Rom e zingari: ieri e oggi

Creato il 10 giugno 2014 da Rodolfo Monacelli @CorrettaInforma

L’istituto di cultura spagnola Cervantes ha organizzato un dibattito sulle popolazioni nomadi, a 70 anni precisi dalla loro piccola rivoluzione ad Auschwitz. Da allora ad oggi, la ‘segregazione‘ dei Rom continua, e solo l’arte rappresenta una speranza per conservarne la lingua e l’ identità

Venerdi 16 maggio, all’istituto di cultura spagnola Cervantes di Roma, col patrocinio dell’ assessorato alla cultura del comune di Roma, si è svolto l’incontro intitolato ‘Memorie itineranti. Radici della cultura rom‘, in onore delle cosiddette ‘popolazioni nomadi‘.  L’ iniziativa é stata organizzata a 70 anni esatti dalla rivolta di rom e sinti che avvenne il 16 maggio 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz.

La cultura delle cosiddette ‘popolazioni nomadi‘, di antichissima origine indiana, ma che caratterizzano da secoli soprattutto il volto dell’Europa (dai Balcani alla penisola iberica) si è trasmessa attraverso la tradizione orale, come il canto, la musica, e la poesia. Poiché non esiste una letteratura rom, è un miracolo che la lingua romanes sopravviva ancora, anche se con numerose contaminazioni e prestiti da altre lingue. All’interno dell’iniziativa del 16 maggio c’ é stata anche un’esposizione di disegni e diari ilustrati di Rebecca Covaciu, la giovane pittrice rom, originaria di Arad, vincitrice del premio Unicef 2008. Oltre a Rebecca, sono anche intervenuti Carlo Stasolla, il presidente dell’associazione ‘21 luglio‘, Amet Jasar, attore e regista di una compagnia teatrale macedone, e la video-maker Dolores Barbetta. Il tutto accompagnato dalle suggestive melodie del violinista Ion Stanescu.

Il 16 maggio 1944  le SS decisero di smantellare il Familenzigeunerlager, ovvero il campo per famiglie zingare ad Auschwitz. L’espressione ‘smantellare‘ era in realtà soltanto un eufemismo, poiché in realtà si intendeva la soppressione di tutti gli internati. Nei campi di concentramento vigeva un tale clima di terrore, o di semplice rassegnazione, tanto che le ribellioni a una disposizione erano casi assai rari ed isolati. Tuttavia, quel 16 maggio, all’ordine di dirigersi verso le camere a gas, quattromila zingari, che includevano anche donne e bambini, risposero con sprange, bastoni, pietre e calcinacci, affrontando con grande senso di orgoglio i loro armati aguzzini. Le SS, non prevedendo una simile reazione, rimasero interdetti, e preferirono ritirarsi. Lo sterminio venne rimandato alla notte del 2 agosto di quello stesso anno, e riguardò 2897 detenuti (oltre mille erano stati nel frattempo trasferiti a Buchenwald, e altri morti di stenti) . Gli ebrei italiani, come ad esempio il sopravvissuto Piero Terracina, ricordano la scomparsa degli zingari come un ulteriore trauma che si aggiunse a quelli già subiti, poiché significava anche la fine dei suoni, dei canti, delle voci dei bambini.

Oltre 500.000 zingari persero la vita durante il regime nazista e fascista. Nonostante questa cifra impressionante, sono pochi gli stati che commemorano e riconoscono il Porrajmos, ovvero l’olocausto dei gitani, che in lingua romanes si traduce ‘divoramento‘ (un altro termine è  Samudaripen, che significa ‘tutti morti‘). Solo a partire dagli anni Sessanta, alcuni studiosi (come ad esempio la polacca Miriam Novitch) iniziarono a ricostruirne pazientemente la storia,  pur non disponendo di testimonianze scritte.

