Paradigma di "diseducazione sentimentale", più delle altre storie già discusse di Rohmer, Racconto d'inverno mi ha fatto soffrire in modo particolare per l'articolata e sbalorditiva inconcludenza della sua protagonista, Félicie (l'incantevoleCharlotte Véry). Per certi aspetti, la sua situazione è simmetrica a quella del bellissimo Gaspard nel successivoRacconto d'estate: un uomo lì, una donna qui, in entrambi i casi tre pretendenti. In quel caso, un turbinio tutto maschile di desideri in contemporanea, una passione che non sa definirsi nell'eternità, in questo un susseguirsi di sentimenti incerti che si cancellano l'un l'altro nel vano, disperato tentativo di farsi storia. Félicie insegue l'amore estivo della sua vita, l'aitante Charles (Frédéric van den Driessche); ma, in seguito a una prova spericolata di giocoleria sentimentale, instaura un rapporto anche con il sofisticato Loic (Hervé Furic), salvo poi lasciarlo per Maxence (Michel Voletti) e in seguito rinunciare anche a quest'ultimo.
Félicie non riesce ad amare abbastanza: non tanto colta da essere ormai insensibile alle ragioni non scritte da qualche parte, ma non così spregiudicata da ascoltare queste ragioni, la donna sa discutere molto meglio del suo omologo Gaspard e stupisce per la profondità con cui affronta tutto tranne che la decisione. Félicie vive come se non fosse importante decidere, come se non fosse una necessità esistenziale. Più volte, come prevedibile prologo della fine, la ragazza "prende una decisione": decisioni che ritratta e mette in discussione con un'inconcepibile catena di discorsi e di alibi... (Si dedice perché bisogna decidere, e poi Quando si sceglie non si sa, se no che scelta è, oppure il più elaborato e complesso Non ci sono buone o cattive scelte, l'importante è che non sia sempre obbligatorio scegliere).
Chi avesse in mente un'allusione di Rohmer alla commedia omonima di Shakespeare, non sbaglierebbe di molto: Félicie e Loic, a un certo punto, si trovano a teatro ad assistere alla scena conclusiva, dove magia e sentimenti forti si incontrano per dar vita a un vero miracolo (l'animazione della "statua" di Ermione). Ma l'opera del bardo inglese non è uno specchio di questo Racconto d'inverno, bensì una tappa attraverso la quale le anime di questi personaggi devono passare, come una precisa reincarnazione, un mantra subito smentito. Vari spiriti si impossessano della vita di Félicie e la donna risulta incapace di scegliere quella che la completa e anzi rinuncia all'idea stessa di completezza: un'anima non si risolve in una sola vita, una vita non si risolve nella scelta di un'anima. Rohmer focalizza questo atteggiamento, quando attribuisce alla bellissima Elise (Ava Loraschi), una domanda fulminante per l'irrequieta madre: Che cosa vuol dire "in fondo"? Ovvero: quanto lontano bisogna andare prima di trovare un motivo, una ragione, ovvero una ragion d'essere?
Caratterizzato dallo stesso delittuoso doppiaggio italiano dei film precedenti, Racconto d'inverno è per me la dimostrazione dell'intraducibilità di un modo di presentarsi al mondo, di un cinema dell'anima, che fa del respiro la sua ragion d'essere. Ma quest'avventura nell'anno rohmeriano è per me la prova che ci si può educare ad avvicinare un cinema non sempre congeniale, adatto al proprio mood e arrivare ad amarlo, sia perché ci si educa, sia perché lo si va scoprendo passo dopo passo. Forse è ancora un po' presto per intraprendere la strada dei sei racconti morali, ma è certo che dopo quest'avventura ho fatto ancora spazio in me a modi diversi di intendere il cinema e a tempi alternativi di sviluppo di una storia per immagini.
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