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RON MUECK | Ovvero l’altra proporzione

Creato il 08 ottobre 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

bannermueckdi Massimiliano Sardina

 

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Lo scultore iperrealista australiano Ron Mueck nasce a Melbourne nel 1958. Figlio di giocattolai di origine tedesca, muove i suoi primi passi tra bambole e burattini, e le sue prime attività lavorative, una volta trasferitosi in Gran Bretagna, si concentrano fin da subito sul mondo dei pupazzi, dei cyborg e degli automi. Lavora per la televisione (specie programmi per bambini), per la pubblicità e per il cinema (nel 1986 collabora attivamente alla realizzazione dei personaggi del film Labyrinth, regia di Jim Henson). L’esordio come artista, piuttosto tardivo, è databile intorno alla metà degli anni Novanta. Tra il 1996 e il 1997 realizza la scultura Dead Dad (Papà morto, opera esplicitamente dedicata a suo padre) che, presentata alla Royal Academy di Londra all’interno della mostra “Sensation”, attira subito l’attenzione dell’agente e collezionista d’arte Charles Saatchi. Un incontro fortunato e determinante. Da questo momento la carriera dell’artista australiano sarà sempre in salita. Ad oggi, come scultore iperrealista non ha rivali, né dal punto di vista strettamente tecnico né per quel che concerne la notorietà internazionale. Mueck, fin dall’inizio, sceglie di spingersi ben oltre gli emuli di Duane Hanson, ben oltre quell’iperrealismo di scuola anni Settanta – Ottanta finalizzato all’inganno visivo.

Mueck non clona, non fa il calco alla realtà, non riproduce l’esemplare gemello, le sue priorità sono altre, e non sacrifica nulla sugli altari del virtuosismo. La sua creatura è più reale del reale, troppo reale, talmente reale da gonfiarsi, da amplificarsi (divenendo ora più grande ora più piccola), sempre filtrata da una lente. La cura ossessiva del dettaglio in Mueck si accompagna sempre alla riproduzione in scala. L’ingrandimento esalta ogni particolare, la trama dell’epidermide, i pori, le papille pilifere, smagliature, cicatrici, lentiggini, nei. Sull’atlante della pelle Mueck trascrive tutto e costringe l’osservatore a leggere tutto. Al contrario, l’inversione lillipuziana attrae l’osservatore con la malìa d’un magnete, lo induce ad avvicinarsi, a chinarsi, ad accostarsi per meglio focalizzare. Da lontano o da vicino c’è l’umanità intera, prima indagata e poi restituita, senza calcolati cinismi e senza didascalici sentimentalismi. Eternati in un lucido delirio antropocentrico i corpi dispiegano un ingombro pleonastico, riempiono lo spazio fino a strariparne, colti di sorpresa, spiati, o più semplicemente osservati, e comunque mai in posa. Ogni edonismo è eluso a priori.

Quanto alle tematiche e ai soggetti Mueck si riallaccia deliberatamente ai temi universali della storia dell’arte. C’è la madre, c’è il padre, c’è il figlio. C’è l’uomo, c’è la donna. C’è la giovinezza e c’è la vecchiaia. C’è il glabro e c’è il villoso. C’è il gigante e c’è il troll. Nessuno manca all’appello. Mueck raduna i vessilli dell’umanità intera, un campionario a tratti impassibile di gioia e di dolore, dal vagito al sospiro estremo. L’ingrandimento, si badi, non pregiudica la proporzione, non altera, non deforma, non snatura. Il gigantismo (e così anche l’operazione inversa) instilla una straniazione nello spettatore, lo mette dapprima in una condizione ambigua di disagio per poi subito dopo stabilire un’empatia: siamo nel perturbante freudiano, nel unheimliche che insieme spaventa e seduce. Si guardino sculture come Big man (2000), In bed (2005), Two women (2005) e più in particolare Wild man (2005). In quest’ultima, alta quasi tre metri, il villoso selvaggio nudo e ben ancorato alla sua sedia non dissimula un malcelato disagio: è la natura primigenia profondamente imbarazzata di fronte all’alienazione della civiltà. È la condizione di “cavolo a merenda” che ogni opera d’arte è condannata a celebrare nella realtà contingente. Non stupiamoci se lo stupore resta a braccetto dell’imbarazzo, se la meraviglia si intrattiene più del dovuto con il disgusto.

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Al cospetto di cotanta umanità non si può restar indifferenti, e non ce la si può cavare con un semplice sommario giudizio estetico o formale. Ogni specchio costringe a una riflessione. Mueck vuole produrre uno shock visivo nell’osservatore, ma soprattutto vuole indurlo a soffermarsi più concretamente sull’umano, sul corpo che non è mai solo un corpo. Osserviamo figure come quelle di Mueck tutti i giorni, per strada, sui mezzi pubblici, sul posto di lavoro, finanche dentro le nostre stesse case e i nostri stessi letti. Mueck ci costringe a osservare con occhio diverso ciò che distrattamente guardiamo tutti i giorni. L’amplificazione della proporzione, lo zoom, ci invita a prestare la dovuta attenzione, a misurare con interesse quel che la distrazione aveva dato per scontato. L’artista non ricorre ad effetti speciali o a trucchi particolari, non ne ha bisogno, ma certo getta l’esca appetitosa della nudità (il nudo dell’altro, tanto nell’avvenenza quanto nella ripugnanza, solletica sempre la nostra curiosità). Va detto però che la trattazione mueckiana del nudo non scade mai nella banalità della facile provocazione, i sessi infatti spiccano appena sulle singole figure, come assorbiti e naturalizzati. In primo piano, tanto nelle esagerazioni elefantiache quanto nelle riduzioni, c’è sempre un’umanità messa a nudo, mostrata al contempo nella sua vulnerabilità e nella sua magnificenza.