Quando Hitler, nel 1933, divenne cancelliere, il numero di zingari nel Reich ammontava a 25.000 persone. Molti di loro erano riconosciuti come cittadini tedeschi, tanto è vero che molte città, come ad esempio Berlino, possedevano regolari accampamenti. Gli zingari tedeschi avevano anche delle occupazioni, come giocolieri nei circhi, danzatori, musicisti, proprietari di sale da ballo. Alcuni di loro avevano prestato servizio nell’esercito, anche in qualità di ufficiali, conseguendo onorificenze di un certo rilievo, quali la croce di ferro.

In una lettera del 9 gennaio 1938 Gauleiter Tobias Portschy, un giurista austriaco, scrive a un ministro del Reich dando ulteriore riscontro alle perverse teorie di un neurologo di Tubinga, Robert Ritter, che riconduceva il nomadismo a un gene ‘malato‘. Di conseguenza, Ritter riteneva che il sangue degli zingari non potesse essere diffuso, poiché ‘impuro‘ a causa del continuo contatto con le popolazioni straniere. Questa raccapricciante argomentazione venne accolta e fu ordinato di sterilizzare, nell’ospedale di Dusseldorf, tutte le donne zingare, incluse quelle già incinte, che erano sposate con ariani. Lo stesso trattamento venne esteso ai bambini oltre il dodicesimo anno di età. Ma non solo. Le vittime furono costrette a firmare un’ autorizzazione, che venne vigliaccamente utilizzata come prova di discolpa durante il processo di Norimberga. La pratica della sterilizzazione degli zingari continuò anche all’interno dei lager, come attesta, ad esempio, la documentazione di Auschwitz datata 1945.

Il nomadismo era temuto da Hitler anche e soprattutto perché queste popolazioni erano assai più sveglie e disincantate di altre, soprattutto quando si trattava di fuggire al di fuori dei confini del Reich. Essendo meno legati alle loro abitudini, al loro ambito di appartenenza, e anche alle loro ricchezze, gli zingari erano considerati delle vere e proprie mine vaganti per il regime nazista. Molti di loro presero infatti parte alla Resistenza, grazie alla loro ottima conoscenza dei territori e della loro abilità come staffette. Le leggi razziali, che vennero sottoscritte da Mussolini nel 1938, colpirono anche gli zingari. Dall’ Italia ne furono internati 25000, contro 7000 ebrei. Il ghetto di Lodz, che nel 1941 fu decimato da un’epidemia di tifo, fu il primo ad essere strutturato per la deportazione dei gitani, poiché al suo interno vi era un’area apposita.

Con un decreto del 16 dicembre 1942 tutti gli zingari del Reich, ad eccezione di quelli che lavoravano nelle imprese belliche, vennero mandati ad Auschwitz -Birkenau. Queste persone, ovviamente, non erano solo tedesche, ma provenivano da tutta la zona d’influenza della Germania e quindi anche dalla Francia, dall’ Olanda, dal Belgio, dall’ Italia. Il primo gruppo, sopravvissuto sia alle fucilazioni di massa che ai ghetti di transito (come quello di Varsavia) giunse il 26 febbraio 1943. A differenza degli altri deportati, gli zingari non venivano né smistati né rasati. Avevano un triangolo nero cucito sulla divisa, che rappresentava gli ‘asociali‘ e poi avevano tatuata, oltre al numero, anche la Z di Zigeuner .

Il lager degli zingari era una specie di ‘campo nel campo‘, delimitato da un doppio filo spinato ad alta tensione. L’isolamento dagli altri prigionieri, che si tradusse come una sorta di abbandono al proprio destino, causò innumerevoli morti per fame e malattie. Il fatto che le famiglie non venissero divise, che non fossero sottoposte alla richiamata mattutina (e quindi che non lavorassero come gli altri detenuti) può far pensare che, in un certo senso, gli zingari fossero dei ‘privilegiati‘. Generalmente venivano ‘impiegati‘  soltanto per suonare il violino all’arrivo di nuovi deportati oppure in altre macabre occasioni. In realtà i tedeschi temevano che gli zingari si rendessero conto dell’esistenza delle camere a gas, e quindi che sfuggissero al loro controllo, ma un’ulteriore orrenda motivazione li spinse ad accondiscendere perfino al compiersi di diverse nascite. Nel marzo 1943 Josef Mengele divenne il medico responsabile dello Zigeunerlager e la sua ‘fissazione‘ con gli esperimenti sui bambini zingari (in particolare dei gemelli, sui quali fece tatuare la sigla ZW di Zwilling) fece sì che l’esistenza dello scomodo campo venisse tollerata per un paio di anni. Ventimila zingari morirono nel lager di Auschwitz-Birkenau.

