L’ho letto a distanza di mesi dall’acquisto, per centellinare meglio le penultime parole stampate e firmate DFW, per procrastinare il gusto della prima lettura (che immaginavo seguita dalle numerose successive di approfondimento, di connessione con altri libri, e anche solo di vicinanza all’autore, la cui voce manca a chi lo ami profondamente come me). L’ho letto in mezz’ora, ma non ‘d’un fiato’: insomma, una prima lettura a cinquantasei pagine di un formato medio-piccolo, con margini larghi e corpo 12 richiede anche meno. L’ho riconosciuto: è la sua voce, la sua complessità spiegata con la maggiore chiarezza possibile, e ci sono le note[1] (ma a fine testo, come in Infinite jest, e non a piè di pagina, come sarebbe più giusto), anche quelle di secondo livello, e c’è la relazione di familiarità instaurata con il lettore, che intravede l’autore (non lo scrivente) e vorrebbe superare quella pagina così innaturalmente bidimensionale per dire ‘Ciao Dave, bentrovato’.
Eppure la lettura non è soddisfacente. Non lo è perché questo non è un libro voluto da Wallace, non è stato rivisto per la pubblicazione in volume, è fuori contesto.
Il testo è stato scritto per un articolo su «Play», rivista sportiva nel «New York Times»: un reportage commissionato, come altri, e frutto di una trasferta su campi di Wimbledon. Non si tratta di una novità nella tematica, come i wallaciani sapranno: già la raccolta, pubblicata da minimum fax, Tennis, tv, trigonometria tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più)[2] contiene riflessioni sullo sport che Wallace ha praticato da ragazzo, e il pezzo L’abilità professionistica del tennista Michael Joyce[3] è un reportage dai campi (in questo caso canadesi).
La differenza è nella revisione: nel testo pubblicato da minimum fax sono proprio le note a rendere evidente la rilettura e l’aggiustamento in vista della pubblicazione in volume: Wallace aggiunge informazioni nuove rispetto al tempo della scrittura dell’articolo, mentre in Roger Federer lo specialismo richiesto dalla destinazione originaria non è stemperato da alcuna revisione: manca il Director’s cut.
Quindi, che i wallaciani si rallegrino per la possibilità di fare un’altra chiacchierata con David, ma lo troveranno un po’ meno vicino, e la lettura sarà comunque offuscata dal dubbio che in questo caso le scelte editoriali non abbiano reso il migliore dei servizi.
Carlotta Susca
D.F. Wallace, Roger Federer come esperienza religiosa, Casagrande, 56 pp., € 8,50.
[1] Non un vezzo, ma l’unico modo per cercare di dare voce alle diramazioni del discorso.
[2] L’originale inglese era il volume A Supposedly Fun Thing I’ll never Do Again, che comprendeva anche Una cosa divertente che non farò mai più, in Italia pubblicato a parte, sempre da minimum fax.
[3] Titolo intero: L’abilità professionistica del tennista Michael Joyce come paradigma di una serie di cose tipo la scelta, la libertà, i limiti, la gioia, l’assurdità e la completezza dell’essere umano.