Pare che il problema di Roma non sia la mafia, ma, proprio come si diceva per Palermo, il traffico. i trasporti pubblici, un’azienda inefficiente in perenne odor di corruzione, clientelismo, familismo. La soluzione starebbe nella bicicletta, cui accidiosi cittadini non vogliono convertirsi motivando la loro incivile riottosità con le distanze, la mancanza di piste ciclabili, la necessità di presentarsi al lavoro sia pure precario negli orari stabiliti, obbligo peraltro poco rispettato in questi giorni grazie a porte aperte in galleria, treni che corrono come il calesse del diavolo, scioperi bianchi, linee cancellate per sempre o sospese nel periodo estivo. O meglio ancora nell’affidare la farraginosa macchina della mobilità a generosi privati, pronti ad accollarsi l’onere gravoso, con l’abnegazione di mecenati e disinteressati benefattori.
Chiede scusa, ma non se ne va il sindaco Marino. Anzi sollecita, affidando l’imperativo a un virile comunicato stampa, una partenza accelerata del capro espiatorio che gli viene più facile, nella persona dell’assessore Improta, reo di ogni male e nequizia dal giorno nel quale, dichiarando l’impotenza ad agire, ha rassegnato le dimissioni nelle mani dell’angelo vendicatore, azzera il Cda di Atac, proprio nominato dalla sua amministrazione per dare un segnale forte di discontinuità con il passato denominato non a caso Parentopoli, convinto di mostrare così un sorprendente dinamismo tale da riguadagnargli la protezione dei padroni e dei loro esecutori al governo, magari gli stessi che potrebbero aver lanciato anatemi trasversali in forma di accorati articoli scandalistici sulla Roma delenda, che si sa il coraggio non è una virtù del premier quando deve affondare ingombranti presenze che ha contribuito ad accreditare.
Avendo introiettato con facilità obiettivi e modi dell’ideologia di regime: provocare crisi, incrementare emergenze, rendere anormale la normalità fino a tradurla in malattia, veleni, patologie inguaribili in modo da affidarne la cura e la “guarigione” a gente pratica, gente che mostra la sua gratitudine aiutando improbabili candidati e le loro carriere, gente che non si perita di tagliare posti di lavoro anche in virtù di provvidenziali riforme, di ridurre quantità e qualità dei servizi, di aumentare i prezzi in nome di un’efficienza organizzativa monopolio e attributo esclusivo della “cultura” imprenditoriale, sbandiera la bandiera stracciata dell’unica rivoluzione copernicana che conosce, la privatizzazione.
Ormai anche il mio computer è stanco di ripetere l’inanellarsi di insuccessi delle privatizzazioni in tutto il mondo, dall’impero di Occidente ai Paesi che le avevano immaginate come un intervento demiurgico per risanare mostri burocratizzati e farraginosi mantenuti in vita sia pure agonizzanti o già trapassati come Andropov dallo statalismo. E di quanto si sia dimostrata nemica dell’interesse generale la sostituzione dello stato patrigno con padroni tout court.
Quando su Facebook mi imbatto su gruppi a sostegno di Marino sindaco, emblema di una dimenticata onestà, homo novus alle prese con un’eroica impresa di fulgida pulizia, mi viene in mente una persona molto cara che in tempi lontani andò in Urss a un incontro internazionale di giovani universitari. A lui che rivendicava la forte presenza del partito e degli ideali comunisti in Italia, gli studenti di Mosca risposero con un sorriso amaro: fate presto a essere comunisti in Italia, provate ad esserlo qui. E infatti è facile “stare con Marino” altrove, non essendo prigionieri di rari bus dalla densità cairota e altrettanto sprovvisti di aria condizionata, non essendo assediati dalle puzze mefitiche della monnezza che invade i vicoli, non essendo accerchiati dalla sosta invadente e dalle incursioni in tutta la città compresi i siti archeologici di bus turistici, non aspettando l’81 inteso come bus per una media di 45 minuti. E soprattutto non essendo gli sventurati abitanti stabili o provvisori di periferie dilaniate da paura, diffidenza, mortificazione, umiliazione, neghittosamente escluse da servizi, illuminazione, mezzi pubblici di collegamento con il centro, pulizia delle strade. O occupanti di case che vengono sollecitati a difendere la loro condizione di abuso considerata meno illegittima e quindi più tollerata di quella degli usurpatori venuti da fuori, alla cui protesta e al cui stato di crudele arbitrio il sindaco non ha saputo rispondere che con minacce: tagli della luce e dell’acqua e repressione.