Col termine Zigeuner Hitler intendeva principalmente i Rom, vale a dire uno dei principali gruppi etnici della lingua romanes, che è originario dell’ India settentrionale. La lingua romanes è composta da vari dialetti, derivanti da varianti popolari del sanscrito. I Rom vivono principalmente in Europa, e in Italia il primo gruppo arrivò nel 1390 in Abruzzo. Vi sono Rom ortodossi nei Balcani, cattolici in Italia e in Spagna, musulmani in Montenegro, Macedonia e Kosovo. Il termine sanscrito dom, da cui presumibilmente deriva la parola ‘Rom‘, è collegato ad un gruppo etnico mediorientale (doma), ma forse anche al suono del tamburo (damara), oppure al termine domba, che si riferiva alle donne utilizzate nelle pratiche tantriche.   I Rom sono a loro volta suddivisi in vari gruppi, che si auto-definiscono in base all’attività che svolgevano tradizionalmente, come ad esempio la lavorazione del rame, l’allevamento dei cavalli, l’affilatura dei coltelli, l’abilità nel suonare il liuto. A ciò corrispondono ulteriori divisioni, in base alla nazionalità e alla discendenza.  I Rom si distinguono dai Kalé, che hanno perduto l’uso della lingua romanes, e che vivono soprattutto in Spagna. Si distinguono anche dai Sinti, la cui lingua è influenzata dall’italiano (e in particolar modo dal piemontese), oppure dal tedesco e dall’alsaziano. Altri gruppi che hanno perso l’uso della lingua romanes sono i Boyash dei Balcani e gli Ashkali, che parlano albanese. Un gruppo affine ai Rom sono anche gli egiziani del Kosovo (così definiti perché pensano di provenire dall’Egitto).

La popolazione Rom da sempre è oggetto di diffidenza, per via di una vita itinerante che è da molti anche sottilmente invidiata. Fin dal Medioevo, il nomadismo è stato considerato una specie di ‘maledizione divina‘, ed il fatto che i bambini rom non venissero generalmente battezzati, poiché ritenuti liberi di scegliere la loro professione religiosa, li rendeva oggetto di false credenze e superstizioni. I mestieri che svolgevano i popoli itineranti (come quello di forgiatore di metalli) oppure le arti divinatorie, come la lettura della mano, venivano collegati alla magia e alla stregoneria. Soltanto il mondo letterario ed artistico ha associato la vita zingara al colore e quindi a un mondo a suo modo affascinante (pensiamo alla variopinta coreografia creata dal coro degli zingari nel Trovatore di Giuseppe Verdi, oppure al personaggio di Esmeralda, ripreso anche dalla Disney, nella celeberrima opera di Alexandre Dumas). Presso la comunità francese di Saintes-Maries-de-la Mer, nel Camargue (zona caratterizzata dai suoi ‘fenicotteri rosa‘) si celebra ogni anno, il 24 maggio, Santa Sarah, che è ritenuta la protettrice dei gitani, ma che non viene riconosciuta da alcuna confessione religiosa. Santa Sarah sarebbe stata la serva nera di Maria Salomé e Maria José, presenti sotto la croce di Cristo, e poi sbarcate, con la Maddalena, in questo paesino della Francia. I festeggiamenti in onore di Santa Sarah pervadono tutto il paese, e si manifestano con abiti sgargianti, musiche gitane, tradizioni provenzali e spagnole, culminando poi nella processione della statua della santa, che viene scortata fino al mare da bianchi cavalli.

