Soprattutto in Italia. Una prima difficoltà pratica è costituita dal difficile reperimento di sceneggiature scritte in italiano, contrariamente alle sceneggiature di film americani che sono invece reperibili in grande quantità direttamente su Internet. Questo primo ostacolo può certamente essere affrontato con lo studio dell’inglese.
Esistono però, almeno per le mie esperienze, altre difficoltà più complesse, legate a una certa arbitrarietà che in vari corsi viene usata nell’illustrazione dei concetti base e nelle definizioni coinvolte nella realizzazione di una sceneggiatura.
Le riflessioni che seguono traggono origine dalla mia esperienza personale ma sono anche il tentativo di raggiungere un certo grado di generalità con particolare riferimento al rapporto tra arte in generale, romanzo e sceneggiatura.
Scrivere per il cinema, con tutte le codificazioni che questo comporta (idea, soggetto, scaletta, sceneggiatura) e con tutti i vincoli formali e tecnici interni a ciascuna codificazione (idea in poche righe con precisa rappresentazione del tema centrale, soggetto senza alcuna descrizione psicologica dei personaggi e con verbi tutti al tempo presente, scaletta numerata con esatta successione delle scene, sceneggiatura con assoluta precisione di ogni rigo; precisione rispetto poi a che cosa non è chiaro, se è possibile dimostrare facilmente che grandi sceneggiatori scrivono con regole diverse rispetto a quelle insegnate nelle scuole e che le scuole stesse propongono regole diverse le une rispetto alle altre) costringe la mente a fermarsi e ripartire di continuo, bloccando, per poi pretendere che riparta successivamente, quel flusso naturale delle idee che chi scrive racconti spesso riesce a raggiungere.
Scrivere un romanzo è invece un'attività che può soddisfare molto la necessità del libero flusso delle idee di trovare naturale espressione nelle cose scritte.
Ricordo di aver ascoltato direttamente dallo sceneggiatore Giovanni Veronesi una definizione semplice, immediata, chiara ed estremamente precisa della differenza tra romanzo e sceneggiatura: "Il romanzo è uno sfogo, la sceneggiatura è una cosa tecnica". Giovanni Veronesi è oltretutto la persona più adatta per esprimersi su questo argomento essendo lui stesso, oltre che sceneggiatore di grande esperienza, anche fratello di uno dei più affermati scrittori contemporanei, Sandro Veronesi.
Dunque la sceneggiatura è una cosa tecnica. Non è arte. É casomai una delle basi tecniche su cui si poggia la settima arte, il cinema.
Ci sono insegnanti di sceneggiatura che pretendono di affermare che la sceneggiatura è una forma di arte. Niente di più assurdo secondo me. Loro insistono dicendo che "l'arte di sceneggiare" sarebbe basata sulla capacità di suggerire al regista, agli attori e agli altri soggetti coinvolti nella realizzazione del film, le scene da rappresentare.
Tuttavia le regole della sceneggiatura non sono affatto universalmente codificate.
Per verificarlo basta fare riferimento a indicazioni opposte o contrastanti proposte da diversi insegnanti. Qualcuno dice che è assolutamente necessario iniziare sempre con l’espressione inglese “fade in” altri che invece si tratta solo di una regola degli americani assolutamente da evitare. Certi insegnanti dicono che è una bestemmia assoluta scrivere in una sceneggiatura espressioni come “vediamo”, “si vede” quando invece anche in grandi sceneggiature vincitrici di oscar troviamo inequivocabili espressioni del tipo “we see” e così via.
Come può una codificazione così variegata suggerire senza equivoci a persone diverse le stesse immagini? La sceneggiatura, se ci fermiamo a questo punto del ragionamento, risulta casomai una tecnica mal definita e piena di lacune a tal punto da non poter costituire un insieme omogeneo di indicazioni e di strumenti base per una nuova disciplina. A mio parere quegli insegnanti di sceneggiatura che si scandalizzano nel vedere che non sono state rispettate alcune delle regole come quelle appena illustrate non hanno ben presente la differenza tra convenzioni e regole sostanziali e soffermandosi sulle prime perdono inevitabilmente di vista l’importanza delle seconde.
