Uno dei generi che non abbiamo ancora discusso in Double Bill, è quello dei revenge movies. In più, pur essendo uno dei personaggi chiave della New Hollywood, colpevolmente non abbiamo mai parlato di Paul Schrader. Quindi è arrivato il momento di rimediare.
Dopo aver scritto le sceneggiature di Yakuza (Sidney Pollack, 1975), Obsession (Brian De Palma, 1976), Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976) e prima di debuttare con il notevole Blue Collar (1978), Schrader realizza lo script di Rolling Thunder (1978). Il film è interessante per una serie di ragioni e rappresenta idealmente il secondo capitolo di una trilogia, composta dal capolavoro di Scorsese e dal successivo Hardcore (1979).
Rolling Thunder (1978) esce nel periodo, in cui Hollywood inizia a confrontarsi seriamente con il trauma della guerra del Vietnam e il dramma dei reduci, presente fino a quel momento solo come sottotesto in alcune pellicole, come per esempio in una serie di Western crepuscolari (iniziando con The Wild Bunch fino a Soldier Blue, praticamente il massacro di My Lai in chiave western).
In realtà c’era già stato, il tristemente sconosciuto, The Visitors di Elia Kazaan del 1972 (o addirittura MASH, che sarà anche ambientato durante la guerra di Corea, ma grida Vietnam da ogni dove), ma è con capolavori come Apocalyspe Now, The Deer Hunter, Coming Home e pellicole meno conosciute, tra cui Go tell the Spartans di Ted Post, Who’ll stop the Rain di Karel Reisz e The Boys in Company C di Sidney J. Furie (tutte pellicole uscite nel 1978), che il cinema affronta di petto l’argomento.
In precedenza la guerra del Vietnam, o meglio il riflesso di essa sugli eventi in patria, si era già infiltrata nel cinema exploitation (come sempre in anticipo sugli argomenti d’attualità) fin dal fine degli anni Sessanta. Dal horror (Night of the Living Dead, TCM, Last House on the Left) e blaxploitation (Gordon’s War), ai biker movies (Nam’s Angels) o per l’appunto i revenge movies (la serie di Billy Jack, My Friends need Killing o l’introvabile The Farmer). Rolling Thunder, diretto da John Flynn (di cui avevamo già parlato in occasione di The Outfit) si ambienta in una zona intermedia, un po’ come il bizzarro When you comin back Red Ryder (1979) o il semi-noir Cutter’s Way (Ivan Passer, 1981), sempre a metà tra il dramma intimista e cinema di genere.
Menzioniamo questi titoli per contestualizzare meglio il film di Flynn, ma non è il Vietnam, bensì il personaggio del vendicatore/giustiziere, con tutte le sue contraddizioni e motivazioni differenti, l’elemento comune di questa ipotetica trilogia. Arriviamo al dunque.
Il Maggiore Charles Rane (un misurato William Devane, in una delle sue interpretazioni migliori), e il Sergente Vohden (Tommy Lee Jones), dopo anni di prigionia e tortura, ritornano a casa da amici e famigliari. Purtroppo nessuno di questi sembra poter comprendere che cosa hanno passato. Fisicamente i due sembrano in buone condizioni (perlomeno fisiche), ma in realtà non sono che gusci privi di emozione, dei morti viventi. In un certo senso portano alla mente il protagonista di Dead of Night (aka Deathdream, 1974) di Bob Clark, un adattamento aggiornato del classico racconto horror La zampa di scimmia di W.W. Jacobs. I due “ritornano alla vita” solo dopo che alcuni criminali si sono introdotti nella casa di Rane, prima torturandolo e poi maciullandogli la mano nel trita rifiuti. Non contenti, gli uccidono la moglie e il figlio. Dopo essersi rimesso in piedi, Rane ha un solo obbiettivo: trovare chi gli ha massacrato la famiglia ed ucciderli tutti.