Il nomadismo, salvo rare eccezioni, è quindi sempre stato ritenuto come un fenomeno unico nel suo genere, da spiegare perfino in chiave antropologica. Alcuni studiosi, come ad esempio Glauco Sanga e Francesco Remotti, ritengono che il raccoglimento arbitrario dei prodotti della terra, caratteristico delle antiche popolazioni ‘vagabonde‘, si sarebbe esteso al furto dei prodotti industriali! La verità che molto spesso la parola ‘diversità‘ diventa purtroppo sinonimo di ‘criminalità‘.  La proposta di legge avanzata dal ministro Maroni, ovvero di ‘schedare‘ i bambini rom con la rilevazione delle impronte digitali, non è storia degli anni del fascismo, ma di tre anni fa soltanto. Tale situazione di emarginazione sociale non può che generare o potenziare stili di vita sbagliati, che però, fintanto che la gente è convinta che ai Rom ‘piaccia vivere così‘, non hanno alcun sbocco di redenzione o affrancamento.

Il 24 aprile 2008, a Milano (epoca in cui era sindaco Letizia Moratti)  una ‘squadra di protezione‘, formata da agenti in tenuta antisommossa, ha sgomberato e poi dato alle fiamme il campo abusivo del quartiere Giambellino, dove numerose famiglie Rom provenienti dalla città rumena di Timisoara si erano rifugiate. Lo ‘stile‘ del provvedimento, per quanto compiuto in nome della ‘legalità‘, è stato tutt’altro che pacifico: uomini, donne e bambini sono stati prelevati di prepotenza, senza la possibilità di portare con sé alcun effetto personale (nemmeno indumenti per ripararsi dal freddo), messi in fila, ingiuriati, e infine costretti ad assistere alla distruzione di quel piccolo mondo, su cui avevano edificato una flebile speranza. Analoghi episodi si sono verificati anche in altre città italiane. A Roma, ad esempio, sgomberi forzati si sono verificati sulla Via Tiburtina e sulla Via Salaria. Il vasto campo ‘Casilino 900‘, svuotato nel 2010, si sta pian piano ripopolando, a dimostrazione che questi provvedimenti, oltre ad essere traumatici per chi li subisce, non servono nemmeno a conseguire l’intento di chi li compie. Il sindaco Marino sembrava voler dare il via a una politica d’integrazione, ma forse questa è stata solo una mossa strategica per non ricevere altre bacchettate dall’ONU e dall’Unione Europea, che ci hanno già più di una volta richiamati per per il modo in cui i Rom vengono trattati nel nostro paese.

Lo scorso 30 aprile, dopo la distruzione di circa sessanta baracche a Ponte Marconi,  150 Rom  sono tornati a trascorrere notti all’addiaccio, ai margini delle strade. Non avendo altra alternativa, alcuni di loro si sono rifugiati nel parco giochi di Via Pietro Blaserna. Adesso il sindaco Marino ha pensato di aprire un campo nomade ‘legale ‘alla Cesarina,che costerà ben due milioni di euro, ma questo non toglie che il principio di fondo rimanga comunque sbagliato, perché si vuole insistere a considerare come ‘girovaghe‘ delle popolazioni che invece si sono ormai stanziate da generazioni, e che chiedono solo di poter vivere come tutti gli altri comuni cittadini. L’ associazione ‘21 luglio‘, il prossimo 12 giugno, verrà ricevuta in Campidoglio proprio per affrontare questo spinoso argomento. Bisogna poi tener conto del fatto che questi ‘villaggi‘ vengano spesso collocati in zone degradate, pericolose e malsane, senza alcun rispetto per gli esseri umani che vi abitano. Non a caso, è stata aperta un’ istruttoria per i danni alla salute causati dall’inceneritore che si trova vicino al campo Rom autorizzato di Via Solone.