Ma andiamo avanti, supponiamo anche che la codificazione della scrittura per il cinema sia precisa, compiuta, senza equivoci e in grado di suggerire immagini senza equivoci come sostengono coloro che utilizzano espressioni come "l'arte di sceneggiare".
Se così fosse avremmo trovato il modo di suggerire alla mente delle immagini in modo univoco. Dunque il problema del rapporto tra mente e realtà che ha assillato la filosofia occidentale da Platone a Berkeley, da Cartesio a Kant sarebbe stato risolto. Inutile commentare.
Ma andiamo ancora avanti e cerchiamo di prendere per buona la definizione di sceneggiatura come arte e vediamo in che modo questa definizione può essere collocata rispetto a concezioni di arte eventualmente contrastanti e totalmente opposte tra di loro.
Nel corso del Novecento una delle dispute può profonde sul concetto di arte è stata quella che ha coinvolto Croce e Pirandello.
Consapevole di non poter riassumere in poche righe i termini della questione, cercherò di dare almeno un'idea della differenza tra il grande filosofo e il grande scrittore su questo argomento. Per Croce l'arte è intuizione; dunque è un'attività immediata dello spirito.
Questa attività si realizza nell'espressione e l'espressione coincide con la conoscenza. Croce non ammette dunque nella sua concezione di arte l'attività della riflessione come del resto nessun’altra attività che costituisca una mediazione tra l'intuizione e l'espressione dello spirito.
Sempre nell'ipotesi che la sceneggiatura sia una forma d'arte perfettamente codificata, vediamo subito che è impossibile trovare una corrispondenza tra la sceneggiatura e l'arte così concepita.
Se la sceneggiatura corrispondesse alla definizione di arte di Croce essa stessa non avrebbe alcun bisogno del cinema per trovare compiuta espressione e risulterebbe completamente e clamorosamente sbagliata la nota affermazione di Pasolini per il quale "la sceneggiatura è una struttura che vuol essere un'altra struttura".
Per Pirandello invece l'arte trova la sua forma più alta nella coscienza, la quale attraverso la riflessione conduce l'individuo a vedere oltre le sue prime impressioni, passando così dall'avvertimento del contrario al sentimento del contrario che coincide con l'umorismo.
Se la sceneggiatura corrispondesse alla definizione di arte di Pirandello allora dovrebbe permettere allo spirito di riflettere sulle basi generali indicate dal testo sceneggiato lasciando libertà al lettore di trovare nello specchio della propria coscienza il significato profondo di una situazione come nell'esempio della signora anziana truccata come se fosse una ragazza o nell'esempio della poesia del Giusti in cui la prima osservazione di soldati dell'esercito nemico suscita odio ma ad una più attenta riflessione si potrà comprendere la loro difficoltà, perché anche loro sono lontani da casa e di continuo al contatto con la morte.
Il riferimento è al saggio “L’umorismo”.
Bisogna anche notare che per passare al sentimento del contrario, Pirandello sostiene che la coscienza deve riflettersi non in uno specchio fisso e predefinito ma in uno specchio d'acqua con cui la coscienza dovrà entrare in contatto, in una contaminazione dinamica delle continue immagini che il movimento dell'acqua suggerisce, esprime e propone. Ma tutto questo presuppone una libertà interiore dell'individuo e richiederebbe una codificazione convenzionale poco rigida e anzi dinamica delle regole esterne della sceneggiatura. E questo è in contrasto con l'ipotesi di regole ben poste, codificate e precise.
Ci accorgiamo che la sceneggiatura così come viene proposta al giorno d'oggi non si accorda (e nemmeno si avvicina) né con la definizione di arte di Croce né con quella di Pirandello. Qualcuno potrebbe allora rispondermi che possono esistere altre definizioni di arte. Io rispondo di dirmi quali sono queste altre definizioni di "arte" che coincidono con la cosiddetta "arte di sceneggiare".