Colossale o lillipuziana, l’umanità si offre nella sua teoria generazionale, nella sua innocenza e nella sua colpevolezza, nella sua gioia e nella sua alienazione, nella sua drammaticità e nella sua comicità. La solitudine del contemporaneo, l’asettica indifferenza delle metropoli, è ben stigmatizzata in una delle opere più recenti Woman with shopping (2013); se in Supermarket shopper (1970) Duane Hanson aveva improntato una visualizzazione del consumismo, Woman with shopping si spinge ancora oltre, aggiungendo alle anonime buste della spesa, ormai flosce di desideri, anche il fardello di un neonato, un terzo incomodo frutto di una relazione evidentemente fallimentare. Sempre in tema di neonati come non citare A girl (2006), un enorme esemplare lungo cinque metri, con ancora attaccato il cordone ombelicale (l’infinitamente piccolo come infinitamente grande); giace steso su una piattaforma asettica, gli arti ancora contratti, gli occhi semichiusi, e sul viso una smorfia indefinibile: dov’è la madre? Vien quasi da pensare di trovarsi di fronte a una sorta di aborto capovolto (la vita giganteggia già nel suo assetto preliminare, e sotto questo punto di vista a mio avviso se ne può trarre anche una lettura in chiave antiabortista). Un’opera analoga è Head of a baby (2003), una configurazione macrocefala di oltre due metri; la notorietà di Mueck è molto legata all’opera Mask II (2001), un’enorme testa di un dormiente (forse un autoritratto dell’artista). Nel ciclo delle Mask (in cui compare anche una donna di colore), Mueck opera una cesura, una scissione: vi compare cioè non l’intera figura ma una porzione (debitamente ingigantita) di essa. Nel campionario mueckiano c’è posto anche per le figure più inquietanti di Standing man (2000), Standing woman (2007) e, in particolare, le già citate vecchine-troll di Two women. Tra le opere più monumentali e affascinanti c’è il famoso Boy (1999), alto quasi cinque metri, raffigurante un ragazzino accovacciato con indosso un paio di pantaloncini; un’opera analoga è il giovinetto accovacciato di fronte a uno specchio, il Crouching boy in mirror (1999-2002).

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Tutti i personaggi sembrano investiti da un soffio di rassegnato torpore, sia che siano addormentati, avvolti in coperte, seduti, inginocchiati o in piedi. Big man (2000), sorta di bonario budda laico e gigante buono, siede nudo per terra, le ginocchia raccolte sul petto, lo sguardo rivolto a un punto indefinito, osserva e medita. Si guardino anche Shaved head e Man under cardigan, entrambe del 1998. A osservarle bene sembra quasi di scorgervi una certa catatonia, seppur lieve e intermittente, una sonnolenza, come un accenno di abbandono. Le figure di Ron Mueck esibiscono membra e articolazioni rilassate, senza tensioni, senza sforzi. Abitano uno stato di calma, una condizione di sospesa permanenza, come cullate da un’intrinseca obnubilazione. Sono sveglie eppure riposano. I loro pensieri sono altrove, in un passato intenso e doloroso e in un presente altrettanto difficile e problematico. Condividono misteriosamente con l’osservatore un dramma comune, l’incomprensibile gioioso dramma dell’esistenza, sempre in bilico tra sogno e veglia, tra perfezione e inadeguatezza. Esalano silenzio, una quiete che rimanda tanto a una desolazione interiore quanto a una incapacità relazionale. È la carne a parlare per loro, e più ancora la pelle (talmente vera da sembrare finta e talmente finta da sembrare vera). La cute – caucasica o africana, tonica o rattrappita, madida di placenta o barbuta – trasuda un’umanità universale e conglobante; la dissimulazione delle resine, delle paste vitree e delle schiume espone, scopre, rivela una verità nuda e cruda, senza alcuna concessione al patinato effimero.

Di certo un grande punto di forza dell’arte di Ron Mueck va ricercato nell’indubitabile perizia tecnica; le riproduzioni fotografiche non restituiscono a pieno l’incredibile verosimiglianza delle sue creature, bisogna vederle dal vivo, avvicinarvisi per coglierne il carattere di eccezionalità. Contrariamente a molti suoi colleghi, non facciamo nomi, l’artista australiano lavora personalmente alla genesi dei suoi personaggi, mettendo mano in ogni operazione, dall’abbozzo alla rifinitura. In un prima fase si avvale di un’armatura metallica, uno scheletro intorno al quale modellare man mano la fibra di vetro, la schiuma di poliuretano, le resine e più in generale i materiali sintetici polivinilici; finito l’abbozzo generale Mueck passa in rassegna ogni singola minuzia cutanea, trapiantando a uno a uno i filamenti delle pelurie e dei capelli. Un lavoro estenuante, chirurgico, da instancabile miniaturista. I tempi di realizzazione, come è facile dedurre, sono estremamente lunghi e richiedono numerosissimi passaggi e infinite cure, ma in questi quasi vent’anni di attività il repertorio mueckiano si è notevolmente incrementato. Le pratiche progettuali e laboratoriali di Ron Mueck sono state ben documentate nel film di Gautier Deblonde Ron Mueck at work, girato nel grande studio londinese dell’artista; il filmato è stato proiettato per la prima volta nel corso dell’ultima grande mostra parigina del 2013 presso la Fondation Cartier pour l’art contemporain (il catalogo della mostra è reperibile ora anche in Italia, con testi critici di Justin Paton e Robert Starr).

Massimiliano Sardina

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Cover Amedit n° 20 – Settembre 2014, “VE LO DO IO” by Iano

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