Il Centro Europeo per i Diritti dei Rom (ERRC), che ha sede a Budapest, è un’organizzazione che, nella difesa dei diritti delle popolazioni Rom, considera le baraccopoli dei veri e propri ghetti, sovraffollati ed igienicamente carenti, e oltrettutto sottoposti a presidi che limitano la libertà dei residenti. Le baraccopoli abusive spesso vengono smantellate senza alcun preavviso, e soprattutto senza alcuna alternativa di sistemazione adeguata. L’Italia, soprattutto dal 2008 al 2011, ha adottato una politica nei riguardi dei Rom che non le fa certamente onore, e che è stata chiamata ‘emergenza nomadi‘. Pur tuttavia, vi sono state anche nazioni che hanno fatto di peggio, come ad esempio la Slovacchia, che nel 2011 ha edificato dei veri propri muri per separare i Rom dal  resto della popolazione. Un simile episodio, sempre nel 2011, si è verificato anche nel comune di Beja, in Portogallo.  Amnesty International riporta poi il caso di Cluj-Napoca, in Romania, dove una comunità Rom è stata sistemata in un’area destinata a una discarica (Pata Rat) e dove i ragazzini si ‘agganciavano‘ ai camion della nettezza urbana pur di sfuggire a tale degrado. Alcuni comuni italiani hanno invece dato il buon esempio, come ad esempio la città di Brescia, lodata nel 2010 dall’European Committee of Social Rights per aver permesso l’accesso dei Rom agli alloggi popolari . Anche Reggio Emilia, nel 2007, ha promosso il progetto ‘Dal campo alla città‘, che sintetizza l’intenzione di togliere i Rom dalla segregazione delle baraccopoli, anche quelle cosiddette ‘formali‘, per proiettarli verso una realtà di inclusione sociale. In ambito europeo, la Spagna ha mirato, dal 1990  in poi, non solo ad accogliere i Rom in normali abitazioni, ma anche a portare avanti un piano di integrazione scolastica, sanitaria e lavorativa.

Jovica Jovic, giovane musicista Rom, ogni 27 gennaio suona al binario 21 della stazione centrale di Milano, da dove partivano i treni delle deportazioni. Jovica suona soprattutto una canzone che suo padre le ha lasciato, e che invita a tramandare la propria inascoltata verità. Anche Rebecca Covaciu, pittrice e studentessa in un liceo milanese, è convinta che solo attraverso l’arte si possa esprimere la sofferenza del suo popolo, del quale si sente fiera, soprattutto perché non ha mai fatto guerre. Non a caso, è stata definita dai giornali come ‘la piccola Anna Frank dei Rom‘. Con la sua famiglia Rebecca abbandonò Arad, in Romania, per fuggire povertà e discriminazione. Nei disegni di Rebecca Covaciu, oltre ad episodi che illustrano la sua sofferenza di emarginata, compaiono anche spesso immagini legate  quella fede religiosa che ha appreso dal padre Stelian, cristiano evangelico. I disegni di Rebecca, raccolti anche nel libro L’arcobaleno di Rebecca, sono stati esposti nel museo civico di Napoli e al museo di arte contemporanea di Hilo, nello stato delle Hawaii. Nonostante questi riconoscimenti, non é stato facile per la famiglia Covaciu liberarsi dallo stigma sociale e condurre una vita ‘normale‘. Nel 2008, durante la premiazione da parte dell’ Unicef, Rebecca ha affermato:

Ci trattano come animali perché non ci conoscono. Non sanno cosa vuol dire vivere in mezzo ai topi e ai rifiuti, al freddo, senza cibo. Quando noi bambini chiediamo l’elemosina dicono che i nostri genitori sono cattivi, perche non sanno che se non ci aiutiamo tutti, fra di noi, moriamo di fame. È un brutto mondo per noi zingari. (cit.da Everyonegroup.it, 26 maggio 2008)

La testimonianza di Rebecca non é isolata,  anche se si tiene conto del fatto che che la vita media degli zingari non si è mai innalzata di molto, e il tasso di mortalità dei bambini è quindici volte superiore a quello degli altri. Le madri spesso non mandano i figli a scuola non solo perché ‘servono‘ a racimolare denaro, ma anche perché sono preoccupate all’idea che vengano affidati ad altre famiglie.