Sottolineo che è molto significativo che la sceneggiatura sia così lontana da concezioni di arte così diverse tra di loro come quelle di Croce e Pirandello e dovrebbe far sospettare che essa, in realtà, non è affatto arte.
Voglio forse concludere allora che la sceneggiatura allora non dovrebbe avere nessuna regola precisa e lasciare completa libertà alla coscienza? Chi avesse visto questa mia intenzione non è in grado di comprendere che le problematiche della libertà della coscienza e della definizione delle regole devono essere poste su piani completamente diversi e indipendenti.
La libertà della coscienza e l'attività creatrice dello spirito individuale devono essere sempre salvaguardate in qualsiasi forma di espressione. Questa affermazione riguarda la morale.
La necessità del rispetto generale di alcune regole di scrittura è importante per evitare l'anarchia della presentazione di una sceneggiatura e per fare in modo che un lavoro non venga subito scartato da un produttore o un regista. Questa affermazione riguarda la pragmatica, l'opportunità e non ha niente a che vedere con la morale.
Voglio ancora fare l'avvocato del diavolo di me stesso e delle mie affermazioni sopra proposte. Forse potrebbe venire in mente a qualcuno che io voglia sostenere che le regole troppo precise tolgono libertà all'espressione della coscienza e dello spirito e obiettarmi dunque: ma allora forse la poesia, suprema espressione dell'animo umano, non ha regole.
Io rispondo che la poesia ha regole ben precise e fondamentali eppure garantisce libertà profonda all'animo umano.
Ma aggiungo le seguenti considerazioni.
Le regole della poesia hanno avuto sviluppo millenario e dunque non sono il risultato di convenzioni estremamente recenti come quelle della scrittura per il cinema, arte che compie circa cent'anni.
Queste regole della poesia non sono uniche nelle forme e nell'organizzazione dell'espressione perché si sono modificate a seconda delle esigenze ma senza mai annullare le forme e le regole precedenti (l'esametro dattilico dell'Iliade corrispondeva ad esigenza espressive di quel periodo storico, ben diverse dall'endecasillabo della Divina Commedia; la terzina di Dante è il risultato di un processo culturale ben preciso, l'ottava dell'Ariosto risponde alle esigenze di rinnovamento stilistico del momento in cui questi si trovava a scrivere).
Molti insegnanti di sceneggiatura pretendono di proporre regole uniche e non mutevoli secondo il tempo o le esigenze. Se vengono fatte notare molte differenze tra grandi sceneggiatori loro rispondono che è l'eccezione che conferma la regola.
La seconda considerazione riguarda il fatto che le regole della poesia sono chiare e precise. Non c'è possibilità di equivoco tra endecasillabo e pentametro, tra sonetto e ottava, tra canzone e sonetto. Inutile sottolineare che non è nemmeno paragonabile la cristallina chiarezza di questi "strumenti" metrici con l'approssimazione con cui sono definite la slug-line o il parentetical, il flash back, la voice off o la voce over.
Si può inoltre osservare che la poesia trova la sua naturale compiutezza nella lettura e nell'interpretazione. Essa non si esaurisce nel testo scritto. Possiamo notare che questo è vero anche per la sceneggiatura che trova la sua completa espressione nella realizzazione del film. Ma questo non fa che confermare che la sceneggiatura è la tecnica di base, sottostante al film; la struttura che vuol diventare un'altra struttura appunto.
Sarebbe forse possibile affermare che la poesia è solo tecnica? Assolutamente no. Anche il solo testo scritto è arte senza dubbio. Mentre però la poesia ha chiarito il tipo di rapporto che deve sussistere tra sua forma scritta e l'espressione interpretata del testo poetico (ed è un chiarimento dinamico che non si definisce mai in modo assoluto ma si rinnova dinamicamente a seconda del gusto e del periodo storico), il rapporto tra cinema e sceneggiatura non ha ancora raggiunto un livello di chiarezza analogo.
