alla disperazione, alla morte. Fra squarci di gialli luci e inesorabili, corvi neri, che scandiscono note di morte, gli ultimi cra cra nel grano maturo, tipo i funerali di Van Gogh (“Scusate se i miei quadri sono un grido d’angoscia, ma questo campo di grano con corvi sarà l’ultimo”), e voli di acrobati violinisti, spose e mugik ebrei di chagalliana colorata e sinistra bizzarria, Rocco si sentiva poeta non per vocazione, ma per disperazione. La sua poesia fu incisiva come un colpo d’ascia, fu il primo evento veramente giovanile che irruppe nel panorama trito e asfittico della poesia italiana del dopoguerra, fu il primo squarcio di autentica vitalità dopo decenni di compassato riserbo, e fra tanti poeti già programmaticamente nuovi per volontà di Togliatti, Muscetta, Alicata, Salinari, ecco il non allineato Scotellaro, che interpretò una stagione a suo modo unica e irripetibile, e le sue ellissi e i suoi anacoluti restano come la più appassionata testimonianza di una retorica che divenne quasi afasica per troppa voglia di dire.
Levi, il suo appassionato mentore, -anche lui eretico - poteva finalmente dire che Cristo non si era fermato a Eboli. Rocco gli sembrava quasi la proiezione dell’immagine di Piero Gobetti, suo grande amico e maestro…Certo, Levi ne sottolineava le diversità di cultura e carattere, ma entrambi – diceva – sono tesi alla conquista di spazi di autonomia e libertà, fuori di sé, negli altri e nel popolo…hanno una dimensione europea. Ma oggi, a sessant’anni dalla morte, nessuno, alla resa dei conti, riconosce Rocco Scotellaro come poeta messianico, anzi ci sono state – come abbiamo visto – diverse revisioni, che lo hanno addirittura collocato come poeta neorealistico e regionale, altri come uno dei tanti poeti di formazione ermetica – surrealista, che conosceva i maudit francesi e i poeti spagnoli del 1934 e gli faceva un po’ il verso intinto nel folklore contadino.
Ma quanto vale la sua poesia? Beh, onestamente, non lo so. Però una cosa posso dire : non c’è una sola parola nelle poesie di Rocco che non venga dal suo cuore. E se vogliamo entrare nello specifico aggiungerò che la poesia in funzione di lotta, anzi la poesia “autre”, come dicono i francesi, ovvero quella poesia che sarebbe stata inventata, e osannata, specie in America, negli anni sessanta, quella poesia dal respiro epico e della potenza visionaria e onirica, Rocco l’aveva fatta prima di loro, l’aveva fatta lui, con il suo cervello pieno di sogni e di giardini, e il suo povero disperato cuore, passione e transito, luce aria e tuono, riva senza sponde, quel suo cuore così pieno e denso da crepare a soli trent’anni, a Portici, nella sperduta retrograda provincia meridionale mentre cercava altre testimonianza di vita dei contadini, mentre cercava – forse – di ricomporre i cocci della sua anima dilaniata dal senso doloroso del peccato che contempla da lontano il suo mondo perduto (“Ho perduto la schiavitù contadina,/non mi farò più un bicchiere contento, /ho perduto la mia libertà). Ha scritto un poeta dei nostri tempi (Dario Bellezza): “Rocco Scotellaro é un rimprovero vivente per la poesia italiana, così vuota di senso ormai, avendo imboccato una strada ruffiana e formalista, svuotata di ogni energia e significato, dove la vita è fuggita urlando”
Verrà mai un altro Rocco? No. Oggi non potrebbe mai nascere uno Scotellaro nel Sud…Non c’è più l’humus… Mancano quei valori, quelle spinte ,se vogliamo quella sana rabbia di riscossa, ma è soprattutto difficile trovare un cuore smisurato come quello di Rocco.
Roma, 1 giugno 2013 Augusto Benemeglio