Florentina, una bella ragazza rom di ventidue anni (che ogni giorno si trova dinanzi a un supermercato) spiega che il suo sogno sarebbe quello di vivere con suo marito e i suoi figli in un piccolo appartamento, con bagno, cucina e una stanza, perché quello per lei equivarrebbe a libertà, ovvero a non essere costretta a condividere un piccolo spazio con tante altre persone. Vorrebbe abitare in un normale condominio, in mezzo agli italiani,  non conta se ‘qualche volta‘ sono distaccati ed antipatici. Dice che il campo Rom in cui vive, sulla Tiburtina, è abusivo, che per accendere le lampade usano il gasolio, che per prendere l’acqua vanno alla fontanella, che per scaldarsi d’inverno hanno solo le coperte. Il futuro dei suoi bambini lo vuole migliore del suo, ma non nel senso che spera che diventino dottori, ingegneri o architetti… spera solo che abbiano una casa e un lavoro normale, non come quello di suo marito che raccoglie ferro arrugginito. Conclude affermando che grazie ad una sua zia che abita a Messina era riuscita a ottenere una tessera sanitaria, ma adesso che questa tessera è scaduta non sa come fare, perché è in attesa di un bambino e necessiterebbe delle analisi e dei controlli che per lei sono preclusi. Vorrebbe informarsi meglio a riguardo, ma non sa bene dove andare, e in fondo non vuole nemmeno insistere su un qualcosa che sente le spetterebbe di diritto. Spera solo di non ammalarsi e di non avere bisogno di andare in ospedale.

Amet Jasar, attore e regista teatrale, racconta che a Shutka, vicino Skopje, in Macedonia, esiste una città rom, che ospita ben ottanta mila nomadi. La città è nata in seguito al terremoto che colpì la capitale macedone nel 1963, e da allora si è sempre più estesa, con successive ondate migratorie, fino a essere riconosciuta ufficialmente nel 1966. Lo stesso sindaco, Erduan Iseini, ammette che questa città, che sorge fra un cimitero ed una discarica, può essere considerata una forma di apartheid, ma pensa anche che, allo stesso tempo, è stato infranto un luogo comune, che vuole i Rom ‘randagi, mendicanti e ladri‘. A Shutka si vive in case tutto sommato decenti, si considera il romanes come lingua ufficiale (nonostante le varie commistioni dialettali)  poi ci sono due emittenti televisive, un giornale locale, una stazione di polizia, una tabaccheria, una macelleria, un fornaio, un internet caffé. Sogno nel cassetto è quello di avere una squadra di calcio e anche un teatro ‘innovativo‘.  L’unico deputato rom al parlamento macedone, Nezdet Mustafa, è convinto che riuscirà a garantire a Shutka un miglioramento delle sue precarie condizioni di vita, dove i disoccupati ricevono un sussidio statale di cinquanta euro al mese. La meta più difficile sarà quella di innalzare il livello d’ istruzione, anche a causa di una mentalità che toglie le ragazze dai banchi di scuola per farle sposare prima del tempo.

L’ integrazione dei Rom deve partire da noi, anche aiutandoli a mettersi in diretto contatto, senza avvalersi di sterili intermediari, con le istituzioni. Dovremmo iniziare a sensibilizzare innanzi tutto noi stessi, liberandoci da infondate credenze, come ad esempio quella che i Rom rapiscano i bambini. I documenti degli archivi di Stato dimostrano chiaramente che, dal 1899 ad oggi, nessun gitano è responsabile di un simile reato, ma ha semmai soltanto numerosi figli propri da sfamare. Dovremmo cercare di immaginare una società migliore, con uguali diritti per tutti, e dove il Rom potrebbe essere il nostro vicino di casa, il nostro datore di lavoro, il nostro commercialista, il nostro rivenditore di fiducia, e perfino il nostro migliore amico. La triste verità é che se un Rom vuole smettere di vivere di accattonaggio, troppo spesso non ha altra scelta che tacere, e quindi sacrificare le proprie radici di appartenenza, il proprio orgoglio, la propria identità. E questa é una violenza troppo grande da infliggere.




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