Sangue, pallottole e droga, ma anche politica, amicizia, odio e amore.
Insomma, Il potere del cane versione nostrana.
E' davvero difficile, parlare di un affresco come quello dipinto da Romanzo criminale.
Forse, a ben guardare, si dovrebbe semplicemente lasciarsi travolgere, e tuffarsi nell'ascesa come nella caduta, senza chiedersi chi sarà quel vecchio ancora pronto a ringhiare, mordere, ammazzare, gridando "Io stavo col Libanese!", per le strade di una Roma che non lo riconosce più.
O forse chissà, una risposta semplice non c'è.
Una delle polemiche principali legate all'uscita di questo straordinario prodotto - davvero fuori categoria per il panorama italiano - era la possibile esaltazione di caratteri e personaggi che potessero indurre i giovani a seguirne le orme, o qualcosa di simile: gli stessi attori, ricordo bene, furono chiamati in causa per testimoniare che le loro interpretazioni erano quelle di personaggi ispirati ad alcuni dei più terribili criminali in attività in Italia per oltre un decennio a partire dal 1977, tanto per essere sicuri.
Ma non è questo, quello che importa, nel corso di questa cavalcata di dodici puntate capaci di farmi rimpiangere di aver letto il romanzo, e sapere, tendenzialmente, cosa mi aspettava.
Quello che importa è l'umanità che ogni personaggio - o quasi - sprizza da ogni poro.
Certo, si tratta di ritratti quasi sempre o quasi completamente negativi, eppure nelle loro azioni c'è tutta l'incredibile carica di vitalità di un gruppo di ragazzi mossi dal desiderio di cambiare il loro mondo, fosse anche nel sangue.
Come per quelli bravi dipinti da Scorsese in una delle sue opere più rappresentative, anche in questo caso possiamo leggere, nei sogni di gloria del Dandi o del Libanese, tutta la voglia di rivalsa verso un mondo che li ha visti nascere e crescere in fondo ai gradini della società, contro il quale prendersi una rivincita che possa mostrare allo stesso e ai suoi abitanti che quello che lui non gli ha dato, loro saranno sempre in grado di prenderselo.
Eppure, quasi ci trovassimo all'interno di una tragedia shakespeariana, anche i giorni di festa o i trionfi saranno inesorabilmente prologo di una caduta rovinosa, predetta e fiutata soltanto dal Freddo, unico della banda che cercherà, almeno per il momento, di cambiare aria prima che il destino possa venire a chiedere conto battendo cassa per il sangue versato, e per il brivido di essere arrivati in cima.
Il tutto all'interno di una stagione praticamente senza respiro, costruita su una galleria di personaggi definiti alla grande ed assolutamente tridimensionali anche quando non legati al ruolo di protagonisti, ed interessanti nel loro muoversi da una parte e dall'altra della barricata: senza considerare la mia personale preferenza per il Bufalo - eredità del romanzo, dato che ancora, nel corso della serie, non ha esploso tutto il suo potenziale -, appare impossibile non rimanere colpiti anche dai caratteri cui meno ci si associa - nel mio caso, quelli di Patrizia, Trentadenari, lo stesso Dandi, in qualche misura Scialoja, il Terribile -, ed il coinvolgimento e l'immedesimazione giungono puntuali come un pugno nello stomaco, arricchiti nel loro fascino oscuro dal legame profondo che quest'opera ha con la Storia italiana recente.
Ascoltare il misterioso Vecchio, con negli occhi l'immagine promozionale della neonata Canale 5 in tv e sussurrare "un giorno i crimini non saranno più compiuti con le pistole", osservare la solitaria, triste caduta del Libanese, leader fedele e saldo, dedito e passionale, di fronte alla casa di una madre che non sarà in grado di riconoscerlo neppure in punto di morte tocca corde profonde di ogni cuore in grado di provare sentimenti forti, quasi a desiderare di essere al posto di quella donna, e poter scendere ed accogliere il grido disperato di un figlio, di un giovane che pare solo voler dimostrare che con le sue mani è arrivato dove nessuno era mai giunto prima.
Il Re di Roma. Bello, crederci, avrà pensato Libano.
Ma a quale prezzo, si potrà obiettare?
Mi torna in mente così addirittura William Wallace, che prima di andare in battaglia ammoniva i suoi:" Chi combatte può morire, chi fugge resta vivo. Almeno per un pò."
Da sempre ho guardato con scetticismo i giovani tamarri abbagliati dai fasti di Tony Montana e soci, e continuo a farlo.
Ma non riesco a non sentire almeno un briciolo di partecipazione per questi ragazzi, uccisi prima dalla passione che dalle pallottole, dalla droga che dagli avversari, dall'avidità che dagli anni.
Io non so se sarei in grado di sacrificare anche solo potenzialmente la mia libertà o il mio tempo per una rivalsa così netta e destinata ad un fallimento inesorabile, quindi, almeno in parte, rispetto le scelte, per quanto le stesse possano portare a condannabili risultati.
Non devono essere giustificati, non ne avranno mai bisogno, e mai suppongo l'abbiano voluto.
Un pò come noi, che finiamo per commuoverci assistendo alle loro vite e morti.
Perchè sappiamo che, in fondo, a prescindere da quali siano le nostre scelte, o da quale parte si possa stare, ci sono cose che sono semplicemente troppo umane per essere negate.
Come il potere del cane.
MrFord
"Oggi me sembra che er tempo se sia fermato qui.
Vedo la maestà der Colosseo,
vedo la santità der Cuppolone,
e so' più vivo, e so' più bono, no, nun te lasso mai,
Roma capoccia der monno infame."
Antonello Venditti - "Roma capoccia" -