L’onestà, quella di chi non ci sfila direttamente il portafogli dalla tasca, è condizione necessaria, certo. Ma non sufficiente. Che ben altro ci vuole: competenza, coraggio, determinazione, tenace difesa dell’interesse generale e del bene comune. Proprio il contrario del lavarsene le mani dei bisogni e dei diritti fondamentali dei cittadini, dei quali trasporti efficienti e puliti sono parte integrante, alienandoli e offrendoli alla carità pelosa di profittatori, allo sciacallaggio di speculatori, in barba ai requisiti di funzionalità, pari accesso per tutti, rapporto ottimale qualità/prezzo,rispetto dell’ambiente e della salute. Se come per altre città d’arte, la tutela del patrimonio artistico e culturale è un test rappresentativo, avrebbero già dovuto insospettire i viaggi del Marino piazzista, con tanto di valigetta col campionario da proporre in lungo comodato a una clientela variegata, americana, araba, orientale.
E già si mormora che la cerchia del sindaco abbia instaurato rapporti privilegiati con imprese cinesi intenzionate a entrare nel brand dei trasporti romani con i suoi “vettori” e pronti a piazzare i megabus, suggello della definitiva consegna al traffico di massa su gomma con tutte le conseguenze ambientali che ne conseguono e in aperta contraddizione con quel “piano del ferro” di Campos Venuti che aveva qualificato le giunte di sinistra del remoto passato. Ma anche con i propositi delle talpe megalomani che hanno voluto l’interminabile realizzazione di linee della metropolitana di incerta utilità per i cittadini mentre appare chiara quella per le cordate che ne stanno approfittando da decenni, come una sine cura certa e irrinunciabile. E intanto l’uso dell’automobile cresce di anno in anno: il numero dei veicoli in città tende a superare quello dei cittadini, con 978 ogni mille abitanti, compresi vecchi e bambini, mentre i km delle linee di metropolitana sono inferiori perfino a quelli di Atene, di Bucarest, di Teheran. In una città dove le trasformazioni avvenute o che stanno avvenendo non rispondono a criteri urbanistici che vanno incontro a bisogni collettivi, ma sono invece l’effetto di strategie immobiliari che arrecano profitto a chi costruisce, lasciando che venga consumato suolo pregiato, consentendo, persino sollecitando, che parti crescenti di città migrino dalla mano pubblica o da un uso pubblico al controllo privato (siano edifici o aree libere, mercati rionali o depositi dimessi, suoli o sottosuoli, accade che ognuno cerchi di salvarsi da sé, che si sposti, potendo, con l’auto privata con danno e svantaggio di tutti: svantaggio perché il traffico cittadino è ormai ridotto a un ingorgo permanente, con danno, per la crescita dello smog e del particolato nell’aria che tutti respiriamo, per l’usura dei monumenti, la diffusione dello sporco sugli edifici, la cancellazione del paesaggio urbano, ridotto a uno sterminato parcheggio.
Aveva proprio ragione Italo Insolera quando scriveva «il non trasformare nessuna tendenza in un piano, in una legge precisa che modelli la struttura stessa della città, è una caratteristica tipica e costante dell’amministrazione romana. Ogni provvedimento deve sempre lasciare un margine al provvedimento opposto. Qualsiasi iniziativa viene subito svilita nel compromesso: per evitare che si accusi l’amministrazione di favori eventualmente disonesti nei confronti dei proprietari e impresari di una zona; non ci si cura tanto di creare gli strumenti fondiari e tecnici per prevenire da ogni parte possibili corruzioni, ma di distribuirne un po’ dappertutto le premesse». E’ che il “disagio abitativo” non è un problema di oggi o dell’ultimo decennio: rappresenta invece uno degli aspetti strutturali di un rimosso diritto alla città, tanto che si dimentica quanto costa ai cittadini romani, e non solo ai cittadini romani, un debito di oltre 9 miliardi, scarsissima liquidità, un bilancio sempre a rischio di censure dalla Corte dei Conti, e infine l’ultimo oltraggio, quello di svenderla pezzo su pezzo come i tombaroli, come Totò col Colosseo. Peccato che in queste comiche finali non ci sia niente da ridere.