Lettera aperta ai miei vicini di casa, che verrà appesa nella bacheca condominiale stasera.
Che per forza il mondo va a puttane se delle gocce d’acqua sulle scale ci fan venire la bava alla bocca.
“Buongiorno a tutti,
vi scrivo per informarvi che sto per trasferirmi e che il mio appartamento sarà messo in affitto.
Visto che l’altro giorno, comunicando questa notizia, mi sono sentita rispondere “Meno male che se ne va” da uno dei vicini di casa con cui ero convinta di essere in ottimi rapporti, ho trovato necessario scrivere un commiato articolato.
Venerdì scorso mi sono sentita suonare alla porta, e raccomandare di usare un secchio per l’umido per non sgocciolare sulle scale comuni. Ho garantito di averne tre, di secchi per l’umido: uno arancione, uno azzurro, uno bianco, da scegliere in base a come sono vestita (mica che mi si accusi di mancanza di stile).
Tra tutte le cose che maneggio a mani nude, gli avanzi alimentari non rientrano nella lista.
Le gocce che effettivamente avevo lasciato dietro di me rientrando a casa venerdì mattina erano acqua: mi si era aperta una bottiglietta in borsa, e a dimostrazione di quanto dicevo ho esibito l’arma del delitto e la borsetta stesa sul calorifero ad asciugare. Ma non c’è stato nulla da fare: il verdetto di colpevolezza era già stato emesso e nessuno voleva sentir ragioni, in nome del fatto che “era già successo altre volte, e persino la donna delle pulizie si è lamentata”. Ah beh.
Dato che non mi piace dare gratuitamente del bugiardo al prossimo, ho pensato ai miei sfinteri: ma sono piuttosto certa che non perdano ancora mentre cammino. Se mai ho commesso il terribile delitto di perdere delle gocce per le scale, il colpevole deve essere senz’altro stato il sacco del secco che tengo sul balcone, ritirato magari in un giorno di pioggia.
Scrivo quindi per scusarmi se questo fosse davvero successo, e io sia stata così noncurante da non rendermene conto. Mi scuso anche per tutte le altre colpe di cui evidentemente mi sono macchiata senza saperlo: perché non è possibile che un simile astio (“meno male che se ne va”) sia dovuto semplicemente a delle gocce d’acqua perse per strada.
Ero convinta di avere un basso impatto sulla vita e sul disturbo condominiale. Lavoro come un asino, e spesso sono via. Nell’ultimo anno e mezzo ho lavorato una media di 16 ore al giorno, e quando non ero in ufficio ero davanti al computer, in silenzio. Guardavo la televisione solo mentre stiravo, ascoltavo la musica solo il sabato mattina durante le faccende di casa (e tutta roba piuttosto innocua a un volume discreto). Ho avuto una vita sentimentale stabile, e non ho quindi creato un traffico olgettinico in entrata e in uscita. Ho raramente cucinato il cavolo, non ho mai fritto, e ho anche smesso di fumare: escluderei quindi anche la produzione di odori molesti. Vado a letto presto, non ho mai organizzato feste, non porto i tacchi in casa (non porto proprio i tacchi), non canto, non suono strumenti musicali, non litigo con nessuno (anche se i peluches con cui vivo di tanto in tanto mi fanno incazzare).
Mi sono davvero sforzata di capire come e quando io possa aver dato così fastidio da far desiderare a qualcuno che me ne andassi, ma l’unica cosa che so è che, al presentarsi del problema, me lo si doveva fare presente. Penso che tra persone adulte che devono convivere, la comunicazione – ad un livello adeguato – possa funzionare: un bigliettino nella posta o sullo zerbino, due parole appena possibile, qualsiasi cosa.
La convivenza comporta sempre dei compromessi.
Personalmente non ho mai versato un secchio di acqua saponata sulle teste dei bambini che da maggio a ottobre giocavano in cortile alzando le voci a volumi improponibili impedendomi di lavorare: il fatto che questo avvenisse dopo le 16, e quindi in orario consentito, non legittimava certo le urla da suini sgozzati che facevano tremare l’intonaco alle pareti e le tegole sui tetti.
Eppure non sono mai andata a bussare alla porta di nessuno con una tenaglia in mano, suggerendo di recidere le corde vocali ai ragazzini, per garantire la tranquilla coabitazione: mi sono munita di tappi per le orecchie, e ho cercato di lavorare così.
Se non siamo pronti a tollerare gli altri, esiste sempre la campagna, o la Siberia.
Se vogliamo tollerarli, credo che sia buona norma parlarsi e cercare di migliorare la situazione, senza che il rancore per delle gocce d’acqua sulle scale (o chissà cos’altro) arrivi a creare tensioni, cattiverie e livori che – personalmente – mi risultano piuttosto inspiegabili.
Lavorare così tanto probabilmente non mi ha aiutato a prestare la dovuta attenzione ai dettagli: in generale credo che essere ordinati, puliti e silenziosi non significhi necessariamente essere dei vicini modello (altrimenti Olindo e Rosa avrebbero vinto il premio mondiale MIGLIOR CONDOMINO DEL VENTENNIO anziché essere in carcere a scontare l’ergastolo), ma senz’altro non parlare dei problemi – dandogli il giusto peso e la corretta dimensione – non aiuta.
E dire ad una persona “Meno male che se ne va” non è mai un buon modo per risolvere la situazione, quando prima non si è fatto né detto niente per condividere un disagio.
Se mai dovessi tornare a vivere qui nei prossimi anni, mi auguro che ci sarà un modo diverso di affrontare le cose.
Nel frattempo, mi scuso ancora per tutto il disturbo che posso avere arrecato senza saperlo.
Buon proseguimento.”