La sceneggiatura originale di Schrader fu rivista poi da Heywood Gould (Boys from Brazil, Fort Apache – The Bronx), ma i due non si incontrarono mai. Del lavoro di Schrader rimane meno della metà e l’autore ha sempre parlato in termini negativi del prodotto finale, osservando che un film su un fascista (Rane è un razzista senza mezzi termini nello script originale, elemento presente già in Taxi Driver) venne trasformato in un film fascista. Proprio questa incertezza costante tra il voler essere un dramma serio e il fumetto pulp over the top, regala però a Rolling Thunder il suo valore aggiunto.
Di Schrader rimangono comunque la trama di base, la struttura, i personaggi, alcuni dialoghi e scene (d’azione). La riscrittura ha comportato soprattutto la revisione dei dialoghi, l’aggiunta di scene, ma soprattutto l’approfondimento del personaggio femminile e la trasformazione di Rane in un personaggio più eroico. Il personaggio di Linda Forchet (Linda Haynes), una cameriera ex-spogliarellista, che lascia il suo lavoro di punto in bianca per seguirlo in Messico senza sapere la vera ragione del viaggio, è l’unico “civile” con cui Rane costruisce un rapporto quasi normale. Ed è proprio nel rapporto con Linda che emerge un resto di umanità in Rane, anche se in maniera alquanto ambigua. A un certo punto il film sembra trasformarsi in una specie di Dirty Marry Crazy Larry (John Hough, 1974), ma è solo un attimo, prima dell’esplosione finale.
Flynn però si prende i suoi tempi, dedicando il primo terzo della pellicola alla caratterizzazione dei personaggi e all’impatto del loro ritorno. Solo lentamente il film si trasforma in una violentissima killing spree di vendetta. La differenza però con altra exploitation, sta nell’impatto e la forza brutta con la quale Rolling Thunder si abbatte sullo spettatore.
Le somiglianze con Taxi Driver sono ovvie, iniziando dal veterano che si trasforma in psicopatico assassino. Tutta la parte finale è simile a quella del film di Scorsese, ma elevata all’ennesima potenza (nella sceneggiatura originale si raggiungono livelli peckinpahiani). La versione rivista di Gould comunque non è meno devastante. C’è addirittura una scena in cui Rane si prepara per la sua missione, che ricorda una scena simile con Travis Bickle. A proposito di quest’ultimo, giusto per dissipare qualsiasi dubbio sulle reali connessioni tra i due film, nello script di Schrader, Rane e Bickle si incontrano in un cinema drive-in (in cui si proietta Deep Throat) da qualche parte in Texas, ognuno nella propria macchina, si scambiano una sguardo d’intesa. Altroché Tarantino (che però, in tutta onestà, è stato il primo a inizio anni Novanta ad avocare i meriti del film)!
Rolling Thunder ovviamente non è neanche lontanamente all’altezza del film di Scorsese (non avendone né il sottotesto esistenzialista né l’ambiguità morale), ma ne rappresenta un’interessante versione alternativa, che inoltre aiuta anche a comprendere meglio il lato più exploitation di Taxi Drivers.
Prodotto dalla Fox, questa dopo la visione del film e un paio di test screening, apparentemente disastrosi, lo vende alla solita AIP. Il film fu comunque un flop, anche se la critica non fu tutta negativa (tipo Gene Siskel lo inserì nella sua top ten annuale). Rolling Thunder è un film sporco e cinico, che trasmette bene l’alienazione del suo protagonista e che, con tutti i suoi difetti, rappresenta un’istantanea irripetibile del post-Vietnam.