Prima ho parlato della differenza che secondo me esiste tra scrittura per il cinema e romanzo. In una sorta di ragionamento per isomorfismo vorrei paragonare la differenza tra questi due tipi di scritture alla differenza che in matematica esiste tra analisi di un fenomeno nel discreto e analisi di un fenomeno nel continuo. Apparentemente i due argomenti sono completamente diversi ma un confronto di questo tipo può essere fondamentale per comprendere la reale e comune problematica epistemologica.
Un matematico conosce la differenza che comporta la scelta di rappresentare un fenomeno con un'equazione alle differenze invece che con un'equazione differenziale. É consapevole che la scelta dell'uno o dell'altro strumento comporterà dei risultati finali diversi.
Dunque in questo caso la consapevolezza riguarda la differenza nei risultati.
Uno scrittore avrà ben chiara invece la differenza tra scrivere un romanzo e una sceneggiatura? Credo che questa sarà ben chiara sotto il profilo dei risultati. É evidente che se io apro una sceneggiatura e un romanzo sarò in grado di capire qual è la sceneggiatura e qual è il romanzo. Ma per quanto detto sopra c'è anche una differenza fondamentale che riguarda la mente di chi si dedica all'uno o all'altro tipo di lavoro. Nel primo caso una continuità dell'espressione, nel secondo una frammentazione del lavoro mentale.
Dunque in questo caso la consapevolezza riguarda la differenza nei presupposti: cioè l'applicazione della mente dell'artista-cineasta al tipo di lavoro.
Questa mancanza di lucidità epistemologica è secondo me alla base di tanti orientamenti sbagliati in chi si occupa di sceneggiatura come nel caso di chi pretende di ricercare qualità letterarie in testi di cinema o in coloro che pretendono di valutare una sceneggiatura, talvolta e senza un principio preciso, con criteri tipici dell'espressione letteraria. Espressione quest'ultima completamente opposta rispetto alla scrittura per il cinema.
Avviandomi alla conclusione non posso non fare riferimento agli americani. Il cinema, bisogna ammetterlo, loro lo sanno fare. É interessante leggere testi sulla sceneggiatura di studiosi e sceneggiatori americani, come “Good Scripts, Bad Scripts” di Thomas Pope oppure“ The Tools of Screenwriting” di Edward Mabley e David Howard, quest’ultimo fondatore del corso di specializzazione in sceneggiatura della University of South California. É subito evidente che in questi libri il riferimento a tutta la letteratura occidentale é molto forte. Dalla “Poetica” di Aristotele a Lope de Vega, da Shakespeare a Turgenev è evidente la convinzione degli specialisti americani che per scrivere bene per il cinema bisogna conoscere bene la letteratura considerata come lo strumento fondamentale per creare delle ottime storie. Ed è sempre chiara la loro consapevolezza che sarebbe uno sbaglio tentare a tutti i costi di mantenere nella scrittura per il cinema lo stesso tipo di qualità espresso nell’opera letteraria.
Questi autori inoltre precisano senza possibilità di equivoci le regole della formattazione delle sceneggiatura e riescono ad esprimere la loro piena consapevolezza della differenza tra regole sostanziali e convenzioni.
É la stessa chiarezza delle parole di Giovanni Veronesi.
Gli americani inoltre hanno elaborato schemi e paradigmi generali entro i quali uno sceneggiatore o aspirante tale può muoversi con quella flessibilità fondamentale per chi si sente creativo senza rinunciare ai punti fermi di base della disciplina. Syd Field e Michael Hauge sono autori importantissimi in questo senso.
Purtroppo in Italia questo atteggiamento di chiarezza che non sfocia in inutili rigidità è patrimonio forse soltanto degli sceneggiatori affermati ma non delle scuole e dei corsi in generale.
Questa è la causa fondamentale, a mio parere, delle difficoltà in Italia incontrate da chi vuole imparare a scrivere per il cinema.