Jake van Dorn (George C. Scott) è un imprenditore facoltoso del Michigan, nonché membro della comunità calvinista locale, di cui segue ferreamente le regole. Lasciato anni prima dalla moglie, vive un’esistenza tranquilla e regolata con sua figlia sedicenne, Kristen. Quando però quest’ultima scompare durante una gita in California, Jake ingaggia il detective Andy Mast (un favoloso Peter Boyle) per ritrovarla. Mast ci mette poco a raccogliere le tracce della ragazza, fino a trovare un filmato porno, che la vede protagonista. A questo punto, Jake è sicuro che sua figlia sia stata rapita e si infiltra nell’ambiente porno, pretendendo di fare il produttore. Con l’aiuto di Niki, una ragazza squillo (Season Hubley, futura ex-moglie di Kurt Russell), segue le tracce della figlia fino a San Diego…
Hardcore racconta una relazione d’intesa tra due persone che non hanno nulla in comune, ma che si incontrano in quel preciso momento, in quel posto. Il cuore del film sta tutto qui. Ci sono momenti, i più riusciti del film, in cui semplicemente parlano. Parlano di cosa è importante per loro, del sesso, dei soldi, della politica, della moralità. Niki potrebbe essere la figlia di Jake. Lo aiuta a capire aspetti della propria vita, che prima non aveva realizzato, mentre allo stesso tempo la sua ricerca e il bisogno di una figura paterna, anche dietro all’atteggiamento sboccato, sono evidenti. E per un attimo sembrano trovarsi. Un attimo che viene spazzato via da uno schiaffo. Come buona parte della filmografia di Schrader, anche Hardcore è un film sui valori di un individuo in conflitto con la società, deciso a difendere i propri valori, se necessario con la violenza.
Il finale di Hardcore è simile a quello di Rolling Thunder (e Taxi Driver), nel senso che Jake, alla ricerca di sua figlia si fa strada in un bordello, trapassando sottili mura, passando da una stanza all’altra come un toro scatenato. Una discesa all’inferno. I tre protagonisti sopravvivono, anche se il loro futuro è tutt’altro che sicuro. La differenza tra Travis, Rane e Jake sta nel fatto che i primi due sono chiaramente degli sociopatici, mentre per Jake entra in gioco l’elemento religioso.
Il personaggio di Scott è un fondamentalista (e a detta di Schrader, modellato sul proprio padre), aspetto definito fin dalle prime scene. Il titolo infatti non fa riferimento al porno, ma alla fede religiosa. Proprio questo personaggio intraprende un viaggio nella – all’epoca – sottocultura del porno, addentrandosi sempre più in un sottobosco squallido, fatto di bordelli, centri massaggi, porno shop, e cinema xxx. La domanda non è tanto se a Jake questo mondo ripugna (la risposta è comunque sì), ma se questo aspetto viene esplorato dal film. L’argomento è delicato e profondamente personale per Schrader, che sottopone la fede del suo protagonista a diverse prove. C’è un’intera scena che insiste sul credo calvinista e che offre il compasso morale al film. La classe media, Suburbia, a confronto con gli eccessi e la rivoluzione sessuale delle grandi metropoli. Alla fine la bilancia sembra pendere verso la prima, anticipando anche un cambiamento nel giudizio morale pubblico dell’epoca.
Schrader, in questa sceneggiatura si confronta con la sua educazione calvinista (a suo stesso dire vide il suo primo film solo dopo aver compiuto 17 anni), ma un certo giudizio morale è indiscutibile, Jake è un rappresentante di quella comunità, quindi soggetto su cui si riversano i dubbi e le domande dello stesso autore. Il protagonista si avventura nella terra degli infedeli, mai cedendo alle tante tentazioni sul suo cammino. Mantiene la sua fede e salva la figlia. Non che la descrizione degli abitanti del Midwest sia poi tanto positiva, ma sempre meglio dei personaggi che si aggirano nel porno.
Schrader rimane fedele al suo assunto e mostra cosa succede ad abbandonare la retta via. No c’è alcun relativismo morale (il porno è male, i valori della classe media vengono mantenuti). Questo lo pone in una posizione particolare all’interno degli autori della New Hollywood, essendo l’unico che critica le libertà sessuali e i cambiamenti sociali, conquistate negli anni Sessanta.
PAOLO GILLI
Rane incontra Bickle: